Pulsione di distruzione e morte in atto. Clinica del soggetto in guerra

Paul-Laurent Assoun

La versione originale di questo articolo è apparsa su La Clinique lacanienne, 2016, n° 27, col titolo “Pulsion de destruction et mort en acte. Clinique du sujet en guerre”. Il testo viene presentato per la prima volta in traduzione italiana. Ringraziamo l’Autore che ha generosamente concesso traduzione e pubblicazione.

Traduzione di Angela Peduto

“Per fortuna la guerra è così terribile, altrimenti finiremmo per amarla troppo”.

Queste parole non derivano da un qualche paradosso analitico: sono la confessione di un uomo di guerra [1] e introducono alla perfezione l’operazione inconscia in gioco. Come può accadere che il soggetto goda di ciò che lo terrorizza e lo minaccia di distruzione al punto da doverne tenere a mente il carattere terrificante? Al punto da dover ammonire sé stesso di resistere a ciò che potremmo chiamare … “amore della guerra”?

Eccoci reintrodotti alla questione psicoanalitica: “Perché della guerra?”. È  la traduzione letterale della domanda freudiana Warum Krieg?, più esatta della consueta traduzione “Perché la guerra?”. Qui “la guerra” è presentata, secondo un  procedimento inaugurato dalla Psicomachia [2], come un principio allegorico.  Occorre far zittire il sostantivo per sentire meglio il partitivo. È questa in un  certo senso la questione freudiana, che la psicoanalisi eredita.  L’eventualità antropologica cronica della guerra non è per la psicoanalisi  un oggetto di importanza secondaria né un semplice discorso d’occasione – fosse pure quella, massiva, della Grande Guerra che ha spinto Freud a  scrivere sulla guerra e la morte, inseparabili.  

Il fenomeno della guerra rivela, per l’inventore della psicoanalisi, un  elemento cruciale del politico – lo si può considerare, da Clausewitz in poi,  una “continuazione della politica con altri mezzi”- ed è certamente la questione del politico, il suo momento di verità. Al tempo stesso rivela la  funzione inconscia dell’aggressività.  

Ora, il riesame delle posizioni freudiane in merito si rivela prezioso per l’attualità stessa del fenomeno bellico – attualità in qualche modo cronica.

PERCHE’ LA GUERRA? LA POSTA IN GIOCO INCONSCIA DI UN DRAMMA

In Freud si incrociano intimamente diversi aspetti:

- da un lato, c’è un discorso congiunturale, relativo all’attualità urgente e opprimente del conflitto mondiale e alla necessità per lui di prendere posizione per quanto riguarda sia la Prima Guerra mondiale sia il disagio del periodo “interbellico” (entre-deux-guerres) [4]: lo attestano gli scritti del 1915 – culmine della sua riflessione – e del 1932, anno del carteggio con Einstein in forma di “lettera aperta” pubblicata sotto l’egida della Società delle Nazioni. Se la psicoanalisi interviene nel discorso della/sulla guerra, che cosa può enunciare in proprio? un discorso, certo, ma che non sia "finzione" (du semblant), visto che abbiamo a che fare col reale stesso del collettivo. Discorso per definizione "contestuale", perché è il contesto che convoca a pensar(la), la guerra, salvo a un certo punto smascherare ciò che appartiene al contesto per liberare testualmente quel“significato fuori  contesto” che è il reale inconscio; 

- dall’altro lato, c’è un problema clinico e metapsicologico, quello che porta  alla questione del trauma – di cui la guerra rinnova la clinica, se non la problematica - e della morte, nel fare-opera di morte collettivo: il che  ancora una volta convoca il reale: perché forse mai si è più insieme che nell’elemento separatore della guerra. 

Tutto ciò disegna l’articolazione tra le due dimensioni del soggetto della  guerra: lo statuto dell’aggressività e il suo rapporto alla Cultura.

GUERRA, STATO E STORIA

La parola “guerra”, che inizialmente designava scompiglio, disordine,  scandalo, contesa, ben presto ha preso l’accezione di “lotta armata tra  gruppi umani o tra Stati”. Presuppone un dissenso tra individui o entità  statali. Implica dunque la nozione di nemico e l’idea di un confronto  duraturo con questo “nemico” (è il soprannome del Diavolo nell’uso  cristiano primitivo). Essa è anche correlativa alla nozione di Stato, che  dev’essere costituito per entrare in guerra con i suoi pari, gli altri Stati. Non  c’è guerra senza gelosia tra gli Stati, essendo “causa” della guerra ciò che  alimenta il fuoco di questo ardore aggressivo fino al punto in cui non c’è  risoluzione possibile se non nello scontro e attraverso lo scontro. 

La guerra non è che un evento della Storia, definisce e designa una parte di  storia: si parla dell’”anteguerra” e del periodo “tra le due guerre”, cosicché essa ritaglia diacronicamente il divenire storico. Segno della sua incidenza  traumatica, crea un inciso nella continuità della storia, inscrivendo un taglio irrimediabile tra il “prima” e il “dopo”. La guerra s’incarna come rovescio del legame sociale, momento acuto di slegamento, pur creando paradossalmente un legame intenso tra coloro che mette alla prova. Sta in  agguato lungo il corso della Storia, impedendole per sempre di considerarsi un lungo fiume tranquillo, a meno di non voler fraintendere la sua  tendenza ad assopirsi. La guerra è insomma un volto della Storia stessa. 

E la guerra come oggetto inconscio? Il ritorno periodico delle metafore  militari nella metapsicologia freudiana [6] lo conferma: la conflittualità  psichica impone questa dimensione agonale - o agonistica. Ammiratore in  gioventù del maresciallo napoleonico Masséna, Freud metapsicologo non  considera forse lo spazio psichico - “la psiche è estesa” - come attraversato  da forze? Il metapsicologo ha la sua cartografia da stato maggiore – chiamata topica -, la sua logistica - chiamata economia -, e la sua lettura  strategica – battezzata dinamica. Questo fa del metapsicologo uno  stratega, che trova ispirazione perfino nella pittura militare, come  vedremo. 

REALE BELLICOSO E DESIDERIO DI PACE 

La guerra, dato storico massivo, fa irruzione nella storia. Il “trattato di pace” è solo un intermezzo tra due guerre. Ottomila trattati di pace si intitola un libro [8] di “polemologia” o scienza della guerra, oggettivamente ironico, perché la molteplicità dei “trattati di pace” sigla il fenomeno ricorrente dello scontro. Quando la pace è duratura si può in qualche modo ritenersi soddisfatti per aver battuto un record di non-guerra…

Dovremo dunque considerare reale semplicemente ciò che viene prima,  essendo la pace tanto una pausa o un diversivo quanto il suo contrario. C’è una “commedia della pace [9]”, il che ne fa un tema tragicomico; ma c’è  anche un desiderio di pace, di una “pace perpetua”, diceva Kant [10], che vada  al di là delle semplici e multiple “cessazioni di ostilità”. Ideale regolatore,  tendente a rimpiazzare una serie di piccole paci congiunturali e provvisorie  con la Pace propriamente detta, che in effetti non è altro se non un’Idea  regolatrice della Ragione politica: Kant non è un mite sognatore, posizione  fatale per pensare la guerra. 

