Testi di Psicoanalisi

L'empatia

Giuliana Gagliani, Mariangela Pierantozzi

L'empatia

Giuliana Gagliani e Mariangela Pierantozzi

già pubblicato in Psicoterapia e Scienze Umane anno XXIII- n°1 ,1989, Franco Angeli)

«La via più corta verso voi stessi passa attorno al mondo». Con queste parole di Hugo von Hoffmanstahl, Josef Bleicher (1980), nel suo volume L’ermeneutica contemporanea, conclude il capitolo dedicato a Friedrich Schleiermacher. Proprio in Schleiermacher, la cui filosofia può essere considerata espressione del primo romanticismo, si trova la formulazione della interpretazione psicologica come integrazione dell’esegesi grammaticale. Prima di Dilthey, suo attento studioso, egli parla del substrato della natura umana come base di ogni comunicazione, della comprensione dell’alterità, della osservazione del mondo da questa prospettiva per mettere in risalto i processi spirituali in noi stessi. Questo è il primo segno di attenzione dedicato al processo empatico, qui non ancora specificamente nominato.

Il termine empatia compare in modo esplicito e sistematico all’interno della riflessione estetica alla fine dell’Ottocento ad opera di Robert Vischer, studioso di arti figurative e di problematiche estetiche. Egli continua le riflessioni di suo padre Friedrich Theodor Vischer che, riprendendo la concezione hegeliana del bello come creazione e «riflesso dello spirito», aveva individuato nella fantasia, misteriosa forza interiore, non solo la facoltà estetica ma la fonte stessa del bello. Il bello non esiste in quanto tale, ma è piuttosto un puro atto di intuizione. Quando percepiamo un oggetto della natura, questo muore per il suo esistere naturale, ma noi lo facciamo rivivere nel suo valore «simbolico»: proprio questo valore simbolico rivela ed esprime la intima unione della natura e della fantasia, che fa si che, attraverso una corrispondenza misteriosa, un oggetto naturale possa promuovere in noi la più ampia gamma di sentimenti. Theodor Vischer usò, per questa capacità di cogliere il valore simbolico della natura e delle cose, il termine Hineinfühlen, cioè «sentir dentro» e di Zusammenfuhlen, cioè con-sentire. Sarà invece il figlio Robert che chiamerà questa capacità Einfühlung, cioè empatia: coglimento della vita esterna come fosse della vita interna, cioè del proprio corpo. Dei concetti simili erano stati espressi già precedentemente dalla letteratura romantica (S.G. Herder e Novalis) ma vi era una differenza importante in quanto per questi ultimi tale empatia e compartecipazione era una immedesimazione totale nella vita della natura concepita come un essere vivente spirituale essa stessa.

Ma è Theodor Lipps a dare piena cittadinanza al concetto di empatia e a farne un caposaldo della propria concezione filosofica ed estetica. Lipps, nato nel 1851 e morto nel 1914, insegnò filosofia a Monaco dove fondò l’Istituto Psicologico e si formò alla psicologia sperimentale che dominava la cultura scientifica tedesca in quegli anni. Egli però distinse la psicologia come analisi della coscienza interiore dalla psicologia come analisi sperimentale dei fenomeni nervosi e, sotto la influenza di Husserl, riconobbe la autonomia di metodo della prima (psicologia come analisi della coscienza interiore) e delle connesse scienze dello spirito; era noto nel campo della storia della estetica proprio per aver fondato la sua teoria del bello sul concetto da lui elaborato di empatia. Egli sosteneva che l’unico senso della vita è quello di esprimere una forza interiore e il sentimento di questa attività interiore coincide per lui con il sentimento di sé. Se esso si esprime liberamente, in sintonia ed armonia con sé stesso provoca piacere e soddisfazione, se è imprigionato, diviso, disperso in attività contraddittorie, produce dispiacere. In questa prospettiva gli oggetti vengono sentiti, empatizzati, come positivi o come negativi a seconda che vengano vissuti come possibilità dì affermazione vitale dell’Io contemplativo (il Bello) e l’empatia è appunto sentirsi in sintonia con l’oggetto, il cogliere che esso «sente» ciò che noi sentiamo. La teoria di Lipps insieme a quelle di Volkett e di Stern diede vita alla cosiddetta «Estetica della Einfühlung» ed appariva come una estetica piacevole, ma secondo le parole di Croce (1935) una sorta di «culinaria» che concepisce il bello e l’arte come «pietanze ed intingoli».

Lipps, con Brentano, fu tra i più tipici rappresentanti dello psicologismo logico, corrente dì pensiero sviluppatasi in Germania alla fine dell’Ottocento, che riduce ogni contenuto conoscitivo ai meccanismi psicologici e ai fenomeni soggettivi della coscienza. Brentano cerca di ricondurre tutte le categorie logiche alla attività intenzionale della coscienza. In tal modo il «significato» di un concetto viene chiarito nei termini della sua genesi psichica. Ma al di là del dibattito che queste teorie suscitarono (v. ad esempio la critica di Croce allo psicologismo) ciò che interessa sottolineare è che dal campo della estetica l’interesse per l’empatia si diffuse al campo psicologico e più generalmente filosofico. Lo stesso Lipps aveva utilizzato il concetto di empatia anche per la conoscenza degli altri individui e la comunicazione tra loro. Egli sosteneva che l’istinto umano è portato ad imitare, a riprodurre movimenti, atteggiamenti altrui, e, quando ciò accade, non si ripetono solo le manifestazioni esteriori ma anche gli stati emotivi che li accompagnano: possiamo «sentire» ciò che l’altro sente e proiettarci fino a lui, fino ad essere «uno» con lui. L’empatia sembra qui ricostruire la sfera primitiva unitaria cosmica e dare senso alle relazioni umane.
Husserl, allievo di Brentano, si discosta e critica le posizioni dello psicologismo logico, anche se il concetto brentaniano di intenzionalità è il suo punto di partenza: ogni atto di coscienza è un tendere a qualcosa come a un suo specifico oggetto; una analisi rigorosa di come la coscienza «intenziona» i suoi oggetti consente di condurre l’intero campo dell’esperienza e del sapere alle operazioni psichiche di base, chiarendone la genesi e i significati. Egli propone il metodo della riduzione fenomenologica (sospensione del giudizio o epoché) per attingere la dimensione in cui i fenomeni si manifestano in piena evidenza e come «datità originaria». La epoché pone tra parentesi sia i giudizi o pregiudizi del senso comune, sia le teorie scientifiche, astenendosi dal farne uso. Operata tale riduzione, ciò che emerge come «residuo fenomenologico» è il campo trascendentale della coscienza pura: il senso del mondo e delle sue oggettualità (noemi) si costituisce a partire dagli atti intenzionali (noesi) della coscienza pura. La sfera della coscienza trascendentale non è il «cogito» cartesiano, né l’«Io puro» di Fichte ma piuttosto il «Noi intersoggettivo». Con Husserl e la scuola fenomenologica il tema dell’empatìa, spogliato di enfasi, si ripropone, intrecciando il rapporto tra il soggetto e la natura, e dei soggetti tra loro. Il problema della intersoggettività e dunque della empatia si riconnette a quello del mondo esterno.

«Tutto quello che vale per me – scrive Husserl – vale, a quanto ne so, anche per tutti gli altri uomini, che mi sono alla mano nel mio mondo circostante. Sperimentandoli come uomini, li comprendo e li accetto come 'io', quale io sono. In modo tale, io percepisco il mio e il loro mondo come un solo mondo oggettivo che si diversifica soltanto nel modo in cui giunge alla coscienza. »

Mentre Brentano accoglie la distinzione tradizionale tra i fenomeni fisici e i fenomeni psichici, Husserl la respinge con decisa energia sostenendo che l’oggetto fisico è esclusivamente quello che noi percepiamo nel corso delle nostre osservazioni. Quindi la realtà viene ad avere qui una esistenza che possiamo definire una «presenza intenzionale». Abbiamo visto che la epoché è il metodo fondamentale della indagine husserliana. Rifiutandosi di accettare un mondo falsificato, il fenomenologo riesce infatti a ridurre tutte le cose (reali o ideali, compreso lo stesso io) all’originario autenticamente vissuto. Per quanto radicalizzata la epoché non potrà mai farci mettere tra parentesi la coscienza stessa.

