Guerra e pace secondo Freud. Destini collettivi della pulsione di morte

Paul-Laurent Assoun
7 aprile 2022

La versione originale di questo articolo è apparsa su Topique 2008/1 n° 102 col titolo “Guerre et paix. Destins collectifs de la pulsione de mort”.

Si ringrazia il prof. Paul-Laurent Assoun per averne generosamente autorizzato la traduzione e la diffusione.

Traduzione di Angela Peduto.

Cosa può la psicoanalisi apportare di specifico alla problematica della guerra e addirittura alla tematica della “guerra giusta”, nozione peraltro esclusa dal suo modo di pensare e dalla sua terminologia? Questa questione, elementare e al tempo stesso fondamentale, presuppone di rivisitare il discorso freudiano sulla guerra, per capire se può esserci utile affrontare una simile problematica dalla prospettiva del suo versante inconscio, con le sue ambiguità e la sua posta in gioco.

L’idea di “guerra giusta” ha quantomeno il merito di voler articolare le nozioni di guerra e diritto – il che, stavolta, corrisponde bene all’interrogativo freudiano, salvo riproporlo attraverso una domanda primaria: “Perché la guerra?” (Warum Krieg?)[1]. Dopotutto Freud, quando accetta l’invito dell’Istituto di cooperazione intellettuale della Società delle Nazioni, aderisce alla logica che sostiene lo sforzo di regolazione collettiva dei conflitti. La pace appare come intermittenza tra due stati di guerra, virtualmente suscettibile di regolamentazione: si chiama “periodo interbellico” e ne conosciamo l’esito. È precisamente in questo quadro che egli prende posizione con quel testo in forma di “lettera aperta” che è lo scambio epistolare con Einstein.

Il titolo contiene due parole, Warum e Krieg, cosicché sarebbe più esatto tradurre con “perché guerra?”. Essendo l’articolo definito assente, occorre dunque intendere “perché della guerra?”, piuttosto che “perché la guerra?”.

Lo “jus ad bellum” implica che si contempli una “causa” giusta. Ma cos’è che “causa” la guerra? D’altra parte la questione formulata da Einstein e alla quale Freud aderisce è piuttosto: “C’è un mezzo per liberare gli uomini dalla fatalità (Verhängnis) della guerra?”

Immensa questione, che la psicoanalisi evidentemente affronta dal lato dei retroscena inconsci. C’è un “inconscio della guerra” che appartiene di diritto, oserei dire, alla decifrazione materiale e storica della psicoanalisi. 

Di fatto la guerra è per Freud l’oggetto stesso del collettivo. L’essere in guerra, al di là di ogni condanna, racchiude il momento di verità cruciale del collettivo. Dalle Considerazioni attuali sulla guerra a Perché la guerra?, cioè da una guerra alla vigilia dell’altra (1915-1932) si dispiega un confronto tra il sapere dell’inconscio e la questione della morte e dell’aggressività nella sua forma collettiva.

Estrarremo da questa problematica, che abbiamo analizzato in contributi precedenti [2], ciò che ci permette di valutare la questione.

GUERRA, CULTURA E MORTE

La guerra bussa alla porta della psicoanalisi come Weltkrieg, guerra mondiale che rivela il lavoro della guerra nel cuore del mondo umano. Va affrontata come figura del reale, dunque nella forma con cui la psicoanalisi affronta il reale e cioè nel registro del trauma. Sfida al pensiero, la guerra “scoppia”, come abitualmente si dice, o piuttosto “è scoppiata”, come articola il racconto freudiano, che ne fa un tema drammaturgico elettivo. Da un momento all’altro ci si accorge che si è passati da uno stato detto “di pace” all’altro. D’altronde, come una malattia, la guerra “si dichiara”: in effetti solo quando è già là passa nell’atto dichiarativo. 

La guerra, nella sua dimensione mondiale, investe la psicoanalisi su due fronti: come reale e come discorso. Dal primo punto di vista i suoi effetti disastrosi segnano una svolta verso la “traumatologia”: è la guerra che ha prodotto un cambiamento nella teoria analitica del trauma. Dal secondo punto di vista, come “sospensione della Ragione” e messa in crisi degli ideali della cultura, obbliga il “cittadino del mondo” (Weltbürger) e l’”uomo di cultura” (Kulturmensch) a confrontarsi con questo momento di “barbarie”.