Se la vita si definisce come resistenza alla morte, con le risorse delle sue  “funzioni”, come sostiene Bichat, la pace è ciò che manifesta la resistenza  alla guerra … salvo che ci sono paci mortifere e guerre la cui necessità è  vitale. Verità che l’imperativo “fate l’amore e non la guerra”, adagio hippie  degli anni ’70, evitava: pio desiderio più facile da nutrire sotto l’effetto  della sostanza. E se l’idea suggerita è che solo Eros è all’altezza di Thanatos,  vi si trova disconosciuto il fatto che il soggetto sovente gode più della  distruzione che dell’amore. Che poi degli schiavi vinti facciano l’amore  sotto l’occhio del Padrone vittorioso, è una divertente bizzarria erotica (da  cui solo il masochista potrebbe trarre ispirazione). Senza contare  l’essenziale: che l’amore può essere guerra, come facilmente dimostra la  cronaca della coppia umana … 

DAL “FIORE SUL FUCILE” (LA FLEUR AU FUSIL) ALLA GUERRA STANCA DI  SÉ  

Perché la guerra “scoppia”? E perché, questione altrettanto significativa, finisce? Come può il fiore ornare il fucile [11], dando all’inizio delle guerre l’aspetto di un amore nascente, di uno straripamento di piacere collettivo,  come nel 1914, quando il legame nazionale si fa sentire “a passo di carica” prima di trasformarsi in fine in crisantemo? C’è nell’espressione l’idea che  è l’arma – quella che dà il nome all’”armata” – a far sprizzare la fiamma, come la selce (“pierre à fusil”, pietra focaia), quasi fosse strumento  fantasmatico di rifioritura, sollievo drastico dal disagio cronico dei tempi di  pace. Lungamente temuta, la guerra può avere l’effetto immediato di alleviare un’”attesa ansiosa”, ribaltata da un giorno all’altro in “attesa  credente”. La pace, a modo suo, separa, laddove la guerra unisce, in  un’effusione maniaca, grazie alla designazione di un nemico comune.  L’andare-in-guerra come “un sol uomo”: ecco una vertigine che svela il  guadagno della guerra, nel suo momento di initium. È un fatto che la guerra  fa cantare, sull’aria di Malbrough se ne va in guerra [12]: ritornello irresistibile  dal XVIII secolo, dove si dimostra che la derisione del nemico può contribuire a renderlo popolare, Malbrough diventando un emblema  “tragico” del destino del combattente.  

Come, d’altronde, lo scontro può cessare? Per “mancanza di  combattenti [13]” certo, ma anche per raggiungimento di un limite:  l’espressione “stanco di guerra” (“de guerre lasse”) potrebbe essere il  significante fondamentale, a condizione di sottrarre l’ablativo latino [14] per  ottenere “la guerra che è, che diventa stanca” (sebbene essa si riveli anche  instancabile).  

Il fatto è che la guerra produce una fatica di un genere speciale, estremo, perché attinge dai corpi. L’espressione suggerisce non solo che i guerrieri possono essere profondamente stanchi di guerreggiare, ma che la guerra in persona, quella che gli uomini fanno ma che mostra di dominarli, come Polemos, può diventare stanca di sé stessa, disgustata – il che permette quanto meno una pausa, un intervallo e genera un gusto inedito per la vita, un’aspirazione alla felicità difficilmente sopportabile in tempi di pace. “La”  guerra, creazione allegorica, è fatta dall’aggressività umana, ma sembra prenderne possesso, come un fatum, cosicché impone la sua legge e crea uno stato di “anomia” dove tutto sembra possibile, introducendo una scansione nel tempo collettivo. 

FREUD ALLA PROVA DELLA GUERRA 

E Freud allora? Freud si confronta con l’invenzione della “guerra di massa”.  A titolo personale, si dichiara partigiano risoluto della pace, piuttosto che “pacifista”. Nessun bisogno di insistere: va da sé dal momento che ci si  rivendica “uomini di cultura”. Krieg e Kulturmensch sono due realtà reciprocamente allergiche. Ma ci sono molte forme di pacifismo, la più  attiva delle quali, al suo tempo come in tutti i tempi, è quella di una viltà razionalizzata come ideale, di una propensione alla servitù mascherata da difesa della Libertà. Pensiamo a Monaco, il 29 e il 30 settembre 1938, un  anno prima della morte di Freud, quando l’Europa capitola davanti a Hitler  per salvare una pace disonorevole, nella filiazione di pacifismo e collaborazione [15]: da allora l’”effetto Monaco” appare ricorrente in Europa, dove resta torpidamente presente. 

A Freud nulla appare più ripugnante, strutturalmente, dell’idealismo in  politica. Sappiamo l’antipatia viscerale verso Wilson [16]: in campo politico l’inferno è lastricato delle migliori intenzioni. La posizione di Freud si fonda  sul convincimento che la guerra è inerente all’umano, che è il reale stesso della pulsione di distruzione. Impossibile sfuggire a questa pulsione con i suoi effetti devastanti. Freud accetta pubblicamente la contraddizione che deriva dal non voler rinunciare al desiderio di pace benché non se ne trovi traccia nel reale dell’inconscio, non più di una qualche “pulsione di perfezionamento”. Il desiderio di pace, per Freud come per Kant, benché  con modalità diverse, è un imperativo della Ragione politica. Per colui  che, lontano da ogni forma di irenismo, conosce la potenza della guerra, la  pace si impone come imperativo categorico del “diritto politico”. L’adagio  “Se vuoi la pace prepara la guerra” (si vis pacem, para bellum) è dedotto dal realismo del conflitto. Chi disconosce il rischio della guerra in nome di  un universale unificante ignora di essere designato dal nemico come tale.  Se ne vedono gli effetti: perire sotto i colpi del nemico reale abbracciando  il fantasma di pace. Se la questione è datata, lo è in modo eloquente nel  tempo presente, che instancabilmente ne rimette in gioco la struttura.  

“PERCHE’ DELLA GUERRA?” 

Eccoci dunque alla questione più “realeista” (“réelaliste [19]”): perché  l'uomo ha bisogno di guerra? 

Notiamo che quando parla della guerra e della morte, Freud lo fa ogni volta rivolgendosi a un destinatario: dal Circolo ebraico B’nai B’rith, dove discute della morte nel 1915, dopo la sua “traversata del deserto”, alla Società delle Nazioni, nella persona di Einstein, nel 1932. Siamo sul terreno del discorso, nella sua funzione sociale, quella del cittadino Freud, ma l’inventore della psicoanalisi non può astrarre dagli insegnamenti antropologici della clinica dell’inconscio. Non ci si intrattiene sulla guerra tra sé e sé (a meno di non trovarsi in un delirio, dove la guerra può rivelarsi per lo psicotico un fastidio personale), ma occorre porsi al di fuori – perché la guerra è un fuori, esige un “pensiero del fuori”. È un modo per “mettersi al di sopra della mischia”, come Romain Rolland, ma senza pathos, sapendo che la guerra produce una mischia alla quale nulla sfugge. Anche quando parla della Vergänglichkeit (la caducità) che la guerra rivela, ancora una volta è in forma di dialogo, benché più confidenziale, perfino intimo, tra persone che passeggiano sulla riva della Storia. La guerra, questa figura del furore collettivo, spinge a discorrere: è quel “fuori” che convoca la parola.

Specialmente perché rivela l’irruzione del vergänglich (l’effimero) nel cuore della Cultura.

IL DRAMMA DELLA GUERRA 

È evidente che Freud si sforza di descrivere, con le risorse della psicoanalisi,  la situazione psichica corrispondente allo stato di guerra (Kriegszustand),  al di là delle coordinate politiche, economiche e storiche, peraltro essenziali  da prendere in considerazione. Se la guerra è “cattiva” e distruttiva, è  comunque un dato antropologico. Inoltre è il nemico implacabile che  insegna al soggetto la sua verità, più dell’amico compiacente che più o  meno ne sostiene le illusioni. Come per il tossico, non basta deplorarne l’esistenza (“non dovrebbe esistere”); la guerra non si scrive al congiuntivo (“se non esistesse”) e all’ottativo, ma all’indicativo, modalità del trauma.  Interviene qui il processo della “drammatizzazione [20]”, processo che Freud  postula nella formazione del sogno: “A partire da queste immagini, il sogno  crea una situazione, rende attuale un fatto, drammatizza un’idea”.  Presentazione del pensiero al presente con omissione del “forse”. C’è in  questo senso un dramma della guerra, correlativo al vissuto di  drammatizzazione: entrando sul teatro di guerra il soggetto si confronta  con l’attualità dell’aggressività, che le conferisce un carattere di reale inconcepibile, in un clima da incubo. 

Ma perché l’individuo e l’umanità danno alla guerra “un posto fisso nella loro libido”? Al di là dell’indignazione, si tratta di cogliere il reale bellicoso, modo migliore per tentare di rispondere alla domanda “che fare?” o “che farne?” Pensare di preservarsi dalla guerra presuppone di spiegare come essa funzioni [21]e che cos’è questo oscuro amore per la violenza che lavora l’inconscio. La questione della “prevenzione” (Kriegsverhütung) è certo il fine della corrispondenza attivata dall’Istituto di cooperazione intellettuale della Società dele Nazioni tra Einstein e Freud. Verhüten: impedire che sopraggiunga qualcosa di indesiderabile. Il problema è che c’è precisamente un Wunsch (un desiderio) di guerra, una “bellicità” ancora  più radicale del carattere bellicoso delle circostanze. 