E’ proprio in questo ambito filosofico in cui la coscienza ha così tanta importanza che si colloca una ridefinizione, appunto non enfatica, non romantica, non estetica e neppure psicologica ma puramente filosofica del concetto di empatia: l’allieva di Husserl, Edith Stein, si laurea nel 1916 in filosofia a Friburgo, discutendo una tesi che ha per tema appunto l’empatia. Per la Stein la realtà esterna può essere colta solo in orizzonte intersoggettivo: il mondo esterno può essere sperimentato solo da diversi soggetti in rapporto tra loro, cioè da una molteplicità di individui conoscenti, che stiano tra loro in rapporto di scambievole comprensione. L’empatia viene definita da lei come un atto della coscienza che è originario in quanto esperienza vissuta presente, ma non è originario in quanto a contenuto, che è di altri da noi.

Il soggetto della esperienza empatizzata non è Io stesso soggetto che opera la empatia. Ella polemizza con Lipps contestandogli il fatto che vi sia perfetta coincidenza tra l’io che empatizza, ricorda, attende e l’altro; rifiuta che essi divengano «uno». Alla operazione di riduzione fenomenologica sopravvive la datità del fenomeno della mia coscienza, attraverso la quale sperimento la coscienza di altri da me, aventi essi stessi una coscienza. Ella non si ferma alla percezione della datità della coscienza altrui, bensì afferma di coglierne la sua essenza pura che le è data nell’intuizione o «astrazione ideante».

La fenomenologia si presenta qui come un approccio alla realtà indipendente dalle altre scienze e dai loro risultati; essa vuole trovare in sé stessa la propria fondazione, critica lo psicologismo, non si considera una scienza naturale come poteva essere definita invece la psicologia. Nella ricerca sulla empatia, la fenomenologia ha una domanda preliminare che è quella sulla essenza del fenomeno e non tanto e non primariamente quello della sua genesi e del suo utilizzo o scopo. Per la fenomenologia la definizione di empatia nella sua essenza non può essere data attraverso nozioni di psicologia genetica, perché la ricerca sulle cause di un fenomeno presuppone già il «che» e il «che cosa» di questo fenomeno. La stessa Stein non nega categoricamente un rapporto tra le due discipline, ma sottolinea il rispetto della reciproca autonomia seppur nella possibile collaborazione; ma ella vuole riservare con ostinazione il compito dell’analisi dell’essenza e della giustificazione, alla ricerca fenomenologica.
Non è possibile paragonare dunque questa elaborazione del concetto di empatia, di tipo prettamente filosofico, al concetto e all’uso dell’empatia in psicoanalisi; sono due sistemi, due scienze diverse e non possiamo passare impunemente da un sistema all’altro, ma dobbiamo tenerli rigorosamente separati pur consapevoli della esistenza di entrambi. Potremmo confrontare queste due entità solo se facessero parte dello stesso sistema di riferimento. Non potremo mai stabilire se il concetto di empatia, come viene usato in psicoanalisi, sia un concetto non metapsicologico ma fenomenologico; potremo forse solo dire, e lo vedremo in seguito, che in psicoanalisi non si è ancora giunti a fare completa chiarezza su di esso o non vi sono ancora visioni unitarie sulla sua essenza, pur essendo tutti consapevoli che in filosofia esiste una entità con il medesimo nome. Tornando allo studio della Stein ricordiamo che ella si occupò di definire anche l’essenza del ricordo, della fantasia e della attesa: vi è una analogia tra gli atti di empatia e tutti gli atti in cui il vissuto di sé non si dà in modo originario come appunto nel ricordo, nell’attesa e nella fantasia; infatti anch’essi sono atti della coscienza originari con un contenuto non originario. Ella si esprime anche sulla simpatia affermando che se accanto alla gioia originaria per l’evento felice permane l’empatia cioè il cogliere la gioia di un altro e successivamente si ha la coscienza che l’evento è felice specificamente per lui, ma che esso può essere lieto anche per me (ad esempio Ora possiamo, proprio perché tu hai superato l’esame – contenuto della gioia – fare un viaggio insieme), possiamo definire questo atto originario come un congioire (Mitfreude) o in generale come simpatia (Mitfühlen); non necessariamente queste due gioie vissute nella simpatia devono essere uguali (come accade nell’empatia) riguardo al contenuto, ma certamente non lo sono riguardo alla qualità in quanto quella della simpatia è originaria mentre quella dell’empatia non è originaria.

La Stein afferma la massima partecipazione senza totale immedesimazione con conseguente scomparsa dell’io, che rimane intimamente solidale ma sempre diverso. Da questo assunto nascono le critiche alle altre teorie dell’empatia: sia le critiche alle teorie genetiche dell’imitazione, della associazione, dell’analogia, che fondano il fenomeno empiricamente; sia le critiche già accennate alle teorie di Lipps e di Scheler, i quali affermavano la non irriducibilità dell’io, la sua fusione con l’altro e, soprattutto Scheler, la esistenza di una corrente indifferenziata di vissuto, in cui è impossibile distinguere e diversificare le proprie esperienze dalle altrui. La Stein rifiuta soprattutto quest’ultima, in quanto afferma che ogni vissuto rimanda ad un io ben definito. La empatia cogliendo la globalità della individualità altrui in tutto simile a me sul piano psicofisico arricchisce le mie conoscenze del mondo esterno e consente di arrivare ad una visione più autentica di me stesso; le esperienze intersoggettive di diverse immagini del mondo portano alla dimostrazione della sua esistenza indipendente. Quindi l’esperienza intersoggettiva è condizione di possibilità del darsi del mondo esterno, il quale proprio per questo suo apparire nella diversità dell’orizzonte intersoggettivo, si rivela dotato di una esistenza indipendente da me. Da qui deriva il valore fondativo della empatia, il suo essere un elemento costitutivo della esistenza umana: il cogliere l’esperienza altrui non è un atto successivo al “coglimento” della mia vita interiore e della realtà esterna, ma piuttosto un atto costitutivo di ogni esperienza di sé e del mondo.

Da quanto esposto emerge con chiarezza la centralità del tema della intersoggettività ripreso dalle filosofie personalistiche comunitarie e dalle filosofie dialogiche e tematizzanti la alterità (il filone ebraico in cui si annovera Martin Buber). Buber (1956) ad esempio afferma che il senso fondamentale dell’esistenza umana è da rintracciarsi nel principio dialogico, cioè nella capacità di stare in relazione totale con la natura, con gli altri uomini e con le entità spirituali ponentisi in un rapporto “Io-Tu”. Al mondo della relazione personale e della libertà si contrappone il mondo dell’esperienza, della causalità, dell’altro da sé stesso come oggetto manipolabile, in un rapporto Io-Esso. Buber usa l’Io-Tu come una parola sola, una unica categoria e non come due entità diverse e separate. L’uomo autentico si definisce come persona che nella relazione Io-Tu prende coscienza di sé come soggettività (questi concetti, anche se formulati in contesti filosofici, portano facilmente verso il tipo di rapporto terapeutico della psicoanalisi). Buber parla anche, nel precisare questo tipo di rapporto Io-Tu, di fantasia reale, cioè mettersi al posto dell’altro, immaginarsi, ma realmente, giacché l’oggetto della immaginazione non è costruito da me, ma è lì pronto e presente. E ancora egli afferma che la persona non si confonde con nessuno dei suoi atti, con nessuna delle sue manifestazioni. «Se nessun atto, nessuna manifestazione della mia personalità esaurisce il mio potere di essere, ecco che il centro più intimo della mia personalità resta sempre trascendente a tutti i miei atti.»

Abbiamo fin qui seguito lo sviluppo del concetto di empatia, nato nel campo della ricerca estetica, ripreso dallo psicologismo logico, definito di nuovo nell’ambito della filosofia di Husserl. Vorremmo sottolineare la differenza della concezione di empatia dello psicologismo logico da quella che lo stesso concetto ha nella fenomenologia; vogliamo anche sottolineare, come afferma Hartmann (1927), che sarebbe meglio chiamare psicologia descrittiva quella che viene chiamata psicologia fenomenologica o più brevemente fenomenologia, per non dare adito a confusioni concettuali e a ingiustificate assimilazioni con la fenomenologia husserliana.