In definitiva – questa è la domanda messa a nudo -, cosa dice la guerra circa il nesso inconscio tra pulsione e cultura? Il che non ci condanna ad una qualche “psicologizzazione” della guerra, fatalmente ideologica. Freud sviluppa, da un lato, la riflessione sulla morte e il divenire - la “caducità” o Vergänglichkeit -, dall’altro, sull’aggressività.

Profondamente estraneo alle “chiacchiere sugli ideali [3]", l’inventore della psicoanalisi si confronta con questa messa alla prova del collettivo: quando scoppia, la guerra arriva a “depredare il mondo delle sue bellezze [4]". La formula non è vagamente poetica: sigla la sobria constatazione della caduta dell’ideale. Ritratto di una devastazione: “distrugge il paesaggio, infrange gli ideali, insozza la scienza, riduce l’universo agli interessi delle nazioni [5]". In breve, là dove passa, la guerra devasta il paesaggio della cultura: impresa in demolizione, di cui si nutre l’aggressività nazionalista.

Prima di condannare gli orrori e i danni della guerra, occorre comprendere come ciò che accade sia possibile. Il senso del reale è in questo campo essenziale, perché la guerra ne è l’effetto di ritorno, attraverso il quale si lacera il legame sociale. Niente resta in piedi, luoghi, ideali, valori universali, verità. In questi anni Freud teme per la sopravvivenza stessa della psicoanalisi, trascinata nella tormenta.

Il problema è che il quadro non è luminoso nemmeno in tempo di pace! Così, se la guerra ha “annebbiato tante limpide intelligenze” – si pensi all’appello, come fosse “un sol uomo”, rivolto al mondo civilizzato degli scienziati tedeschi [6]- l’atteggiamento del mondo scientifico verso la psicoanalisi, in guerra contro di essa in tempo di pace, mostra che la pace collettiva si accorda con il “divieto di pensare”.

Lo specifico dello stato di guerra è che il soggetto, il quale nel suo “inconscio” “non crede alla morte personale”, vi incontra la figura della morte reale, concreta e visibile. 

In tempo di pace i soggetti si confrontano con i lutti, mentre la guerra, suggerisce Freud, ci consiglia di non arrestarci alla perdita delle persone amate – il che rende il lutto più straziante e al tempo stesso più “elusivo”. Infine la guerra, designando gli stranieri come nemici, la cui morte non solo si può ma si deve desiderare e provocare, regola la paranoia latente dei tempi di pace.

Si apre qui un approccio clinico. Che cosa accade nella “nevrosi di guerra” che è, dopotutto, il sintomo specifico e in qualche modo originale prodotto dalla guerra? Non si tratta semplicemente di uno choc meccanico, seppure massivo. Colui che si ammala in queste condizioni non ha semplicemente paura della morte che potrebbe sorgere dalla trincea di fronte. È colui che, nel cuore della situazione di pericolo, cade in un conflitto inedito che, secondo un notevole suggerimento di Freud di cui abbiamo mostrato l’importanza nella questione del corpo [7], “si gioca tra l’antico Io pacifico e il nuovo Io bellicoso del soldato. E diventa acuto non appena l’Io pacifico si rende conto di rischiare la vita per colpa della temerarietà del suo recente parassitico duplicato [8]".

Se dunque “la guerra ci costringe ad essere eroi che non credono alla propria morte”, come sottolineano le Considerazioni attuali, il soggetto che vi è confrontato si spaventa del proprio eroismo. Diventa un “temerario”, pericoloso per la propria sopravvivenza. Ecco forse davanti a cosa trema lo “psiconevrotico” di guerra – del quale è noto lo spettacolare segno di tremore cronico. 

LA GUERRA, PROVA DI VERITA’

Che cosa suggerisce questa serie convergente di considerazioni? Che la questione della guerra, questa trance di violenza collettiva, serve a coprire o a rimuovere la questione più importante: il “disagio” del tempo di pace.

D’altronde la nozione stessa di “guerra giusta” è una contraddizione in termini, nella misura in cui denega l’opposizione fondamentale tra violenza (Gewalt) e diritto (Recht). “I conflitti d’interesse tra gli uomini sono risolti tramite la violenza [9]": ecco ciò che ci ricorda l’inventore della psicoanalisi. È qui che si compie il passaggio al Diritto, che è “la forza di una comunità” grazie all’unione.