LA GUERRA O LA VERITA’ DELLA MORTE 

Dall’angoscia dell’anteguerra alla guerra, prova di verità del soggetto

La diagnosi freudiana circa l’irruzione della guerra comporta due elementi  essenziali: disillusione in rapporto agli ideali della Cultura e modificazione dell’atteggiamento verso la morte [22]. 

La guerra, considerata in assoluto, è in grado di aprire le porte alla barbarie.  Da non confondersi con la ferocia, quando la crudeltà si scatena per diventare terrore e tende a far sorgere la guerra nel cuore dello stato di  pace [23]: la barbarie denota un atteggiamento ostile verso la Cultura stessa.  Il testo sulla “caducità”, situato retrospettivamente nell’immediato  anteguerra, descrive questa crisi che si inscrive nella soggettività come  angoscia e melanconia per gli ideali della cultura. C’è in effetti un clima  speciale dell’”anteguerra”, quello stato particolare di anomia che precede  l’irruzione del meteorite con la sezione in due della temporalità, dove la  soggettività, prima di esplodere, si decompone. Questo stato è come la “manifestazione elementare” dello scoppio bellico e fa parte a pieno titolo  del circuito della guerra, nella forma del “non-ancora-arrivata”. Il fatto è  che la guerra inizia un certo tempo prima del suo scoppio: lo si può  riconoscere da segni clinici precisi. È così che dobbiamo rileggere la  passeggiata sul bordo della Storia, in quel clima ovattato che precede il  rumore delle armi – la guerra, al contrario, è nell’ordine del fracasso -,  rievocato dopo che la guerra ha avuto inizio e che prende il suo senso in  questo après-coup

La morte o “lo stato d’eccezione” nel quotidiano 

C’è di più: lo stato di guerra instaura un rapporto d’eccezione con la morte,  inscrivendola nella cronaca del quotidiano. È l’occasione funebre dove “si contano i morti”, il che modifica il rapporto con la morte. Essere e vivere  in stato di guerra, come combattente o come spettatore, al fronte o nelle retrovie, obbliga a guardare la morte in faccia, o quantomeno a coabitare  con essa, perché ogni giorno i cadaveri si accumulano. La posta in gioco è il rapporto che “abbiamo con la morte”, dunque il “rapporto con la morte” del soggetto. Ora, per Freud, il soggetto non crede alla propria morte,  benché sappia che morirà – a meno di non precisare cosa sia un tale  “sapere”.  

Differenza significativa con Lacan, per il quale l’idea della propria morte  permette di sopportare meglio le prove del vivere e del desiderare: “Avete ragione di credere che morirete – ricorda ai suoi uditori – Questo vi  sostiene! Se non ci credeste, potreste sopportare la vita? Se non foste solidamente ancorati alla certezza che finirà … potreste sopportare questa  storia? [25]”. Egli nota peraltro che “siamo sul terreno della fede”, che “è solo un  atto di fede”. Freud, dal canto suo, sottolinea questo allontanamento  “innato” del soggetto dall’idea della “propria” morte, alla quale non presta  fede. Di cosa in effetti può “fare fede” quell’irrealtà fatale che è il diventare-morto? Ed è la potente inclinazione ad aggirare l’idea della  morte che si rivela particolarmente spinosa in tempo di guerra. La  tempesta renderebbe realisti? La guerra si oppone a – ed è in contrasto con – questo diniego cronico, è la congiuntura per eccellenza dove il  diniego si trova ostacolato oppure si impone una sua esacerbazione, tanto da creare una totale “confusione di sentimenti”. È questa la  “lezione” della guerra: essa spazza via “il modo convenzionale di  considerare la morte. La morte non può più oggi essere rinnegata; siamo  costretti a crederci. Gli uomini muoiono veramente”. Gli uomini muoiono  veramente, ecco una sorpresa per chi si è addormentato sul soffice cuscino  della pace, che prolunga il diniego della mortalità e il tranquillo stato di “a mortalità” assicurato dallo scudo narcisistico (arma utile in ogni stagione!). Gli fa eco il russare europeo del periodo interbellico, cui il fracasso delle  armi della “guerra annunciata” porrà fine brutalmente e prevedibilmente. 

E riecheggia qui l’espressione “si vive una volta sola”: voce che ora si innalza quando in tempo di pace si fa sentire solo a mezza voce. Adagio tanto più importante da ricordare e intendere [2]in quanto il suddetto  “mortale” non crede “veramente” alla morte che gli è promessa - linea che  attraversa l’orizzonte della vita, spada di Damocle da cui sa come distrarsi.  La guerra è una situazione di esperienza forzata della morte, che,  intensamente frequentata, modifica l’atteggiamento del soggetto verso  questo reale. Soprattutto, si muore insieme, benché ciascuno dalla propria  parte, da dove vede morire gli altri. È questo che crea un fossato tra quelli  che hanno vissuto la guerra e quelli a cui la “diretta” è stata risparmiata. È anche ciò che spiega il clima così speciale del “dopoguerra”: se ne vedono gli effetti libidici in coloro che si risvegliano dal fantasma di immortalità con  una eccitazione di vivere bulimica e un appetito di nuovi rapporti col desiderio e la scrittura. Lo stato di “furore” creato dalla guerra lascia la sua  traccia di frenesia indimenticabile, che può inscriversi come nostalgia in chi è tornato alla pace senza mai essere in pace … Questo aspetto è tanto più  significativo in quanto l’esercito è definito dal controllo e dal rispetto  incondizionato del comando, cioè dalla disciplina: la guerra introduce il  furore in questa “folla artificiale”. 

Da notare infine che Freud avanza un’ipotesi originale circa l’origine del  desiderio di ricerca: “Il conflitto emotivo di fronte alla morte di una persona amata e ciononostante anche estranea e odiata ha dato corso all’umana ricerca [27]”. Di fronte al cadavere della persona amata il lutto originario farebbe nascere il pensiero. Il ricercatore sarebbe un orfano ambivalente  … La ricerca sa di autopsia. E il ricercatore più vivace ha qualcosa del  medico legale che interroga il palpito del suo oggetto. Questo vale per ogni  morte, ma l’accumulo dell’esperienza delle morti potrebbe fare della  guerra un eccezionale cantiere di ricerca. 

“Vivere non è necessario”: l’attrazione segreta della guerra

Più profondamente ancora, rischiare in qualche modo la vita è condizione per esistere. L’essere che non rischia mai la propria vita è un morto-vivente. “Escludere la morte dai conti della vita” porta ad altre rinunce, dice con una bella formula Freud. Con la guerra diventa difficile, se non impossibile: insistendo sull’immagine freudiana, si è “pagati per sapere” che occorre  pagare il conto (Berechnung designa la “fattura”). Nella tormenta della  guerra diventa lampante che con la morte occorre “fare i conti”, la morte  a cui, secondo la formula di Bichat, la vita non fa che resistere [28], che la  metta da parte o la concepisca come interruzione della vita, mentre ne è  l’energia negativa. 

Ciò rivela che “navigare è necessario, vivere non lo è”, come diceva  Pompeo ai suoi soldati mentre si imbarcavano sulle galere, in un mare  infestato dai pirati. Ma “la guerra elimina le successive sedimentazioni  depositate in noi dalla civiltà e lascia riapparire l’uomo primitivo [29]”; “ci  addita gli stranieri come nemici […] e ci invita a sopportare con serenità la  morte delle persone amate”. Se in Freud non si trova certo alcun elogio  della guerra – è fuori discussione per chi ha la sua appartenenza culturale  -, egli deve constatare che la guerra accresce il sentimento di esistere,  dando non una ragion d’essere, ma un modo per tradurre in pratica il proprio malessere, come suggerisce la clinica dell’”avventuriero” o del  mercenario … Poter perdere la vita rende la vita degna di essere vissuta, come indica a contrario il vissuto struggente delle “Liberazioni” o fine delle  guerre (“finale di partita”). 