Fin qui l’esposizione delle linee concettuali di maggior rilievo riguardanti l’empatia nell’ambito filosofico come categorìa della conoscenza interpersonale. La fortuna relativamente recente del concetto nella clinica psicoanalitica (per autori come Kohut è una categoria centrale, di fondazione della problematica della teoria della tecnica), ha finito con lo ingenerare confusioni e sovrapposizioni indebite, con passaggi spesso disinvolti da un sistema di linguaggio ad un altro. L’intento della nostra analisi rimane quello di delineare le varie posizioni piuttosto che cercare somiglianze o tentare di ritrovare radici di una scienza nell’altra, di un ambito nell’altro.

Proseguiamo con questo metodo anche per l’esame del concetto di empatia in psicoanalisi, paradigmatico per mettere in evidenza come un mezzo di conoscenza filosofica sia stato inevitabilmente mutuato quale strumento indispensabile del rapporto terapeutico. Può sconcertare la disomogeneità delle molteplici definizioni o tentativi di definizioni e descrizioni del concetto di empatia anche se, ad un esame più attento della letteratura, si può riscontrare che le differenze sono più apparenti che reali. Riportiamo qui alcune definizioni psicologiche e generiche del termine, ciò che si intende più usualmente in psicologia e in psichiatria con empatia: «L’empatia è risonare emotivamente con l’altro, il riprodursi in noi di uno stato affettivo simile a quello dell’altro (G.C. Reda, 1982).» «E’ una delle maggiori capacità di un terapeuta di successo, di un facilitatore o di un membro del gruppo capace di aiutare gli altri»(A.M. Freedman, 1984).

«L’empatia si riferisce di solito ad una limitata partecipazione di come l’oggetto sente o esperisce un evento; la risposta empatica è determinata pesantemente dalla formazione psicologica dell’oggetto e dal suo personale e unico modo di esperire gli eventi emotivi; la persona empatica immagina come ha sperimentato egli stesso eventi simili a quelli che l’oggetto sta sperimentando e dopo aver controllato certi suggerimenti rilevabili dall’oggetto (espressione del viso, gesti, tono di voce ecc.) a conferma, egli arriva a quel senso di sentimento comune definito empatia »(St.T. Levy, 1983).

T. Reik sosteneva che questa espressione suona cosi piena di significato che se ne trascura volentieri la ambiguità. Freud usa cinque volte il termine Einfühlung e si avvicina in vari momenti della sua opera alla esplicazione di questo concetto: nello scritto Motti di spirito e loro relazione con l’inconscio (1905) egli mutua dalla teoria del comico di Lipps l’idea di empatia. Nel 1912, nel lavoro Raccomandazioni al giovane medico nel trattamento psicoanalitico, Freud ha sottolineato le condizioni più essenziali per la conoscenza analitica: l’analista deve ascoltare le libere associazioni del paziente con attenzione fluttuante; dovrebbe abbandonarsi completamente alla propria memoria inconscia; deve rivolgere il suo stesso inconscio come un organo ricevente verso l’inconscio del paziente. Nel 1913 usa Einfühlung nello scritto Interesse alla psicoanalisi; ancora nel 1913 in Nuovi consigli sulla tecnica psicoanalitica egli formula tutta una serie di importanti consigli inferenti anche l’empatia: 1) non ci si dovrebbe precipitare a interpretare in ogni momento tutto quello che si vede; 2) si dovrebbe evitare di umiliare l’analizzando rispondendo in maniera non analitica a manifestazioni di transfert, cioè con la predica, l’acquiescenza, il rifiuto; 3) non si dovrebbero formulare soluzioni prima che il paziente non vi si trovi vicino da dover fare un breve passo per impadronirsene; 4) è importante non sopravvalutare la capacità di sublimazione dell’analizzando; 5) fin dai primi momenti del rapporto bisogna mostrare un atteggiamento cordiale di comprensione e di interessamento; 6) è essenziale mantenere una certa flessibilità riguardo al processo analitico che l’analizzando imboccherà e anche riguardo al livello a cui egli funzionerà; 7) ciò che conta è la consapevolezza incrollabile di dover essenzialmente supervisionare e facilitare con l’empatia l’ulteriore sviluppo dell’analizzando attraverso l’analisi. Nel 1914 nella Storia di una nevrosi infantile (Caso dell’uomo dei lupi) dice che la difficoltà di immedesimarsi nella vita psichica infantile rende difficile il lavoro del medico. Nel 1921 nello scritto Psicologia delle masse e analisi dell’Io egli parla di Einfühlung come immedesimazione, processo che ci permette di intendere l’Io estraneo delle altre persone.

Nella traduzione italiana delle opere di Freud non compare il termine empatia, ma immedesimazione. E’ necessario ora dire che Einfühlung non sarebbe traducibile esattamente con empatia: infatti mentre Einfühlung significherebbe piuttosto uno stato d’animo puntuale, empatia sembrerebbe esprimere uno stato d’animo più generale. Emerge allora come non solo vi sia una non chiarezza terminologica ma, come vedremo, esiste una oscillazione tra un concetto che esprime una comprensione più razionale e critica, e un concetto di risonanza e di simpatia. Wolf (1983) sostiene che nell’edizione inglese delle opere di Freud si trova citato 15 volte il concetto empathy e che Strachey traduce Einfühlung con «comprensione simpatica». Wolf commenta questo «scarso interesse» di Freud per l’empatia con la compromissione con la filosofia materialistica del tempo, che accettava dati misurabili e verificabili con i dati delle scienze fisiche e fisiologiche, mentre i dati psicoanalitici erano ottenuti in buona parte attraverso la introspezione. Freud pur insistendo sull’importanza della comprensione empatica per la conoscenza della vita psichica dell’altro, non spiegò l’origine e la natura di questo processo. Helene Deutsch nell’articolo Processi occulti nel corso dell’analisi del 1926 andò oltre quanto ipotizzò che: « … il contenuto psichico affettivo del paziente, che emerge dal suo inconscio, diventa una esperienza interna dell’analista ed è riconosciuto come appartenente al paziente (cioè al mondo esterno), solo nel corso del successivo lavoro intellettuale.»

Ella continuò a dire che questa comunicazione inconscia tra analista e paziente nasceva da una identificazione del primo con il secondo:

«… L’empatia intuitiva è precisamente il dono di essere in grado di sperimentate l’oggetto per mezzo della identificazione … resa possibile dal fatto che la struttura psichica dell’analista è un prodotto di processi evolutivi simili a quelli che il paziente stesso aveva già sperimentato L’inconscio di entrambi, analista e analizzando, contiene desideri e impulsi infantili identici.»

Tali identificazioni devono essere abbandonate dopo breve tempo ed esposte a valutazione intellettuale da parte dell’analista; può accadere però che se il materiale del paziente tocca troppo da vicino ì conflitti non chiariti del terapeuta, queste identificazioni possano diventare «incollate» (stuck). Ella introduce la tematica della controtraslazione nella concettualizzazione dell’empatia.