La guerra rende manifesto il destino dei “conflitti d’interesse”: essere “risolti” mediante la violenza. Poca originalità in questo richiamo che è alla base di ogni filosofia politica. Ma se Freud lo affigge proprio all’inizio della sua riflessione è perché il discorso sociale non veda nella psicoanalisi una qualsivoglia tendenza a mitigare la constatazione di questa legge del reale. Il “Diritto” appare l’antidoto - e in qualche modo la “formazione reattiva” - alla violenza di massa. Non c’è in Freud nessuna tendenza a “mitigare” questo movimento di fondo.

Peraltro, niente autorizza a postulare una qualche violenza fondamentale [10]. Se c’è una violenza originaria, è quella del “padre che fa violenza” (gewalttätiger Vater): il legame sociale si organizza nella post-storia di questa violenza di ritorsione. È nello Stato in guerra che la “miscela” di violenza e “diritto” trova la sua espressione. Lo Stato detiene, per Freud come per Max Weber, “il monopolio della violenza legittima”. Ma Freud ne fa un momento di verità nella relazione di fondo tra Stato e “individui”. Lo Stato esige, in condizioni di guerra, sotto la pressione dello stato d’eccezione, la rinuncia degli individui ai loro diritti – il che esprime la posizione “politica” di Freud, non lontana dal “cittadino contro il potere [11]".

La guerra è dunque il momento di verità dello Stato. È la sua realtà che fa apparizione nel modo più crudo. È anche ciò che fa della guerra, prima ancora di condannarne i funesti effetti, un momento di messa alla prova e in qualche modo di delucidazione della relazione.

Da un lato, parlare di violenza giusta significa mescolare due principi che appartengono a sfere eterogenee; dall’altro, la “guerra giusta” appare in qualche modo come discorso dello Stato. Ma non per questo Freud intona un inno pacifista. Il pacifismo freudiano è impegno verso la Kultur, “intolleranza organica” alla violenza, che, come egli comunica al suo corrispondente Einstein, in questo impegno trova la sua giustificazione.

L’IDEALISMO NOCIVO O LA “POLITICA FREUDIANA”

Da un lato, Freud raccomanda un realismo radicale in politica: niente di più nocivo in politica dell’idealismo, che copre col velo dell’ideale la realtà dello scontro, come egli mostra attraverso il caso del presidente Wilson.

Dall’altro lato, richiama i “cittadini” alla vigilanza contro “i poteri”, per parafrasare Alain. La guerra degli Stati dà forma manifesta allo stato di guerra latente dei rapporti umani.

La guerra dà così la misura dell’aggressività interiorizzata in tempi cosiddetti di pace. In ultima istanza, la guerra rappresenta una vera sedazione della pulsione di morte che in essa trova l’occasione di scaricarsi all’esterno. Lo confessa il detto popolare, nella sua crudezza non priva di sadismo: “Ci vorrebbe una buona guerra! [12]".

Ma la guerra rivela qualcosa di ancora più strutturale, che si esprime nell’adagio Navigare necesse est, vivere non necesse: l’adagio consegna la dialettica del desiderio, del tempo e della morte [13] e Freud ne mostra in modo magnifico le conseguenze: “La tendenza a escludere la morte dai conti della vita (Lebensrechnung: letteralmente “la fattura della vita”) ha come conseguenza molte altre rinunce (Verzichte) ed esclusioni (Auschliessungen)”. Cosa di cui abbiamo evidenziato gli esiti [14]. La guerra rivela che “vivere” non ha nulla di necessario e che è in nome di questo diniego che il soggetto “cede sul suo desiderio”. Di fatto, “la vita si impoverisce, perde di interesse quando nei giochi della vita non si ha diritto di rischiare la posta suprema, cioè la vita stessa”. Il che non va confuso con le “condotte a rischio”, “spiccioli” della pulsione di morte. Vi si gioca il coinvolgimento del soggetto, che non cerca nell’illusione di “un’altra vita”, compensatoria, la scappatoia alla propria condizione desiderante hic et nunc.