Possiamo comprenderlo meglio constatando il degrado del rapporto con la vita negli stati di pace duratura. Le condotte cosiddette “a rischio” dei  tempi di pace, le tossicomanie, i suicidi traducono questo deterioramento del valore di una vita che non rischia seriamente. “Ci vorrebbe una buona  guerra!” esclama allora un certo sadismo popolare dei vecchi, rivolgendosi ai “giovani” dei tempi di pace a partire dalla propria presunta esperienza di  guerra. E tuttavia, le anoressiche a cui si indirizza questo richiamo sono esse pure in guerra per esistere, in tempi di pace deprimenti, ideali e vessilli  familiari a mezz’asta. Se non altro, viene sollevata di sfuggita la questione  dell’equilibrio tra vita e morte. Potremmo supporre che è quanto cercano  i soggetti alla “scuola della guerra”: “Restituire alla morte, nella realtà e nel nostro pensiero, il posto che le compete [31]. Dal che la conclusione: “Se vuoi poter sopportare la vita, disponiti ad accettare la morte”. Ecco che la  guerra dà allo scritto di Freud del 1915, che nella sua corrispondenza egli  designa modestamente come “chiacchiere d’attualità [32]”, la portata di una  vera meditazione sulla morte, con le risorse della psicoanalisi, senza il  corollario del pathos di riprovazione, perché il tema stesso esige che non ci  si accontenti di parole vuote … 

CLINICA DEL SOGGETTO IN GUERRA 

Il trauma della guerra o l’angoscia del doppio 

L’evento della guerra dev’essere esaminato a partire dal combattente di  oggi: nel 1915 Freud dice di conoscerne male la psicologia, rifiutando con  ciò di impegnarsi in un vano esercizio. In effetti non c’è psicopatologia del  combattente come tale, ma piuttosto una messa in atto dell’inconscio  attraverso lo scontro! Tre anni più tardi, proprio alla fine della guerra,  quando il frastuono si è a malapena placato, Freud presenta le  “psiconevrosi di guerra [33]. 

Che cosa apprendiamo? Che il trauma è caratterizzato dal crollo dello schermo “para-eccitazioni”. Numerose metafore militari affluiscono nel cuore della metapsicologia, dalla “difesa” (Abwehr) al Reizschutz (barriera protettiva), che impone l’idea di un “fronte” di guerra rispetto all’eccitazione [34] nemica. L’esperienza traumatica mostra lo slegamento pulsionale, il trauma agendo come fattore di slegamento. Non a caso nel saggio sull’”al di là del principio di piacere”, l’elenco delle manifestazioni cliniche che lo comprovano comincia con le nevrosi traumatiche, specialmente in situazione di guerra. Freud ne parla immaginando che i detrattori della spiegazione analitica coglieranno l’occasione per relativizzare e denegare la portata del trauma sessuale, dando priorità al trauma meccanico su quello psicosessuale. Ne abbiamo conferma da quando prevale la teoria dello “stress post traumatico”, nuova vulgata della vecchia teoria dello “choc”, il cui successo si trova così garantito. È opportuno chiarire che il trauma di una violenza meccanica - effettivamente eccezionale - è anche causa occasionale per la riattivazione  di traumi antichi e individuali. Freud avanza, in particolare, un suggerimento decisivo circa la scissione tra l’”Io di pace” e l’”Io di guerra” del soldato, creata dalla situazione di guerra [35]. Si tratta di un progresso clinico a nostro avviso capitale: il soggetto in guerra si “ammala [36]” quando  è schiacciato tra il nemico - che si trova nella trincea di fronte - e il nemico che contemporaneamente diventa per sé stesso, sotto la pressione della  situazione nuova e nell’”imbuto temporale” creato dalla situazione inedita. Secondo la formula freudiana, “[il conflitto] diventa acuto non appena l’Io  pacifico si rende conto di rischiare la vita per colpa della temerarietà del  suo recente parassitico duplicato”. 

Il trauma provoca una scissione verso ciò di cui il soggetto si sente capace - le sue Wagnisse, le sue iniziative inopportune (sentiamo risuonare il verbo wagen, osare): momento di panico della pulsione di autoconservazione,  narcotizzata dalla prova del fuoco, quando egli si sente capace di tutto o  quasi. Le “tempeste d’acciaio [38]” scatenano tempeste segretamente  desiderate, secondo la formula di Chateaubriand, benché il finale non  abbia nulla di romantico.  

Da qui la fuga nella “nevrosi traumatica”. Il segno principale della psiconevrosi di guerra è un tremore di indescrivibile violenza (lo si può giudicare dagli impressionanti documenti cinematografici degli ospedali militari dell’epoca). Non che il soggetto sia stanco - come Freud ricorda quando viene consultato per la questione delle “simulazioni” in seguito all’affare Wagner- Jauregg, lo psichiatra accusato di abuso del trattamento elettrico [40]: se ha paura della sua ombra è perché si attualizza una tendenza suicidaria compulsiva che nulla può fermare, che terrorizza il soggetto e che, suo malgrado, lo precipita verso la morte.

La guerra come magia nera 

Comprendiamo la complessità del rapporto con la propria morte del combattente: da un lato, non può più organizzare il comune regime di  diniego, dall’altro, frequentando la morte, instaura con essa un rapporto speciale, magico, attraverso cui la guerra prende una dimensione di “magia  nera [41]”. Egli deve vivere con la possibilità cronica della propria morte - ogni  giorno si pone il problema di sapere se “sarà per oggi”, ogni momento  contiene la possibilità del cattivo incontro. Ma il suo doppio - “angelo  custode”, custode del corpo e angelo di morte - si incarica di instaurare quel rapporto magico che coniuga riconoscimento e diniego del rischio mortale. Questo permette di vivere in tempo di morte … 

Lo dimostra l’aura di tabù che circonda l’”ex-combattente”. Espressione  molto contraddittoria, perché il “combattente” è l’uomo del momento, si scrive “combattant”, cioè colui che sta combattendo. L’”ex” combattente si scrive al passato, segnando così il ritorno del rimosso - come il “mutilato  di guerra” che, passato il momento dell’eroismo e del martirio, finisce per angosciare il trantran quotidiano. Colui che “è tornato” ci rende noto che il suo doppio l’ha ben consigliato o l’ha risparmiato, piazzandolo nel posto giusto dove l’obice o un altro proiettile non l’ha colpito: “per un pelo”,  come si usa dire. Espressione decisamente divertente, perché il “combattente” è per definizione in atto: per questo i cosiddetti “ex”  formano associazioni e fanno così fatica a invecchiare: sopravvivere in stato  di pace è una sfida spaventosa per coloro il cui corpo resta, come una  lancetta, fissato all’ora della guerra e della morte imminente. “Che cosa  vuole da me l’Altro per avermi risparmiato?”: è la domanda che  furtivamente si aggira intorno a tali problematiche soggettive.  

“Magia nera”, dunque, ma che mostra come nel cuore del rumore e del furore della guerra, la morte, “Padrone assoluto”, non sia affrontata in modo frontale, nemmeno al “fronte”. Là ancora occorre saper giocare (“d’astuzia”) col Padrone - il che produce quella variante di umorismo nero che si fa beffe del Super Io [42]del combattente (e ne assicura il fascino letterario e cinematografico). È quando perde la battaglia contro il suo  doppio che il combattente prende la via dell’”ospedale militare”. 

Il “fronte” e le “retrovie”: attori e spettatori della guerra 

La guerra taglia il mondo sociale e quella che si chiama “nazione” in due  parti: il “fronte” e le “retrovie” - in tedesco Hinterland, “retroterra”. La  guerra non è la stessa, vista dal lato militare e dal lato civile. Freud, non  dimentichiamolo, parla da spettatore, “non mobilitato”. Il non  combattente, presentato volentieri come “femminilizzato”, è colui per il  quale la guerra si riduce allo sguardo. Il che non è sempre faccenda da  poco: si apre qui la patologia dello spettatore. Benché non si confronti direttamente con la prova del sangue, egli è esposto alla passivizzazione  che accompagna il fissare con lo sguardo il trauma dell’altro e nell’altro.  La guerra è decisamente una figura spettacolare. Il filosofo soldato Gray ne dà una lucida descrizione, collocandola ai confini tra il “godimento  della vista” e il “godimento di distruzione”: al centro, l’attitudine a  fraternizzare grazie al fuoco dello scontro e all’esposizione, tutti, allo stesso  pericolo. Strano erotismo di spostamento delle “masse d’uomini”, il che ne  fa un capitolo della Psicologia delle masse: “C’è spesso una strana ma  autentica bellezza, scrive Gray, nello spettacolo di uomini e armamenti  ammassati in battaglia [43]”.