Heinz Hartmann nell’importante articolo del 1927 Comprendere e spiegare riconosce che una gran parte delle connessioni di senso di cui dobbiamo la conoscenza alla psicoanalisi è senza dubbio comprensibile geneticamente, cioè rivivendole empaticamente. Ma secondo lui l’obiettivo della psicoanalisi non è la comprensione dello psichico ma proprio la spiegazione causale. Egli fa riferimento alla distinzione di Dilthey tra scienze naturali e scienze dello spirito secondo cui nell’ambito naturale vige la legge della causalità e nell’ambito dello spirito vige la legge della motivazione che non può essere ricondotta alla processualità deterministica. Critica la sopravvalutazione della pura descrizione quale emerge nella concezione di Dilthey della psicologia. Egli si chiede: se l’empatia è un mezzo di conoscenza, in che cosa consistono i criteri di validità di questo metodo? Secondo lui non possono essere situati nella stessa esperienza di empatia. Infatti, in primo luogo, essa non è altro che un mezzo per rapportarsi agli accadimenti psichici dell’altro come ad un dato. Non si può parlare di conoscenza finché non si instaura una relazione per via concettuale. Inoltre il valore dell’empatia, per la conoscenza della vita psichica, può variare considerevolmente. Egli critica fortemente la posizione di Jaspers che sostiene che il carattere più importante, che il comprendere razionale e psicologico deve possedere, è quello della evidenza: se una connessione è comprensibile «esperiamo una evidenza immediata». Ma Jaspers, secondo Hartmann, non ci fornisce un criterio valido per discernere quando la comprensione ci porta ad errori: sappiamo molto bene come la coscienza mostri solo una parte di sé, come l’inconscio rimanga nascosto, come a volte i nostri stessi pensieri ci appaiano come incomprensibili, oppure come una connessione comprensibile non copra affatto il processo reale (ad esempio, comando post ipnotico). Egli sostiene che nessuna psicologia della vita psichica superiore può eliminare la comprensione empatica ma la sua preoccupazione è quella di servirsene solo dopo aver stabilito i limiti della sua affidabilità. Infatti solo il metodo induttivo della psicoanalisi, che viene praticato in tutte le scienze naturali, può decidere sui limiti della comprensione empatica. Appare evidente il posto che il comprendere empatico occupa nella concettualizzazione di Hartmann, teso alla costruzione di una teoria psicologica piuttosto che alla comprensione dei pazienti e alla costruzione del rapporto con lui. L’empatia, essendo un mezzo di conoscenza tipico del processo primario, non porta a consapevolezza: questa viene raggiunta solo attraverso modalità di processo secondario come la interpretazione. Con questo articolo egli anticipa molto precisamente il dibattito attuale tra psicologia del sé e psicoanalisi classica.

T. Reìk (1937) sostiene che l’empatia è un processo di partecipazione inconscia ad una emozione: l’analista sperimenterebbe un cambiamento di personalità, diventerebbe il paziente e quindi abile a percepire quello che sente o farebbe il paziente stesso. Questo diventare l’altro si fonda non solo sulla comunicazione verbale ma anche su quella non verbale: «L’osservazione di un altro diventa la osservazione di una parte del proprio Io trasformato dal prendere l’oggetto dentro di sé». Non è molto chiaro quanto il processo empatico venga esemplificato con la introiezione e quanto con la identificazione. Fenichel (1941) dal canto suo sostiene che la osservazione dei movimenti e della mimica del paziente aiuta a rivivere le stesse esperienze del paziente: ci chiediamo se può essere questa definita imitazione. Fliess (1942) propone per l’empatia una similitudine che la equipara «al mettersi nei panni del paziente» ottenendo cosi una conoscenza interna di prima mano: definisce questa operazione come «identificazione di prova» che è di breve durata, non regressiva e sotto il controllo dell’analista. Knight (1946) afferma che per costruire una valida relazione con il paziente l’analista deve avere talento di empatia, sensibilità e competenza. La sua attività terapeutica deve essere descritta come una flessibile alternanza tra empatia ed obiettività.

«Il terapeuta deve seguire il paziente con empatia nelle sue azioni irrazionali, sedere con lui, camminare con lui, giocare con lui, tentare costantemente di comprendere e dì rimandare al paziente il prodotto della sua comprensione.»

Questo autore descrive in tal modo soprattutto il suo stile di lavoro con i pazienti psicotici, e utilizza per la chiarificazione di questo modo di procedere i processi introiettivi e proiettivi che si compiono nell’analista definendoli come «identificazioni distaccate con il paziente».

Per Rapaport (1953) il termine di empatia è un termine mal definito: «comunicazione per piccole entità, che o non sono riconosciute, o sono distribuite nel tempo e nello spazio in modo tale da non permettete l’integrazione cosciente degli indizi cosicché si realizzi una percezione e/o integrazione preconscia di tali indizi i cui risultati siano sperimentati come empatia o intuizione.»

L’empatia appare come uno strumento di conoscenza, come una funzione dell’Io. Essa non viene confusa, in questo autore, con il dato che viene esperito ma è una qualità dell’esperienza; inoltre il dato non è solo l’affetto ma la risultante dell’organizzazione pulsionale della realtà. A. Reich (1966) descrive l’empatia come un processo inconscio in cui avvengono temporanee identificazioni con il paziente; ella la contrappone chiaramente ai fenomeni controtraslazionali che sarebbero irruzioni di impulsi dell’Es; per differenziare questi due fenomeni ella assume il costante avvicendamento della percezione inconscia e della valutazione più intellettuale. Nella letteratura fino a qui osservata troviamo l’empatia assimilata a complessi aspetti cognitivi: riassumendo, l’analista è attento agli «affetti segnale» propri dell’analizzando o alle fantasie comuni; è pronto ad usare riflessivamente queste reazioni come indizi degli aspetti emotivi e del significato dell’attività dell’analizzando nella seduta. Si ritiene che questi elementi cognitivi nascano da identificazioni di prova, segregate o parziali, con l’analizzando. Queste identificazioni dal canto loro si formano attraverso processi proiettivi e introiettivi o attraverso fusioni e per fare ciò utilizzano ricordi di esperienze personali. Tutto questo processo può essere descritto come una variante della regressione al servizio dell’Io di Kris (1952); tale regressione abbisogna, per attuarsi, come sottolineava Fliess (1953), di un allentamento degli standards superegoici dell’analista. Tale atto può essere investito sia dall’analista che dell’analizzando di un significato di cura materna, di seduzione, di invasione del corpo dell’oggetto ecc... Comunque l’analista non entrerà in conflitto con il proprio Supe-rio perché tali significati sono subordinati a significati più neutrali come mezzi di comprensione atti ad ottenere beneficio terapeutico.