La guerra, che fa scempio degli ideali, è antitetica all’erotico, ma rappresenta quella realtà della morte che è il rovescio del desiderio: rivelazione catastrofica di una verità narcotizzata in tempi di pace. (Allo stesso modo i narcotizzati o drogati dei tempi di pace organizzano la loro dissidenza).

Del resto si sa come un certo pacifismo prepari il terreno per le dittature. Non per nulla Freud è contemporaneo di Monaco, di cui conosciamo l’eredità europea. 

PER UNA METAPSICOLOGIA DELLA GUERRA

Questo tragitto incrociato permette di tracciare un ritratto metapsicologico della guerra.

Non è un caso se, dalla “difesa” (Abwer) al conflitto, la metapsicologia si nutra di metafore guerresche e in qualche modo “polemologiche”, adeguate al suo tipo di interpretazione conflittuale della psiche. Non è un modo di pensare analogico. Il soggetto è in guerra pulsionale: ecco ciò che la psicoanalisi mostra. Pensiamo alla sontuosa metafora dei “Campi catalaunici” che sostiene la drammaturgia della seconda topica [15]. Come nel dipinto di Kaulbach, dove la battaglia tra gli Unni prosegue nella parte superiore che indica il cielo, i conflitti dell’Io e dell’Es si prolungano nella regione superiore tra Io e Super-io/Ideale dell’Io. La violenza è soltanto interiorizzata e in un certo senso radicalizzata. Ma il paradosso è che il Super-io esercita ormai verso l’Io la violenza minacciosa dell’Es: ecco l’opportunità di questa metafora quando la guerra è affrontata nella sua dimensione inconscia, con l’Io e l’Es paragonati al “fronte” e alla “retrovia”. C’è una guerra intestina alla psiche, inerente alla dinamica pulsionale. Il desiderio è ciò che non lascia il soggetto in pace, né di giorno né di notte.

Ma è con l’introduzione della pulsione di morte che si compie la svolta. C’è uno stupefacente effetto di simmetria tra il ritorno di Todestrieb al centro del Disagio della civiltà e la sua apparizione in Perché la guerra?, dopo che Freud ha lasciato ad Einstein la cura di produrre le sue idee psicologiche generali  e fornito lui stesso una specie di analisi geopolitica: in effetti è con la pulsione di morte, in pace come in guerra, che viene introdotto quanto la psicoanalisi ha di più specifico da dire, tanto sul disagio strutturale della cultura, la cosiddetta pace, quanto sulla congiuntura della guerra.

Lo stato di guerra è uno di quegli stati, tristemente privilegiati, in cui si trovano riunite le condizioni di una disunione - o disimpasto - pulsionale, nella sua messa in atto collettiva. La guerra crea “il pieno uso” della pulsione di morte. Non che Polemos sia una qualche espressione pura di Thanatos. Si può identificare come “pulsione di distruzione”, cioè la parte della pulsione di morte diretta verso l’esterno. Nello scoppio della guerra ciò che dobbiamo sentire è la deflagrazione di un cocktail pulsionale. Il clamore e il furore della guerra fanno udire il fracasso di Thanatos quando sfugge all’impasto erotico che abitualmente lo contiene: ritorno assordante di qualcosa il cui rumore e il cui mormorio dovremmo saper riconoscere nello stato di pace. 

Per Kant l’impegno a favore di una “pace perpetua” non ha il senso di un’utopia che contraddice l’instancabile recidiva dei conflitti. Si tratta di un imperativo della ragione politica [16]. Se ne vede la posta in gioco: solo una critica della ragione storica e politica può discriminare la guerra di terrore, maschera idealizzata della pulsione di morte, dalla guerra come antidoto al terrore pacificato.

Freud può, senza contraddizioni, far coesistere un desiderio di pace col riconoscimento radicale di una pulsione di guerra. Ed è attraversando la questione angosciante del godimento inconscio della guerra che si libera la pace, come causa del desiderio …

Paul – Laurent Assoun 

* NdT: salvo diversa indicazione le citazioni di Freud sono tradotte dal testo francese e rinviano perciò alle edizioni francesi. 
** Paul-Laurent Assoun è psicoanalista, professore all’Université Paris-Diderot Paris 7, direttore di ricerca e membro del Centre de recherche en psychanalyse, médecine et société (CPRMS), direttore della collana Philosophie d’aujourd’hui per Presses Universitaires de France (PUF) e Psychanalyse et pratiques sociales per Anthropos/Economica, autore di numerosi saggi, alcuni dei quali tradotti in italiano. 