Tornando all’emozione militare da cui siamo  partiti, pare che sia stato “lo spettacolo delle colonne che avanzano sotto  il fuoco nemico” ad aver strappato a Lee, durante la guerra di Secessione,  la confessione di una bellezza del terrore. O meglio: la coscienza del terrore sbarra, nel cuore della guerra, il godimento dello spettacolo distruttivo, ma  lo vela solo in parte. Ecco allora il fascino degli eserciti alleati pronti a sbarcare, evocati da Gray mentre contempla il cielo illuminato dagli aerei, fuoco d’artificio liberatore. 

Da un altro punto di vista - è il caso di dire -, quello della guerra stessa, non si vede nulla. È quanto sperimenta il Fabrizio stendhaliano a Waterloo, quando cerca di passare dalla condizione di spettatore a quella di attore e, sul bordo del campo di battaglia, si accorge di non vedere nulla - il che gli vale comunque la reputazione di eroe presso le dame [44].

Sappiamo però che chi assiste alle sevizie, come nei traumi familiari, finisce per  essere spesso il più “malato”. Con un ribaltamento della passività in attività  (e non, come nel destino pulsionale, dell’attività in passività), può arrivare  a far scorrere il sangue nell’après-coup, per appropriarsi, in “dissolvenza”  (fading), della scena di violenza da cui fu originariamente escluso come  attore. Così s’incista il godimento (jouissance). In modo più (falsamente) tranquillo, chi resta indietro, chi a volte si pensa sia “nascosto” mentre  assiste alla morte dell’altro, organizza un rapporto di colpa basato sulla  passività ma fantasmaticamente attivo; paradossalmente, è lui che potrà portarsi dietro l’impatto col reale della morte, laddove l’uomo al fronte avrà saputo eluderlo con le pratiche magiche prima evocate … Ci troviamo nel  cuore della clinica del soggetto in guerra

La vena militare della strega metapsicologica si fa sentire di nuovo: sotto la penna del metapsicologo si impone un paragone per designare il posto rispettivo dell’”Io” e dell’”Es”: “Pensi alla differenza tra il fronte e l’interno del paese, durante la guerra. Allora non ci meravigliavamo affatto che al fronte le cose andassero diversamente che all’interno, e che all’interno fossero permesse cose che al fronte dovevano invece essere vietate. L’influenza determinante era naturalmente la prossimità del nemico; per la vita psichica essa è la prossimità del mondo esterno. Fuori, estraneo, nemico erano una volta sinonimi [45]”. Così, l’Es è la retrovia, l’interno del paese, e l’Io il fronte. D’altra parte, disegnando il campo di battaglia delle istanze, l’Io, istanza della percezione, affronta – frontalmente – il mondo esterno, e in più deve battersi contro altri due fronti, l’Es e il Super Io, mentre l’Es ignora i conflitti. Avremmo potuto pensare che l’Es del combattente potesse scatenarsi in guerra ma, in questo contesto, Freud presenta l’istanza pulsionale come protetta dal conflitto.

La “pulsione di distruzione” in atto

Osserviamo che nel carteggio con Einstein - “Perché (del)la guerra?” - la  lettera di Freud comincia con una lunga lezione di geopolitica. Freud arriva  a suggerire al suo corrispondente che lui, il fisico, ha detto l’essenziale  quanto all’aspetto “psicologico”, avendo preso atto della pulsione  distruttiva. Solo dopo aver completato il repertorio “politologico” egli  introduce quanto di più specifico ha da dire la psicoanalisi: la pulsione  distruttrice e mortifera è un derivato della pulsione di morte, ben al di là dunque di una generica inclinazione alla violenza. Questo vuol dire che  mettere l’accento sulla tendenza all’aggressività resta soltanto un luogo  comune, astratto come ogni luogo comune, se non viene nominata la vera  energia metapsicologica, la pulsione di morte, che nell’aggressività trova il  suo sbocco distruttivo. La guerra permette di prendere la misura di questa  “esternalizzazione” (mise au dehors) della pulsione di morte, di cui  rappresenta la parte pratica e, in un certo senso, la dissimulazione.

Qui  viene in soccorso il pensiero presocratico di Empedocle [47] quando parla del  Neikos: lo si rende come “Odio” ma, più letteralmente, designa la “Disputa”, battaglia in parole e in atti, o, anche, la “Discordia”. Si oppone  in tal senso alla Philia, Amicizia o Concordia, il che dà alle guerre di tutti i tempi il sembiante di “Campi Catalaunici [48]”.  

Questo proliferare di rappresentazioni spettacolari non deve far perdere di  vista che occorre ritradurle sul piano metapsicologico in termini di forze pulsionali, miti dalla “grandiosa indeterminazione”. È un caso se Ares (Marte), dio della guerra, è sposo di Afrodite (Venere) e, in una delle sue genealogie, genera un certo Eros? Del padre, Eros conserva la natura  bellicosa. 

Per pensare che ci sia una pulsione di distruzione non c’è bisogno della psicoanalisi: ciò che la psicoanalisi apporta di specifico è la derivazione di questa Destruktionstrieb dalla pulsione di morte - con quanto ne consegue sul piano clinico -, e la sua tensione con le pulsioni di vita, cuore della violenza interna [49] Quel “disaccordo” capitale che è la guerra realizza la situazione di pieno impiego … della pulsione di morte [50], nel suo intero arco  di distruzione, soppiantata solo dal terrore, che fa guerra ai civili e da cui  avremo cura di distinguerla.  

Il termine Todestrieb (pulsione di morte) figura nel testo sulla guerra, ma è  sostituito da quello di “pulsione di distruzione” (Destruktionstrieb). La pulsione di morte, espressione della tendenza fondamentale del vivente e  della vita psichica a ritornare ad uno stato anteriore, inorganico, si  manifesta con la ripetizione di condotte che sfuggono al controllo del  principio di piacere. La pulsione di distruzione, che trova il suo uso in  guerra, non è originaria, non c’è in Freud una “violenza fondamentale” (a parte quella del padre dell’orda, essere violento e intollerante!): è dunque  una “derivata” della “funzione” pulsione di morte. È anche uno sforzo della  libido per “legare” la pulsione di distruzione. Per questo le “bestie da  guerra”, così come altri attori di una violenza radicale, cercano nella  situazione di scontro un modo per esprimere e drenare la pulsione di morte interna. Ne sono testimonianza gli “stupri di guerra”: atti dove la violenza  distruttiva è amministrata con l’arma dell’atto sessuale, l’Eros mostrando  allora il suo volto distruttivo, per effetto del disimpasto pulsionale [52]. Come  sottolinea Freud, la regressione trova qui la sua spiegazione  metapsicologica, il disimpasto pulsionale riportando la libido alla fase  sadica. Lo stupro di gruppo è dunque il fenomeno dove sinistramente si  rivela questa coalescenza in via di slegamento tra sessualità e distruttività. 

L’odio, dal canto suo, “indica il cammino alle pulsioni di morte”: lo si vede con Hitler, che scopre il fondamento del suo odio quando incontra l’”Ebreo” nelle strade di Vienna [54]e trova allora la spaventosa certezza che porterà alla “soluzione” della distruzione totale. L’odio puro cerca la sua “soluzione” terminale. Essere certi dell’odio dà una volontà infernale. Suggestione che non perde mai d’attualità: questi soggetti ritrovano la salute grazie all’”odio puro”, “cartello indicatore” (Wegweiser) delle pulsioni di morte [55]. Se ne trovano esempi in ogni momento della storia. “Perché tanto odio?”: questa domanda ricorrente e disperatamente ingenua si chiarisce grazie alla risposta dell’inconscio: per nutrire la pulsione di distruzione e attestare (acter [56]) la pulsione di morte. Il beato stupore davanti agli accessi d’odio estremo traduce il disconoscimento della Todestrieb in tutte le sue forme, quella che noi riconosciamo, benché ci stupisca sempre per la sua capacità di generare il peggio.