Con gli anni '60 inizia invece un nuovo discorso intorno all’empatia: da fenomeno circoscritto, inframezzato, temporaneamente limitato alla fase iniziale della comprensione emotiva e non preso in considerazione per la fase di spiegazione razionale, esso si espande a tutto il processo analitico e anche le indagini abbracciano non tanto una funzione quanto un movimento: parliamo qui della «conoscenza emotiva» di Greenson, della «introspezione vicariante» di Kohut, della «empatia generativa» di Schafer. Greenson (I960) considera l’empatia come uno sperimentare e condividere i sentimenti di un’altra persona con lo scopo di raggiungere la comprensione del paziente e la distingue dalla simpatia, dalla imitazione, dalla identificazione. Essa comporta una scissione dell’Io dell’analista e uno spostamento da una posizione di osservatore ad una posizione di soggetto partecipe, movimento che avviene in un senso e nell’altro più volte. Egli enumera una sequenza di eventi che sono insiti nell’empatia e che si possono osservare solo retrospettivamente a causa della rapidità e a volte della contemporaneità degli accadimenti. È molto più facile descriverla quando non si riesce ad entrare in empatia! L’analista passa da una posizione di osservatore esterno ad una posizione di osservatore dal di dentro («permisi ad una parte di me di diventare la paziente»); egli mette in primo piano il modello operativo che si è costruito pian piano del paziente: egli osserva e sente il paziente sempre attraverso questo modello. Tutto ciò che riguarda la persona del terapeuta viene messo in secondo piano tranne le esperienze e le reazioni simili a quelle del paziente che rimangono in prossimità del modello e che servono a dare corpo ad esso. Si verifica, a questo punto, una esperienza di contatto emotivo e le comunicazioni del paziente suscitano nel terapeuta quella piacevole sensazione di comprendere qualcosa che fino a un attimo prima era oscuro (esperienza di «Ah!»). Questa esperienza risveglia l’Io analizzante che era rimasto relativamente distante e che, entrato in primo piano, tenta di appurare il significato degli avvenimenti all’interno del modello. A questo punto l’Io analizzante soppesa la opportunità di fare delle comunicazioni al paziente realizzando un nuovo passaggio da ruolo di osservatore a quello di partecipante; le reazioni a livello del modello operativo determineranno il dosaggio, la tempestività e il tatto degli interventi. Tutto questo processo preconscio non avviene in sequenza lineare ma con continue oscillazioni e simultaneità. Non è molto chiaro cosa sia e come si formi questo modello operativo del paziente: esso non è una copia perché contiene anche le «nostre aspettative» sul paziente e anticipazioni delle sue potenzialità; esso risente della soggettività dell’analista (esperienza clinica, conoscenza teorica, ecc.). Si deve distinguere molto bene dunque tra il paziente, il modello del paziente e il terapeuta. Greenson cerca di dare una spiegazione, metapsicologica di tale processo affermando che in termini della psicologia dell’Io esso rappresenta una neutralizzazione e una fusione dell’Io autonomo libero da conflitti; in termini di psicologia del Sé esso è un processo che richiede una capacità di modulazione degli investimenti della propria immagine e del disinvestimento temporaneo di questa con il presupposto di un saldo senso di identità. Oltre a ciò egli si dilunga anche nel descrivere situazioni di empatia patologica in cui è possibile che si presenti una situazione di inibizione dell’empatia, dove l’analista rimane costantemente nella posizione di osservatore non coinvolto, oppure che accada una perdita di controllo dell’empatia con grave difficoltà a tornare al ruolo di osservatore. Egli pone le origini dell’empatia nel contatto non verbale, di pelle, di intonazione della voce tra madre e bambino, nella fase simbiotica. Per H. Kohut (1984) l’empatia diviene addirittura «l’operazione che definisce il campo della psicoanalisi». E’ una necessità psicologica e senza l’impiego dell’empatia non è possibile alcuna psicologia degli stati profondi, in quanto la patologia del Sé è il risultato di fallimenti empatici da parte degli oggetti Sé. Egli la definisce «introspezione vicariante — o — come il tentativo di sperimentare, da parte di una persona, la vita interiore di un’altra, pur conservando nello stesso tempo la posizione di osservatore imparziale.» L’analista si sposta continuamente dalla posizione del comprendere alla posizione dello spiegare e in ognuna di queste posizioni è essenziale l’empatia: a volte in pazienti fortemente traumatizzati la fase di comprensione deve restare per lui l’unica per un lungo periodo di tempo, in quanto essi non sono in grado di sopportare nulla oltre la comunicazione della comprensione stessa. Nella fase esplicativa, mentre si affievolisce il legame di fusione arcaica, un legame empatico più maturo si sostituisce al precedente: l’analisi diviene quindi la sostituzione di una esperienza di risonanza empatica da parte di un oggetto-Sé ad una esperienza di fusione con un oggetto-Sé. Tutto questo avviene con l’aiuto dello psicoanalista che sposta pian piano l’attenzione, concentrata sulla fase della comprensione (l’intelligenza empatica della esperienza del paziente), verso la fase di spiegazione (l’intelligenza empatica delle dinamiche, delle interazioni di traslazione e dei loro precedenti genetici).

Lo psicologo del Sé non possiede una capacità maggiore di empatizzare ma piuttosto è in possesso di una teoria che gli permette di allargare il campo d’applicazione di essa.

Anche per Schafer (1983) non vi è una netta linea di demarcazione tra attività empatica e atteggiamento analitico nel suo complesso, anche se la sua posizione non è sovrapponibile a quella di Kohut. Egli sostiene che una enfatizzazione adeguata aiuta a preparare la strada e aumenta il cambiamento operato dalla interpretazione; ritiene però che l’empatia da sola non sia in grado di curare. Egli critica fortemente molti scritti sull’empatia definendoli come troppo spesso automagnificatori, esibizionistici e quasi sempre senza una netta demarcazione tra ciò che è una performance personale e la necessaria empatia, simpatia e pietà, ma soprattutto tra l’empatia dell’analista e l’empatia presente nelle varie e ordinarie relazioni umane, tra i prototipi infantili dell’empatia e le forme che essa assume nei lavoro analitico. Ribadisce inoltre un altro aspetto importante, e quasi mai preso in considerazione dagli altri autori, quello dell’abitudine di limitare il contenuto dell’empatia non solo ad alcune esperienze emotive che si considerano di solito le più idonee da vivere in analisi e cioè la disperazione e la speranza, la vergogna o la gioia, il conflitto e il controllo, eliminando dall’attività dell’empatizzare per esempio quella di un orgoglio smisurato, una sociopatia, il sadismo e simili. Di solito gli analisti pensano che bisogna empatizzare con la lotta a queste tendenze e non pensano che sia più opportuno empatizzare con le tendenze stesse. Egli non crede assolutamente che queste forme di empatia siano basate su eventuali controtraslazioni o identificazioni patologiche. Schafer riscontra quattro caratteristiche dell’attività empatica, che ne fanno un processo, un’azione, un movimento: 1) costruzione da parte dell’analista di un «modello mentale» dell’analizzando; 2) modificazione dell’attività dell’analista che sfocia in quello che Fliess definiva l’«Io di lavoro» e che Schafer chiama «secondo Sé»; 3) «aspetto fittizio» della relazione analitica; 4) aspetto della «trasformazione» prodotta dall’attività empatica, contrapposto al semplice aspetto dell’imitazione o della identificazione. Egli preferisce usare il termine «empatizzare» invece che empatia, termine che indica soprattutto un’azione che non si limita alle attività motorie ma è allargata ad attività di pensiero in tutte le sue forme e gli aspetti cognitivi del comportamento emotivo. Una caratteristica importante del secondo-Sé è quella del suo orientamento positivo che fa si che l’analista ritenga che l’analizzando stia facendo ciò che sembra essenziale fare in quelle condizioni che, dal punto di vista psichico, sono le più reali possibili, permettendo così di lavorare con il «senso tragico» dello sviluppo dell’esistenza. Un’altra caratteristica fondamentale del secondo-Sé è la tenacia («un empatizzare fermo e deciso»): l’analista tenace controlla il proprio senso di essere integrato e intero per non essere danneggiato dalle varie e continue escursioni empatiche cui i suoi pazienti lo sottopongono. L’anticipazione è una caratteristica della tenacia: intelligenza come capacità di applicare modelli di probabilità. Schafer parla di «relazione dialogica fortemente specializzata» e sottolinea come in effetti tutte le relazioni hanno un aspetto fittizio in quanto costituite da ciò che è convenzionalmente realistico, probabile, e da ciò che viene fantasticato inconsciamente.

Un discorso a parte va fatto per la teoria di M. Klein di cui non riteniamo opportuno enunciare le differenze e le novità rispetto a quella freudiana. Per lei le considerazioni sulla tecnica, sul clima dell’analisi, sull’atteggiamento analitico sono inscindibili dal trattamento stesso, dalla interpretazione stessa come unico metodo di comprensione e di cura. Se il paziente deve distinguere ciò che è esterno da ciò che è interno, capire quanto è falsata la sua visione del mondo dalle sue fantasie onnipotenti, egli può farlo solo se l’analista conserva inalterata la sua funzione fondamentale nei confronti delle sue proiezioni. E’ appunto attraverso l’identificazione proiettiva e il riconoscimento della controtraslazione che l’analista comprende e immediatamente interpreta ciò che ha compreso. Tale comprensione sembra contenere sia l’aspetto intellettivo che quello affettivo: H.Segal alla domanda se il fattore terapeutico o mutante dell’analisi, sia da mettere in relazione con l’insight o con un rapporto oggettuale correttivo, risponde che i due fattori sono inseparabili, perché è solo nella sicurezza del rapporto analitico con il terapeuta come «partner» che non proietta o reagisce, ma mira a «comprendere» che può svilupparsi un vero insight. In questo ambito teorico e tecnico l’empatia non viene nominata, né assume esplicitamente un ruolo centrale nel trattamento, ma ugualmente essa sembra permeare l’intera relazione: è questo il motivo della dichiarazione di Kohut di sentirsi più vicino ai colleghi kleiniani, sia pur con un orientamento teorico diverso, che agli analisti statunitensi.