  1. Il “Comitato permanente delle Lettere e delle Arti” della Società delle Nazioni aveva chiesto alla “Commissione internazionale di collaborazione spirituale” di avviare una corrispondenza tra “intellettuali rappresentativi”, in analogia con gli scambi di pensiero avvenuti in tutte le grandi epoche della storia europea, scegliendo temi che fossero “i più appropriati a servire gli interessi comuni dell’unione dei popoli e della vita spirituale”. A questo scopo l’”Istituto Internazionale di cooperazione intellettuale” decise di pubblicare a Parigi la serie “Correspondance” o lettere aperte (“Open letters”). Agli inizi del 1933 apparve il secondo volume di questa serie, col titolo “Perché la guerra”, contemporaneamente in tedesco, in francese e in inglese.
  2. Pierre-Laurent Assoun, Freud et les sciences sociales. Psychanalyse et théorie de la culture, Armand Colin, 1993, 2008; edizione critica di “Pourquoi la guerre” in Hermès, Communication et politique, CNRS, 1985; “L’inconscient de la guerre. Pulsion de guerre et désir de paix”, in Penser la guerre, penser la paix, Ed. Pleins Feux, 2001
  3. Cfr. id., L’entendement freudien. Logos et Anankè, Gallimard, 1984
  4. Sigmund Freud, Caducità (1915), in Opere, vol. 8, Boringhieri, 1976
  5. Ivi
  6. S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (1915), in Opere, op. cit. : “Gli scienziati, esasperati, le forniscono armi per poter contribuire, da parte loro, ad abbattere il nemico. L'antropologo cerca di dimostrare che l'avversario appartiene ad una razza inferiore e degenerata; lo psichiatra scopre nello stesso perturbamenti psichici e intellettuali”,
  7. P.-L. Assoun, Corps et symptôme. Leçons de psychanalyse, Anthropos/Economica, 2004
  8. S. Freud, Psicoanalisi delle nevrosi di guerra (1919), in Opere, op. cit., vol 9
  9. S. Freud e A. Einstein, Pourquoi la guerre?, (1933), Paris, Institut International de Coopération Intellectuelle (Société des Nations)
  10. P.-L. Assoun, “La violence-symptôme. Du malaise à la discordance collective”, in Actes Université européenne d’été. Violences dans la modernité 8-13 septembre 2OO3, Université Paris 7-Denis Diderot, Service commun de développement de la Formation Continue et Professionnelle UFR Sciences Humaines Cliniques, pp.14-21.
  11. cfr. id., “Freud et la politique”, in L’entendement freudien, op. cit.; cfr. anche “Le citoyen contre les pouvoirs” (1926), di Alain, pseudonimo di Emile Auguste Chartier, filosofo e scrittore francese (1868-1951), dove si trovano espresse alcune delle sue tesi di filosofia politica [http://philotextes.info/spip/IMG/pdf/alain_citoyen.pdf]. Una silloge dei suoi celebri Propos è stata curata e tradotta in it. da Sergio Solmi.
  12. Espressione desueta, per dire che una “buona guerra” rimetterebbe le cose a posto, calmerebbe gli animi, permetterebbe di ripartire su basi migliori (https://www.mots-surannes.fr/?p=25687)
  13. S. Freud, Considérations actuelles sur la guerre et la mort, (1915), in S. Freud, Essais de psychanalyse, Paris, Payot, 1927; cfr. in it. “Noi e la morte” in Lettera Internazionale, 1990, trad. it. della conferenza tenuta da S. Freud nel febbraio del 1915 al Circolo Ebraico B’nai B’rith di Vienna.
  14. Cfr. P.-L. Assoun, Le démon de midi, Ed. de l’Olivier, 2008
  15. Cfr. S. Freud, L’Io e l’Es, (1923), in Opere, op. cit., vol. 9
  16. P.-L. Assoun, “Le désir perpétuel. Guerre et paix de Kant à Freud”, in Analyses & réflexions sur Kant, Projet de paix perpétuelle, Ellipses, 2002, pp. 161-172.

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