“Cadere in battaglia”: l’oggetto della caduta

Ora possiamo capire l’espressione “cadere in battaglia”: anziché morire, il  guerriero trova la morte “cadendo sul campo”, qualcosa che si  contrappone alla “morte civile”, con le sue infinite cure palliative. Nella  lingua spagnola si chiamano caìdos coloro che sono caduti nella morte [57], dopo un percorso spericolato (“à tombeau ouvert [58]”) che ne ha fatto degli eroi: identificazione con l’”oggetto a [59]” della morte melanconica, che fa parte del destino di guerra. Il corpo combattente, che cade nella morte, definisce un campo gravitazionale nel punto stesso in cui si trovano le sue spoglie mortali.

Ma, per il corpo in guerra, il prezzo da pagare sta nell’affrontare la prova del doppio. È essenziale rendersi conto che gli stati di guerra, in tutte le  loro forme, creano le condizioni per la messa in atto della scissione e della scarica dell’aggressività, tanto verso sé stessi quanto verso gli altri: più precisamente creano le condizioni per il disimpasto tra pulsioni di vita e di  morte. La guerra crea la congiuntura esplosiva dell’incontro tra la paura del nemico e l’angoscia verso sé stessi, occasione, per “le misteriose  tendenze masochiste dell’Io [60]” di raggiungere il proprio culmine: punto di  vista ben più profondo e realistico rispetto al modello delle “sindromi post traumatiche”.

Dal "disagio" dei tempi di pace allo stato di guerra 

Ricondurre “gli orrori della guerra” alla pulsione di morte significa far apparire il percorso che va dall’Unbehagen a monte - “disagio” che è il  destino “pacifico” delle pulsioni di morte -, fino al Krieg, a valle, l'aperta dichiarazione di guerra. Questa genealogia è essenziale per non  demonizzare la guerra facendole portare tutto il peso di Thanatos e  immaginando che sorga dal nulla, come un fulmine a ciel sereno, quando  essa non è né più né meno che l’acme, lo scoppio bellicista. 

La stessa pulsione di morte opera in due forme antitetiche nei due stati. In  questo senso Disagio della civiltà e Perché la guerra? sono due scritti speculari, in una prossimità ben più che cronologica. Lo rivela l’analisi  formale comparata della loro struttura argomentativa [61]: la pulsione di  morte emerge, in modo brusco e necessario, nel bel mezzo di ciascuno dei  due scritti, additando qualcosa senza cui né il disagio dei tempi di pace né l'evento della guerra [che crea il tempo così particolare, apparentemente isolato, dello scontro] appaiono decifrabili. 

Mentre in tempo di pace il disagio si mantiene costantemente al di qua del  sintomo, come uno stato torpido di aggressività trattenuta, la guerra ha la schiettezza di una crisi che viene alla luce. Momento in cui “la violenza  cammina a fronte alta”, secondo l’efficace formula kantiana [62].  

L’ideale alla prova del fuoco: il fallo

Non c’è guerra senza Armata: occorre ricordarlo? Ora l’armata, questa  “folla convenzionale”, funziona da ideale, realizza, anzi, una fabbrica di  ideali. 

Attore e strumento di guerra, questa istituzione nasce dal fatto che gli  individui mettono un solo e medesimo oggetto al posto del loro Ideale  dell’Io e, via questo ideale, si identificano nel loro Io gli uni con gli altri [63].  L’Ideale dell’Io è erede e reviviscenza del padre morto e “risorto”. Il  mestiere militare si pone ai confini dell’ideale (che unisce) e della morte  inflitta. Fare la guerra presuppone l’uniformità del “marciare al passo” e  del “segnare il passo”, automatismo da “marionetta” che traduce la necessaria rigidità, senza la quale negli eserciti non può esserci disciplina.  È anche ciò che produce quella identificazione (tra l’Io di tutti gli individui)  la cui versione sublimata si chiama “fratellanza”. 

Ideale a prova di fuoco, come l’arma forgiata da Efesto, il fabbro del mito, che è anche quella dei vulcani, che sputano fuoco. La guerra è un’attività vulcanica, che riversa lava su una terra incendiata. Nel testo in cui parla dell’origine del fuoco, Freud lo collega all’eccitazione e al fuoco interiore del fallo [64]. Fallo esibito in parata, talvolta armato e gallonato. Del resto, nel criticare l'atteggiamento degli ufficiali tedeschi verso il proprio esercito, Freud non esita a evocare l'idea di una macchina fallica, in questo caso danneggiata dai suoi stessi fruitori, gli ufficiali.

Lezioni freudiane sulla guerra

Il contributo psicoanalitico alla questione della guerra, che appare oggetto essenziale per l’”antropologia psicoanalitica [65]”, si può  in quel momento di verità del soggetto che resta latente nello stato di pace.

In primo luogo la guerra, che sia ingiusta o che sia il prodotto di una necessità politica (il che, sul piano politico, presuppone di non mettere tutte le guerre “nello stesso sacco”, inteso come la grande disgrazia del mondo), equivale a una devastazione degli ideali della Cultura: “l’uomo di cultura” è in lutto durante la guerra. Per questo Freud afferma che è paradossale essere pacifisti per chi, come lui o come lo stesso Einstein, si colloca nell’ordine del sapere, dal momento che la guerra è “conforme alla natura, pienamente giustificata biologicamente”. L’uomo di Cultura non  può ammetterla - “per ragioni organiche”, costituzionali -, senza cadere in  contraddizione. C’è una sorta di “divisione” in Freud che, da clinico, trova  la guerra logica e, da uomo di Cultura, inammissibile: condannarla dunque  sine ira et studio, senza la protesi dell’indignazione, che verrà sempre  “dopo la battaglia” ... 

In secondo luogo la guerra è l’incontro col reale. Lo stato di pace si sviluppa nella realtà grazie al diniego; lo stato di guerra porta il soggetto sul fronte del reale, la cui realtà, dice Lacan, non ne è che “la smorfia [66]”. Il nome di  questo reale è trauma, piccola morte che lacera il velo della vita e vi incide le sue cicatrici: quelle della clinica del combattente, o del “reduce”, che  resta imprigionato nel suo godimento, del “mutilato di guerra”, ma anche dello spettatore, di chi sta “nelle retrovie”, sofferente, impotente e  impaurito, ma talvolta eccitato (en jouissance): salvo verificare che proprio in chi assiste alla violenza si localizza l’epicentro dell’evento traumatico.

La violenza ha una funzione di “smascheramento”. Rinvia a tutte le  dimensioni di guerra che si manifestano durante lo stato di pace, quando  la “violenza verbale” diventa strumento dell’odio trattenuto e il discorso d’odio prepara l’atto distruttivo dandogli, più che una giustificazione, un  corpo (discorsivo) di godimento [67].  

Occorre ancora una volta sottolineare il paradosso per cui il combattente  sopporta la battaglia solo annullando magicamente il rischio di morte (grazie allo “sdoppiamento”), mentre lo spettatore lucido - quello istituito da Freud - è forzato a riconoscere di dover- morire

In terzo luogo, ed è sicuramente il punto più acuto, lo stato di guerra permette di incontrare la verità del vivente, cioè la morte, l’angoscia di morte essendo per Freud solo la maschera dell’angoscia di castrazione [68]. La guerra mobilizza il lavoro di resistenza vitale, ma per effetto e grazie alla pressione della morte. La pace ha la sua maniera di uccidere (a fuoco lento); per il soggetto - a misura della sua “breve storia” -, quando “regna  l’ordine” e una “morte lenta” si ripete di giorno in giorno, non c’è più posto per il desiderio, che, al contrario, si manifesta in un clima da “dichiarazione  di guerra”. Per inciso, ci sarebbe da costruire tutta una clinica della coppia  in guerra, ma è un soggetto trattato altrove, la cui eco è sorprendente se ci si muove dalla prospettiva della “follia a due”… 

Quando Freud evoca la testimonianza della psicoanalisi – “quasi ogni  stretto rapporto emotivo sufficientemente durevole tra due persone […]  contiene un fondo di sentimenti di avversione e di ostilità [70]” - cita per prima  la relazione coniugale, dove può attuarsi una vera “guerra di trincea” di  lunga durata! 