Negli anni ’80, con le critiche alla metapsicologia e l’emergere della prospettiva ermeneutica radicale, vi è stata una accentuazione dell’attenzione sull’empatia e sull’approccio empatico come l’unico capace di creare la verità della persona totale nell’ambito della relazione diadica pazienteterapeuta. Si è acceso di conseguenza un intenso dibattito sull’argomento con la discesa in campo di molteplici sostenitori delle due parti: i difensori della metapsicologia, come unico mezzo per definire la psicoanalisi come disciplina autonoma e suo orizzonte epistemologico, e coloro che le tolgono ogni specificità, ponendola nel mondo dell’arte, della creatività e dell’ineffabile. Tra i due fronti avanza, sostenuto dalle nuove scoperte neurofisiologiche e neuroendocrine, il fronte delle scienze biologiche e dell’organico. Osservando i vari contributi, lo sguardo spazia in un vasto campo dove dominano ancora questioni del tipo: che senso abbia la metafora del chirurgo e dello specchio; cosa sia la neutralità analitica; che cosa voleva sostenere Leo Stone quanto consigliava al terapeuta di mantenere «l’atteggiamento terapeutico». Molte accuse sono state rivolte a Kohut per la pretesa di aver inventato l’empatia già presente in tutti gli autori, anche se non nominata esplicitamente o sottolineata. I kohutiani rispondono che egli non si è mai arrogato il diritto di tale invenzione e che ne parla come qualcosa di molto familiare a tutti gli psicoanalisti. Egli trasformerebbe solo l’empatia nello strumento che si oppone alla inclusione nella psicoanalisi dei dati ottenuti dagli assunti biologici e dei concetti sociopsicologici. Shapiro (1981) e Buie (1981) sono i più accaniti critici alla concezione di Kohut che considerano appunto lontana dalla scienza, incamminata verso il misticismo e la sensitività. Essi considerano il processo inferenziale della psicoanalisi molto diverso dal processo empatico. S.Olinick (1984) si avvicina invece al problema attraverso la distinzione tra simpatia ed empatia e considera quest’ultima come né mistica né scientifica, ma come uno strumento consueto dell’analista, essenziale per la comprensione comunicativa. Vale la pena notare che si tende ad associare gli aspetti mistici dell’empatia con qualche versione mitologica dell’interazione madre-bambino. Olden (1958) dice che il fenomeno dell’empatia è cosi profondo come nei primi giorni di vita, quando non c’è il mondo esterno, nessun Io, quando la completa unicità con la madre procura solo l’esperienza soggettiva di conforto e sconforto.

Ciò che qui è in discussione non è una spiegazione genetica, ma la associazione di empatia al maternage e al fenomeno mistico di unicità. Altre osservazioni collocano l’origine dell’empatia nella fase di differenziazione Sé oggetto, quando si sia raggiunta la costanza di oggetto (Fliess 1953; Beres 1968; Buie 1981; Bergman 1984). Per lo sviluppo dell’empatia sarebbe necessaria la fusione, seguita dalla differenziazione, il piacere della fase simbiotica, seguito dalla crisi della separazione. L’empatia materna determinerebbe la natura dell’autorappresentazione del bambino e la sua capacità di empatia (Lebovici 1986). Lichtenberg (1981) la considera una «piattaforma di osservazione», Reed (1982) mette l’accento su un’immagine di empatia quale strumento di intrusione, di incisione, che ha per scopo finale il sequestro di qualcosa appartenente all’altra persona, immagine di una empatia attiva e fallica. L’attenzione si è appuntata sulla relazione tra affetto e cognizione, su cosa sia terapeutico nell’analisi, se sia cioè l’interpretazione o la conoscenza empatica a permettere una riorganizzazione dei vissuti emozionali. Si ritorna alla ignorata fascinazione freudiana per la comunicazione inconscia profonda (Laevy 1973, Miller-Major 1981), giungendo a chiedersi se l’empatia può rappresentare l’azzardo e l’occulto nella scienza. La psicoanalisi, ci si chiede, è dunque una scienza, o è un tuffo nell’ineffabile mondo del soggettivo, dell’arte? Notiamo però che il concetto di empatia è sempre la linea di confine dei vari fronti e che ci si adopera o a riempirlo di significati e a sopravvalutarlo o a svalorizzarlo.

Tale termine voga dunque fluttuando in un mare tempestoso ora accostandosi all’aspetto dell’umana esperienza carica di affetto, di comunicazione intersoggettiva, di scambio empatico ora affiancandosi alle rive sicure delle categorizzazioni già esistenti, estensione conosciuta ma non esplicitata di esse. Ma una domanda urge a questo punto: perché se la si accosta alla umana esperienza essa perde per forza la sua scientificità e diviene ineffabile? E l’ineffabile non è forse un concetto definibile anche in negativo, nel senso del non conosciuto e non trasmissibile, ma passibile di futura conoscenza e trasmissione? D’altra parte in psicoanalisi la precisione delle definizioni è molto relativa: termini quali Es, Io, Super-io, regressione, Sé, fissazione, traslazione e controtraslazione, hanno significati ed usi diversi per diverse teorie ed anche, per le medesime teorie, in tempi diversi. In effetti l’uso che si fa del termine empatia è così ampio da lasciare disorientati. Ma se ne limitiamo invece il significato e l’uso, può ancora rimanere abbastanza flessibile e crescere in connotazione senza perdere la capacità di denotazione? E’ possibile prendere in considerazione l’empatia senza sconfinare dal campo metapsicologico, senza offuscarlo e farlo scomparire del tutto?
Basch (1983) sviluppa sulla comprensione empatica uno spunto che ci sembra interessante percorrere non solo per la esplicazione di questo concetto, ma anche per ridargli una giusta collocazione nell’ambito della psicoanaìisi. Egli sostiene che poiché l’empatia dipende dalla trasmissione degli affetti, potremmo tentare una spiegazione soddisfacente di questo processo continuamente sfuggente attraverso la elaborazione di una psicologia degli affetti. Il mancato riconoscimento di tale teoria è stato, non solo per lui, di ostacolo alla costruzione della teoria psicoanalitica. E noi riteniamo che sia stato anche la causa della sopravvalutazione o svalutazione del concetto di empatia e del suo uso, e responsabile del perpetuarsi dell’agire del pensiero dicotomico cartesiano anche in questo ambito.

Per parlare di affetti in psicoanalisi bisogna innanzitutto riferirsi a Rapaport che ha sistematizzato in modo completo i concetti dell’opera freudiana su tale argomento. Secondo Rapaport le implicazioni teoriche degli affetti non permettono e sconsigliano «la formulazione definitiva di una vera e propria teoria aggiornata degli affetti». Descrivere la varietà dei fenomeni affettivi è una impresa ardua per la facilità con la quale si può essere fuorviati. D’altra parte non è possibile non considerarli, in quanto guidano il lavoro quotidiano de] terapeuta e la «rievocazione» o la «comprensione» conseguente alla interpretazione non producono alcun progresso terapeutico senza una intensa partecipazione affettiva. Sappiamo ciò, ma non lo si sa spiegare. Rapaport afferma che «ci si potrebbe perfino chiedere se una teoria metapsicologica della tecnica e della teoria sia addirittura concepibile prima dì aver chiarito la posizione metapsicologica degli affetti, che occupano una posizione centrale nei processi terapeutici.»

Vengono qui poste molte questioni quali: che ruolo hanno gli affetti nel lavoro clinico, in che rapporto essi sono con la interpretazione, qual è il metodo di rilevamento di essi; può essere l’empatia questo mezzo di rilevamento; di cosa e come essa è costituita?


Seguiamo il percorso di Rapaport lungo le trasformazioni dei concetti di Freud sugli affetti. Egli distingue 3 fasi cronologiche: nella prima fase l’affetto è equivalente ad una quantità di energia psichica {«quasi una carica elettrica che si propaga sulle superfici dei corpi», Freud 1894). Non vi è ancora distinzione tra energia di investimento affettivo e energia di investimento pulsionale e energia vincolata; l’angoscia è spiegata come affetto o libido deviata dal suo impiego. Rapaport sottolinea come tuttora la psicologia accademica, la psichiatria, la medicina psicosomatica perpetuano questo tipo di uso ormai abbandonato dalla psicoanalisi. Ma già nella prima fase, nel Progetto per una psicologia scientifica del 1895, si trovano le tracce della teoria più tarda degli affetti, nella indicazione della relazione tra pulsione ed affetto attraverso la descrizione dello stato affettivo dell’innamoramento, considerato come un derivato dell’istinto sessuale. La seconda fase inizia con L’interpretazione dei sogni (1900) in cui gli affetti non sono più considerati come energia, «ma come processi motori e secretori» la cui chiave di innervazione si trova nelle rappresentazioni dell’inconscio. Gli affetti vengono liberati da desideri inconsci e divengono rivelatori di essi. Viene considerata la complessa relazione tra affetti e rappresentazioni; Ì sentimenti vengono tutti considerati in termini di vicissitudini delle cariche di energia libidica. Questa teoria è basata essenzialmente sull’inconscio, in quanto non studia le relazioni e il funzionamento di queste in rapporto all’Io. La terza fase inizia ufficialmente con l’opera Io e Es (1923) in cui i processi, che prima erano riferiti ai conflitti dell’Es giungono a coinvolgere livelli più elevati della struttura psichica (colpa come risultante del conflitto tra Io e Superio). Gli affetti (angoscia) non appaiono più come valvole di sicurezza, non sono più sopportati passivamente dall’Io, ma sono prodotti attivamente come segnali. In inibizione sintomo e angoscia (1926) Freud sottolinea la presenza di fattori innati nella formazione degli affetti che considera come bagaglio congenito osservato anche negli animali. Rapaport continua nella sua rassegna citando Glover (1935) che descrive il vincolamento) degli affetti in certi sistemi ossessivi e A. Freud con la sua descrizione delle difese dagli affetti (1936).

La Jacobson e Glover sono i due autori che, secondo Rapaport, hanno tentato una classificazione sistematica degli affetti: la prima riformulando la teoria conflittuale e strutturale degli affetti originati da tensioni intra e intersistemiche, il secondo sottolineando come i fenomeni affettivi richiedano, più di qualsiasi altra manifestazione psichica, una grande varietà di approcci. Procedendo negli studi dì Rapaport sulla questione della coscienza e degli stati di coscienza, osserviamo come egli richiami l’attenzione di nuovo sugli affetti e sulle pulsioni ad essi sottostanti, le quali organizzano i ricordi e trasformano le tracce mnesiche in idee: «l’esame di realtà senza il contributo affettivo si trasforma in magia ossessivo paranoica». Gli oggetti diventano significativi a seconda della loro relazione con la organizzazione pulsionale, che diviene cosi una organizzazione concettuale. «Le cariche che operano all’interno di questa nuova organizzazione della memoria sono cariche vincolate» e questo è il processo secondario.

Anche in Piaget (1966) ritroviamo continuamente il concetto che l’insieme dei progressi affettivi va di pari passo con la strutturazione generale delle condotte. Vi è per lui una costante interazione tra affettività e intelligenza. Queste due strutture che sembrano di natura tanto differente, nell’agire concreto dell’individuo sono indissolubili.

«È impossibile trovare azioni che dipendono dalla sola affettività, senza elementi cognitivi e viceversa; … l’affettività ha funzione di sorgente energetica da cui dipende il funzionamento dell’intelligenza.»

Per Piaget queste due entità sono ben distinte, ma totalmente indissociabili («auto e carburante = struttura ed energia psìchica»). Egli ritiene molto importante il ruolo della imitazione nell’apprendimento come strumento di conoscenza del proprio corpo in analogia con quello altrui. «Con il passare all’immagine mentale, l’imitazione non è soltanto differita, ma interiorizzata e diventa pensiero». Ma, secondo noi, se l’imitazione dei primi anni di vita è alia base della struttura stessa del pensiero, del linguaggio e di tutto l’apprendimento in genere, se l’imitazione gioca un ruolo molto importante nell’empatia, non è possibile inferire forse che questa è uno strumento di conoscenza e che non vi è una buona empatia senza un buon apprendimento imitativo precedente, senza una buona strutturazione dell’intelligenza? Per Piaget l’affettività comprende le emozioni e le diverse tendenze superiori come la volontà.

«Non esiste nessuna condotta, per quanto intellettuale essa sia, che non comporti come movente dei fattori affettivi, ma egualmente non potrebbero esserci stati affettivi senza l’intervento della percezione e comprensione che ne costituiscono la struttura cognitiva.»

Inoltre Piaget mette l’accento, come Rapaport, sulle radici ereditarie e istintive dei sentimenti, soggetti a maturazione durante l’esperienza vissuta per arricchimento derivato dallo scambio interindividuale. Egli rimanda a Spitz, Goldberg e Bowlby per gli studi sugli affetti e il ritardo sistematico dello sviluppo dopo separazione dalla madre che per Piaget, non è soltanto l’elemento materno in senso freudiano, ma la mancanza di interazione stimolatrice. Egli afferma che la sua psicologia non può essere definita una teoria dell’intelligenza anche se ne contiene una, né la psicanalisi una teoria degli affetti anche se ne contiene una. È l’attività psichica che e globale e siamo noi che la scindiamo con i nostri approcci particolari. Egli afferma, come Rapaport, che non può esservi pensiero senza sentimento. Il pensiero puro non esiste, come non esiste il sentimento puro, senza il suo pensarsi e una sua rappresentazione. In ogni condotta le motivazioni e il dinamismo energetico dipendono dall’affettività, mentre le tecniche e l’adeguamento dei mezzi impiegati costituiscono l’aspetto cognitivo. Lamenta la mancanza di una teoria generale che unisca compenetrando, le teorie dei due aspetti cognitivi e affettivi. A livello di operazioni cognitive, l’empatia dipende dai decentering, termine usato da Piaget per descrivere l’abilità ad assumere un punto di vista oggettivo, (dell’altro) su di sé, attraverso la riflessione: “[…] esistono personalità che si interessano agli uomini più che alle cose o alle astrazioni, ma non è detto che le prime siano più sentimentali delle seconde.” Inoltre per Piaget, una struttura porta sempre ad una genesi, che porta a un’altra struttura più elementare, che porta anch’essa a una genesi sempre anteriore, fino a giungere al fondo biologico che presuppone a sua volta strutture nervose.

Infine, negli ultimi cinque anni, in tutti i lavori sulla empatia e sugli affetti prodotti da autori psicoanalisti, troviamo un ritorno a quella parte dell’opera di Freud che si fonda sull’istinto biologico e sulla sua rappresentazione o affetto. Viene citato il Progetto per una psicologia scientifica quale tentativo di costruzione di un modello completo della mente dove biologico e psicologico cercano di fondersi, di cui vengono sottolineate le affermazioni organiche di tipo evoluzionistico. In questi scritti vi sono riferimenti alle teorie darwiniane, per l’importanza in esse data alla natura biologica del comportamento; vengono citati quei lavori fioriti negli anni ’60, al di fuori della psicoanalisi, caratterizzati da approcci comunicativi, biologici, intersoggettivi al problema degli affetti. Lo stesso Knapp (1987) cita ampiamente il vasto lavoro di Plutchik, Emozioni: una critica psicoevoluzionistica {1981), di tradizione strettamente darwiniana, teso alla rilevazione delle espressioni emotive del viso e della voce. Gli psicoanalisti Basch (1983) e Demos citano il lavoro di Tomkins (1962) ugualmente stilato secondo la concezione evoluzionistica degli affetti come innati. Nei due volumi sull’empatia pubblicati nell’ambito della Psychoanalytìc Inquiry Book Series (1984), a cura di Lichtenberg, trova spazio un articolo di R. Restak, “Possibili correlazioni neurofisiologiche dell’empatia” (1984), in cui l’autore affronta la tematica attraverso una indagine della capacità e modalità di percezione delle emozioni; attraverso studi etologici sia animali che umani, studi neuroanatomici, neurofisiologici, ormonali e prosodici egli sottolinea come il processo empatico non possa assolutamente prodursi qualora non sussistano i presupposti organici deputati a tale funzione.