La guerra propriamente detta è in qualche modo una relazione intimamente aggressiva: essa cambia il potenziale di inimicizia mettendolo francamente in atto. Tale è la sua cinica "franchezza". Resta il fatto che, come momento collettivo di lacerazione [71], corrisponde al momento di pieno uso della pulsione di morte. La psicoanalisi tratta con equidistanza l'immaginario della guerra, facendone emergere le virtù, il godimento e il diniego idealistico di ciò che, nel soggetto, brama la guerra: cammino angusto che se non altro il sapere dell'inconscio contribuisce a liberare: là dove la pulsione di guerra continua ad essere, il desiderio di pace insiste per realizzarsi...

(trad. it. di Angela Peduto)


  1. Parole attribuite a Robert E. Lee, generale sudista durante la Guerra di Secessione americana, citato da Jesse Glenn Gray, Au combat. Réflexions sur les hommes à la guerre (The Warriors.  Reflections on Men in Battle, 1959, Paris, Tallandier, 2012).
  2. Aurelio Prudenzio Clemente, Psichomachia, poema del poeta latino della fine del III secolo che si  pensa abbia introdotto il pensiero allegorico, attraverso la “battaglia dell’anima”.
  3. C. von Clausewitz, Vom Kriege, Rowohlts Klassiker, Berlin, 1832. 
  4. Periodo che la ricostruzione storica colloca tra la fine del primo conflitto mondiale (1918) e l’inizio  del secondo (1939). 
  5. Rinviamo al nostro commento di questo testo in “Correspondance Freud-Einstein”, Hermes n° 5/6, juillet-septembre 1982, pp 261-273 e allo studio “Freudisme et indifférentisme politique”, Hermes  n° 5/6, pp. 345-359. Quanto alla presentazione della genesi e della posta in gioco di questo testo chiave, cfr. l’articolo presente nel nostro Dictionnaire psychanalytique des œuvres psychanalytiques, Paris, Puf, 2009, pp. 956-961.
  6. Cfr. l’analisi del campo metaforico freudiano nel nostro Dictionnaire des œuvres psychanalytiques, op. cit.
  7. “Psyche ist ausgedehnt, weiss nichts davon” “La psiche è estesa, di ciò non sa nulla”. Il 22 agosto  1938 Freud scrive questa breve enigmatica nota su un foglio di carta che contiene, sulle due facciate,  anche altri appunti presi in giorni differenti, nel corso di quella stessa estate. Il foglio viene ritrovato  dopo la sua morte avvenuta il 23 settembre 1939 e pubblicato postumo nel 1941 in Risultati, idee,  problemi, OSF, vol. 11, Boringhieri, Torino, 2003. L’annotazione recita per esteso: “Lo spazio può  essere la proiezione dell’estensione dell’apparato psichico. Nessun’altra derivazione è verosimile.  Invece [di una] delle condizioni a priori kantiane nel nostro apparato psichico. La psiche è estesa, di  ciò non sa nulla”. Per un’interpretazione decisiva sul senso di queste parole freudiane cfr. J.-L.  Nancy, Corpus (1992), trad. it. Corpus, Cronopio, Napoli, 1995. (NdT) 
  8. G. Bouthoul, Huit mille traités de paix, Paris, Julliard, 1948.
  9. P.- L. Assoun, “Éros et Polemos: la comédie de la paix”, Analyses & réflexions sur Aristophane “La  Paix”, Paris, Éditions Ellipses, 2002, pp. 107-114. 
  10. E. Kant, (1795), Per pace perpetua. Un progetto filosofico, Editori Riuniti, Roma, 1985.
  11. L’espressione ha dato il titolo al libro di J. Galtier-Boissière, La fleur au fusil, pubblicato nel 1928 (e nel 1917 col titolo En rase campagne 1914, versione che fu censurata). L’opera parla della Prima Guerra mondiale e descrive i soldati che, nel 1914, partivano per la guerra con spensieratezza e noncuranza verso ciò che era stato presentato loro come una passeggiata, senza rischi e di breve durata. “Nella loro gioiosa noncuranza la maggior parte dei miei camerati non aveva mai riflettuto agli orrori della guerra. Non vedevano la battaglia che attraverso la lente patriottica […] Persuasi della schiacciante superiorità della nostra artiglieria e della nostra aviazione, ci rappresentavamo ingenuamente la campagna come una passeggiata militare, una rapida successione di vittorie facilie clamorose”. Possiamo immaginare questi militari, il fucile in spalla, che raccolgono un fiore sul  bordo della strada e lo infilano nella canna di quell’arma che probabilmente non servirà. La loro  noncuranza del pericolo e della morte, il loro marciare la fleur au fusil, spiega il senso iniziale e  originario dell’espressione. (NdT) 
  12. La canzone racconta le avventure di John Churchill, duca di Marlborough, allusione alla battaglia  di Malplaquet dell’11 settembre 1709; la versione francese deride il personaggio, ma il successo lo  rende un eroe. (NdT)
  13. P. Corneille, Le Cid, atto IV, scena 3: “Et le combat cessa faute de combattants”.
  14. L’ablativo latino indica ciò attraverso cui viene compiuta l’azione del verbo. Nel caso di “de guerre lasse” dobbiamo intendere che il soggetto diviene stanco della guerra, cioè a causa di essa. La suggestione dell’A. va nel senso di trasformare la frase in modo da intendere che “la guerra diviene stanca di sé stessa”. (NdT)
  15. Nella notte tra il 28 e il 29 settembre 1938 a Monaco i capi di stato e di governo di Francia, Regno Unito, Italia e Germania firmarono un documento con cui veniva permesso alla Germania di annettere gran parte della Cecoslovacchia. Gli accordi furono salutati come un grande successo della diplomazia sulla forza e della pace sulla guerra. In realtà non servirono a fermare la guerra, ma la rimandarono soltanto di un anno. (NdT)
  16. Cfr. lo studio di Freud sul Presidente Wilson scritto alla fine della vita in collaborazione con W. C. Bullitt e pubblicato solo nel 1966.
  17. S. Freud, Al di là del principio di piacere, (1920), OSF, op. cit., vol. 9. 
  18. P.- L. Assoun, “Le désir perpétuel. Guerre et paix de Kant à Freud”, Vers la paix perpétuelle de  Kant, Paris, Éd. Ellipses, 2002, pp. 161-172. 
  19. Neologismo che della guerra sottolinea il reale (réel) non nel senso di realtà ma nel senso inconscio. Cfr. la differenza per Lacan tra réel e réalité (NdT)
  20. Il termine è istituito nel saggio Il sogno (1901), ma è descritto come azione di “drammatizzare”  già nell’Interpretazione dei sogni (1900). 
  21. Nel testo fr. “comment ça marche - au pas”, marcher = marciare, ma anche funzionare: il gioco di parole si perde completamente nella traduzione it. scelta. (NdT)
  22. S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, (1915-17), in OSF, vol.8, 1976. Sul contesto  e il contenuto di questo testo cfr. P.-L. Assoun, Dictionnaire des œuvres psychanalytiques, op. cit.,  pp. 173-176. 
  23. P.- L. Assoun, “Le préjudice radical: de l’idéal à la destruction”, in F. Benslama (a cura di), L’idéal  et la cruauté. Subjectivité et politique de la radicalisation, Paris, Lignes, 2015, pp. 47-67.
  24. S. Freud, Caducità, (1915), in OSF, vol.8, 1976.
  25. J. Lacan, conferenza di Lovanio, 13 ottobre 1972.
  26. P.- L. Assoun, “À propos de l’expression ‘On n’a qu’une vie’”, Interfaces Psy, n° 1, 2003, p. 12-16,  ripreso in Le préjudice et l’idéal. Pour une clinique sociale du trauma, Paris, Economica/Anthropos,  prefazione alla 2 ed., 2012.  
  27. S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, op. cit. cit. p. 141.
  28. X. Bichat, Recherches physiologiques sur la vie et la mort, 1802. 