Dando uno sguardo d’insieme a tutte le ricerche e gli studi sopra riportati, che saranno oggetto di un nostro ulteriore contributo, si ricava abbastanza precisamente l’impressione che nulla di nuovo dal punto di vista psicoanalitico è emerso negli ultimi anni sul fronte di questo dibattito, oltre un ritornare su vecchi concetti e affermazioni. Ci sembra di poter affermare che sempre maggiormente, dal 1980 in poi, vari autori si rivolgono ad un campo biologico, tornando a concetti di organica istintualità e guardando con molto interesse le nuove scoperte delle neuroscienze, come se queste fossero in grado di fornire una via d’uscita dalla laboriosa diatriba tra ermeneuti e metapsicologisti. Questo filone permette alcune riflessioni) e puntualizzazioni sull’argomento: in quasi tutti gli scritti troviamo la presenza di un impreciso concetto di percezione ed è spesso difficile individuare la linea di demarcazione tra ciò che è percepito e ciò che percepisce. L’aumentata conoscenza sulle emozioni derivataci dalla lettura delle ricerche ci ha permesso di rilevare quanto sia facile fare confusione tra dato da osservare e qualità dell’esperire. Ulteriore confusione nasce dal tentativo di dare esplicazione al termine di empatia attraverso l’uso di concetti psicoanalitici quali identificazione, controtraslazione, regressione ecc. Non ci sembra necessario usare dei concetti metapsicologici per spiegare un tale fenomeno; riteniamo che possa essere più semplicemente definito una funzione superiore, una struttura complessa formale, prodotta dalla maturazione delle strutture intellettive; una funzione dell’Io di cui conosciamo molti aspetti che probabilmente non riusciamo ad integrare in una unica globalità operativa. È una struttura cognitiva usata dallo psicoanalista, una funzione come, per intenderci, il pensiero e il linguaggio, una parte delle capacità intellettive del terapeuta, Enfatizzare l’empatia nel processo analitico è come enfatizzare l’uso della parola, dell’udito, del pensiero; non si dà forse per scontato che l’analista parli, oda, pensi, che non sia muto o sordo o ragioni? È una condizione necessaria ma non sufficiente a garantire il processo. Un altro elemento portatore di confusione è la difficoltà per la nostra organizzazione di pensiero a conciliare la realtà del sentire soggettivo e dei fenomeni emozionali con la concezione scientifica di una realtà totalmente oggettiva, verificabile.


Da molti anni ormai la teoria psicoanalitica è stata sottoposta ad una serie di esami e osservazioni tesi alla ricerca di una prova di validazione per poterla ammettere tra le scienze esatte. La sua struttura logica e il suo contenuto empirico sono stati immessi nei canali teorici epistemologici e ne sono usciti con un preciso marchio di non scientificità; contemporaneamente degli psicoanalisti si sono rifugiati nel campo delle scienze storiche attraverso la via dell’ermeneutica. Il fatto che la psicoanalisi si occupi del soggettivo, che l’osservatore sia parte integrante del campo, la inevitabile circolarità del suo metodo, la porrebbero al di fuori di una verificabile oggettività. Il processo empatico inoltre, separato da sempre dalla vera e propria interpretazione in quanto legato ad un ineffabile sentire non meglio specificato, è maggiormente squalificato e squalificante. Perciò il suo oggetto di osservazione ed una ancora scarsa definizione dei suoi procedimenti sono responsabili del suo bando dal campo delle scienze esatte. Anche I’autoeliminazione da questo campo attraverso la via dell’«empatia creativa», della verità dell’hic et nunc, della narrazione, non ci sembra portatrice di ulteriori progressi. Sarebbe forse più opportuno continuare una ricerca e un approfondimento nel campo della psicoanalisi, e del difficile problema mente-corpo. Tutti i fenomeni mentali, sia consci che inconsci, visivi, uditivi, pensieri o dolori sono processi che avvengono nel cervello. Nulla accadrebbe per noi, fuori, nel mondo, se non ci fosse una corrispondente esplosione neuronale e il nostro cervello può produrre cose che non esistono fuori nel mondo. Questo è noto e per la psicoanalisi è un pre-dato che però non va sottovalutato o eluso; ciò che è biologico deve essere spiegato come tale e lasciato come prerogativa ad esso.

A questo punto è necessario affrontare la questione di che cosa sia terapeutico nel processo analitico: se l’empatia o l’interpretazione. Quasi sempre questi due aspetti sono stati separati in due parti indipendenti e sostanzialmente differenti qualitativamente, contrapposti in coppie dicotomiche come irrazionale-razionale, soggettivo-oggettivo, ecc. La prima non poteva essere confusa con la seconda pena la perdita di credibilità e di scientificità dell’interpretazione stessa. Varie tecniche hanno auspicato il predominio di una parte sull’altra, ora gonfiando l’interpretazione a scapito dell’empatia, ora, soprattutto negli ultimi anni, enfatizzando l’approccio empatico come fondamentale. Si è anche affermato che occorre distinguere una diversa temporalità di attuazione dei due processi: in un primo tempo sarebbe necessario usare solo l’empatia per preparare la strada all’interpretazione !a quale assurge così alla parte elevata e terminaie del processo. Non ci sembra reale una tale distinzione temporale, qualitativa e concettuale, essendo i due processi talmente compenetrati da essere inscindibili: una buona empatia contiene una esatta lettura e interpretazione della situazione al di là del fatto che produca silenzio e verbalizzazione o qualsiasi altro atteggiamento dell’analista. Il nucleo logico operativo dell’empatia è cosi rapido e quello dell’interpretazione è così poco definito e conosciuto; le parole, e non solo esse, con le quali si comunica qualcosa al paziente, sono solo l’ultimo atto di un lungo e complesso processo in cui la cosiddetta percezione empatica affianca costantemente una serie di operazioni più astratte. Abbiamo visto come Rapaport e Piaget, ognuno a suo modo, affermino che l’affettività permea ogni nostra attività, anche quella del pensiero formale e come ogni organizzazione mentale della realtà è sempre anche una riorganizzazione pulsionale. Possiamo qui ricordare le affermazioni di Codignola (1977) sulla problematicità della interpretazione che «non è una operazione come quella che viene descritta spesso, una operazione pura che si sviluppa in condizioni ideali o astratte. E inoltre: Quali sono le operazioni logiche nelle quali si articola l’interpretare, quale ambito esse prendono: quello simbolico è solo una parte? Quale è il funzionamelo mentale che nel processo interpretativo coinvolge analista e paziente, ridotto alle sue fattuali modalità di espressione e non solo immaginato in chiave ideale?»

Il problema dei «parametri» (Eissler, 1953) è indicativo al riguardo e Codignola vi fa ampio riferimento. Rispetto al discorso dell’empatia, è esemplare la tematica della tecnica di trattamento dei disturbi narcisistici proposta da Kohut. Dal punto di vista tradizionale il parametro è considerato come una deviazione controllata. In Kohut la «deviazione» diviene regola fondamentale e necessaria. Egli si spinge fino a dire che se l’analista trascura di riconoscere la validità di certe richieste avanzate dai pazienti, egli diviene inadeguato allo stesso modo in cui lo erano stati i suoi genitori. L’aumento di interesse e attenzione per l’empatia, la sua posizione centrale nell’analisi è certamente riconducibile al fatto che gli analisti si siano interessati ai disturbi precoci dello sviluppo e a forme psicopatologiche più gravi di quelle nevrotiche. Quindi dipende dalla diagnosi e dalle costruzioni teoriche da cui questa deriva. La domanda sulla terapeuticità dell’empatia diventa inevitabilmente anche una domanda sulla terapeuticità dell’intero processo analitico. Rispetto all’insoddisfazione per lo stato attuale dell’analisi teorica, citiamo alcune parole di Rapaport riferite alla struttura della psicoanalisi:

«Ricerche ulteriori potrebbero tranquillamente sostituire questi concetti. Ma non si possono abolire i fenomeni ai quali questi concetti si riferiscono. Fino ad oggi la psicoanalisi è l’unica teoria che ha cercato di tener conto di questi fenomeni. Se questa teoria è considerata debole dalla psicologia accademica, questa non ne ha ancora proposta una migliore che tenga conto dei fenomeni e noi possiamo citare le parole del poeta (che Freud stesso cita in Al di là del principio di piacere) "Se non possiamo volare, zoppicheremo; la Bibbia dice che zoppicare non è peccato"» (Rucker, Die Macamen des Hariri).


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