  29. S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, op. cit. p. 147. 
  30. ivi 
  31. Ibid., p. 147 e passim.
  32. Lettera di Freud a Karl Abraham del 4 marzo 1915.  
  33. S. Freud, Introduzione al libro Psicoanalisi delle nevrosi di guerra, in OSF, op. cit., vol. 9, 2000 (il libro, uscito nel 1919, riporta le relazioni presentate l’anno precedente al Congresso di Budapest, quasi interamente dedicato alle patologie mentali da trauma bellico). (NdT)
  34. P.- L. Assoun, L’excitation et ses destins inconscients. Court traité psychanalytique de l’excitation, Paris, Puf, 2013.
  35. Idea comunicata a Karl Abraham. 
  36. Nella trad. it. “si ammala”, corrispondente al tombe malade del testo fr., si perde il gioco  linguistico del tomber: cadere in malattia come si cade in guerra. (NdT) 
  37. S. Freud, Introduzione al libro Psicoanalisi delle nevrosi di guerra, op. cit. p. 73.
  38. E. Jünger, Orages d’acier. Souvenirs du front de France (1914-1918), 1920.
  39. F.R. Chateaubriand, René, 1802
  40. S. Freud, Promemoria sul trattamento elettrico dei nevrotici di guerra (1920), in OSF, op. cit., vol.  9.
  41. P.-L. Assoun, “Magie et psychose. La magie à l’épreuve de la psychanalyse”, Cliniques  méditerranéennes, n° 85, 2012, pp. 59-76. 
  42. Sul legame tra Super Io e umorismo, sviluppato nel saggio di Freud L’Umorismo, cfr. i nostri contributi “Le sujet de l’humour ou le surmoi humoriste”, in La matière et l’esprit, n° 24, “Humour et identité”, 2012, pp. 25-52 e “Le moment ou jamais: le sujet de l’humour”, Champ Psy, n° 67, “L’humour et le rire”, 2015, pp. 25-46.
  43. G. Gray, Au combat, op. cit., p. 75.
  44. P.- L. Assoun, “Imaginaire héroïque et féminité. Psychanalyse de ‘La Chartreuse de Parme’“, nel vol. coll. Analyses et réflexionssur Stendhal. La Chartreuse de Parme, Paris, Ellipses, 2000, p. 94-104.
  45. S. Freud, Il problema dell’analisi condotta da non medici, (1926), OSF, vol. 10, 1978, p. 363.
  46. 46. S. Freud, Compendio di psicoanalisi, (1938) , OSF, op. cit., vol. 11, 2003.
  47. S. Freud, Analisi terminabile e interminabile (1937), OSF, op. cit., vol. 11, 2003.
  48. Questa giornata, che nel giugno 451 permise alle armate gallo-romane guidate da Flavio Ezio di fermare gli Unni di Attila, ispirò a Freud ne L’Io e l’Es il paragone con la lotta che si svolge a livello del Super Io, come nel quadro eponimo di Wilhelm von Kaulbach, Die Huhnenschlacht.
  49. È singolare che un pensatore così attento come Gray, che frequenta e cita la teoria freudiana, accrediti improvvisamente il luogo comune secondo cui la spiegazione psicoanalitica pulsionale si ridurrebbe a una dimensione di “animalità”.
  50. P.- L. Assoun, “Guerre et paix selon Freud. Destins collectifs de la pulsion de mort”, Topique n°  102, 2008. 
  51. P.- L. Assoun, “Le préjudice radical: de l’idéal à la destruction”, op. cit.
  52. Dopo l’introduzione del dualismo pulsioni di vita/pulsioni di morte (1920), Freud sostenne che  l’impasto, cioè l’intreccio, l’associazione delle due specie di pulsioni, è un postulato irrinunciabile  della metapsicologia. In Due voci di enciclopedia del 1922 scrisse a proposito delle pulsioni: “Negli  esseri viventi le pulsioni erotiche e quelle di morte avrebbero dato luogo a regolari impasti, miscele;  ma sarebbe anche possibile un loro disimpasto”. Per Freud l’esistenza dell’uomo è espressione del  conflitto tra eros e thanatos, in precario equilibrio tra loro: la prima volge verso la vita  (complicandola nel tentativo di farla esistere), la seconda verso una semplificazione, la distruzione  cioè propria e degli altri. Nei fenomeni di disimpasto pulsionale, la pulsione di morte, non più  imbrigliata dalla pulsione di vita, ha libero corso. (NdT)
  53. S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, (1925), OSF, op. cit., vol. 10, 2000.
  54. Hitler racconta nel Mein Kampf che a convertirlo all’antisemitismo sarebbe stato l’incontro con  una figura in caffetano dai capelli ricci e neri che camminava per le strade di Vienna. Da allora in poi,  scrive Hitler, “cominciai a vedere ebrei dovunque andassi, e più ne vedevo, più chiaramente  apparivano ai miei occhi come una razza distinta dal resto dell’umanità”. (NdT)
  55. S. Freud, L’Io e l’Es, (1923), OSF, op. cit., vol. 9, 2000.
  56. Acter, lett. prendere atto nel senso forte, giuridico del termine. (NdT) 
  57. In italiano si dicono “caduti” i morti al fronte. (NdT) 
  58. Allusione alla Valle de los Caìdos, monumento voluto da Franco nel 1940 per accogliere migliaia  di vittime della Guerra Civile spagnola. L’espressione “à tombeau ouvert” risale al XVII secolo,  quando era associata al galoppare così velocemente da rischiare di perdere la vita e finire in una  tomba. Nel contesto l’idea della “tomba aperta” allude anche alla riesumazione di morti senza nome  dalle fosse comuni, disposta dopo la fine del regime franchista. La trad. it. “a tutta velocità” o “a  rotta di collo” elimina completamente il gioco semantico, cosicché si è preferito tradurre  “spericolato” per lasciare almeno risuonare il pericolo di morte. (NdT)
  59. È l’oggetto al quale il melanconico resta aggrappato, non potendo separarsi da esso e accettarne la mancanza, do dove il suo lutto impossibile e l’incapacità di investire nuovi oggetti. (NdT)
  60. S. Freud, Al di là del principio di piacere, (1920), OSF, op. cit., vol. 9, 2000.
  61. P.-L. Assoun, Dictionnaire des œuvres psychanalytiques, op. cit., pp. 757 e 959.
  62. E. Kant, Doctrine du droit. Cfr. commento di P.- L. Assoun in Tuer le mort. Le désir révolutionnaire, Paris, Puf, 2015.
  63. E. Kant, Doctrine du droit. Cfr. commento di P.- L. Assoun in Tuer le mort. Le désir révolutionnaire, Paris, Puf, 2015.
  64. S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), OSF, op. cit., vol. 9, 2000; P. L. Assoun,  commento al cap. VIII di questo testo in Freud et les sciences sociales. Psychanalyse et théorie de la  culture, Paris, Armand Colin, 2008. 
  65. S. Freud, L’acquisizione del fuoco, (1931), OSF, op. cit., vol. 11, 2003.
  66. P.- L. Assoun, Freud et les sciences sociales, op. cit.
  67. Vedi la differenza per Lacan tra realtà e reale. Il reale non coincide con la realtà, al contrario, è ciò  che la perturba, che non è interpretabile e che irrompe come trauma. La realtà tende anzi ad esserne  la maschera deformante, in tal senso ne è “la smorfia”. (NdT)
  68. P.- L. Assoun, “La haine critique ou l’envers inconscient de la violence”, in E. Marty, J. Majorel (a  cura di), Critique et violence, Paris, Hermann, 2014, pp. 6-20.
  69. X. Bichat, Réflexions physiologiques sur la vie et la mort (1802).
  70. P.- L. Assoun, Le couple inconscient. Amour freudien et passion postcourtoise (1992), Paris,  Economica, 3 ed., 2014.
  71. S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, op. cit., p. 290. 
  72. Découdre, qui reso con “lacerazione”, significa lett. “scucire ciò che è cucito insieme togliendo  metodicamente i fili che legano le varie parti”. L’A. sottolinea ancora una volta con questo termine  l’effetto di slegamento messo in atto dalla guerra a tutti i livelli. (NdT)

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