Convegno sul Transfert
12 novembre 2011
Bologna

I volti nuovi del transfert

Angela Peduto

I volti nuovi del transfert

Introduzione al convegno sul transfert

Angela Peduto

Una breve introduzione servirà da premessa al nostro lavoro e porrà alcune questioni che fanno problema. Conviene innanzitutto richiamarci alla genesi e all’evoluzione della teoria freudiana sul transfert poiché essa restituisce meglio di qualunque altro discorso la posizione e la natura contraddittoria del tema in questione. Sappiamo che Freud comincia con l’individuare i transfert al plurale, fenomeni multipli, “reimpressioni, copie di impulsi e di fantasmi”, e poi finisce col pensare al transfert al singolare, per intenderlo come processo che struttura l’intera cura sul prototipo dei conflitti infantili. Il passaggio da un tempo all’altro è una disavventura clinica e porta il nome di Dora. È lo scacco terapeutico, la prematura interruzione dell’analisi, a rendere clamorosamente presente quel transfert che solo nell’ après coup della riflessione (datata quasi cinque anni dopo il trattamento) Freud riconoscerà di aver mancato al momento giusto. Se passa dai transfert al transfert è perché appare l’idea della “nevrosi di transfert”, malattia artificiale intermedia tra la nevrosi e la guarigione che replica la nevrosi infantile. Il transfert diventa a questo punto un processo che struttura l’intera cura intorno alla relazione con l’analista sul prototipo della nevrosi infantile. Ma questo passaggio non è senza problemi. Come mette in luce Laplanche, l’idea di transfert multipli, al plurale, salvaguarda l’idea di una apertura e di una ipercomplessità dove transfert di vario grado, dagli oggetti primari via oggetti secondari, analista compreso, si riverberano e si attraversano. “Il transfert, dice Laplanche, non è chiuso in sé stesso, non è una relazione a due, che semplicemente replica un’altra relazione a due; il transfert è aperto su qualcos’altro da sé stesso”, e questo sia nella concatenazione cronologica, diacronica, degli oggetti, sia in quella intersoggettiva, sincronica, degli stessi oggetti tra di loro. La perdita di questa dimensione e la centralità della nevrosi di transfert avranno conseguenze di enorme rilievo sul piano della prassi e della condotta della cura. Del resto la fiduciosa posizione di Ricordare, ripetere, rielaborare (1914), dove la nevrosi di transfert appare a Freud “completamente accessibile” allo sforzo analitico, sarà temperata in Al di là del principio di piacere (1920) da una maggiore cautela e dall’indicazione per l’analista di una certa dose di vigilanza affinché la nevrosi di transfert resti limitata e non prenda il sopravvento.

Questo ci porta direttamente al secondo problema. Qual è la funzione del transfert nella cura? Sappiamo che Freud lo caratterizza insieme come “il più potente alleato” e “il più grande ostacolo”, “la leva più potente del successo” e “il mezzo più forte della resistenza”. Sappiamo anche che non cesserà mai di oscillare tra una valutazione positiva e una negativa, intesa non come transfert positivo o negativo, ma come effetto buono o cattivo del transfert nella cura, in sostanza come possibilità o meno di portarla avanti. La contraddizione viene dal fatto che, legato com’è alla ripetizione, il transfert si oppone al ricordo e quindi a quella forma di rimemorazione verbalizzata e condivisa che è l’analisi; ma, al tempo stesso, permette di rivivere nel presente i desideri e i conflitti del passato e perciò, mentre mette il soggetto davanti alla loro esistenza e alla loro permanenza, fa risorgere il desiderio nell’attualità. Questione complicata, che coinvolge problemi cruciali: la ripetizione, la persistenza e l’indistruttibilità del rimosso, le possibilità di trasformazione attraverso la cura, le vie di questa trasformazione, per citarne solo alcuni. Il transfert comporta l’irruzione in seno a quella relazione intima e asimmetrica che chiamiamo analisi di un reale inedito. Inedito e inaudito, giacché l’essenza stessa del transfert è il suo carattere inattuale: esso introduce di colpo nel cuore della situazione analitica la turbolenza della passione, cioè del sessuale infantile: vertigine del passato e dismisura dell’amore e dell’odio. Su questo carattere di ripetizione Freud non cesserà mai di insistere. Ripetizione significa ritorno impetuoso sulla scena dell’antico, cioè del rimosso. Significa reinscrizione nell’attualità della congiuntura passata, che però ora si impone al soggetto con la realtà indiscutibile e indubitabile di un vissuto presente, come fosse un sogno della cui realtà, sognando, non abbiamo ragione di dubitare. In rapporto a questa idea della ripetizione che si oppone alla rimemorazione e tiene in scacco il sapere intorno al proprio desiderio, Freud ha sempre mantenuto l’ideale di una cura volta alla rimemorazione e al recupero del ricordo. Ma che cosa dire della ripetizione vissuta? Che valore assegnarle? La questione tocca, lo si capisce, il problema dell’agire e della sua capacità o meno di comunicare.

Il transfert è dunque al tempo stesso implicato nel passato e nel presente; sospeso tra il bisogno cieco di ripetizione e l’apertura verso possibilità nuove; declinabile, cioè interpretabile, eppure anche affacciato su un nucleo indeclinabile, punto d’arresto e di scacco, comunque di limite, dell’atto interpretativo, come la clinica non smette di insegnarci. Saldamente ancorato nei processi inconsci, obbedisce alla atemporalità e alla indistruttibilità del fantasma, che vuole mettere in atto “senza tenere conto della situazione reale”. Ma, ancora, come valutare la “realtà” della situazione analitica? Quali ne sarebbero i criteri? A cosa può affidarsi l’analista, interpellato e chiamato in causa dal transfert del paziente, che non sia il confortante quanto illusorio ideale di un’analisi personale completa?

Si comprende quanto questa materia incandescente e contraddittoria non possa e non debba smettere di fare problema alla teoria come alla pratica. E si comprende quanto grande possa essere la tentazione di farne a meno. O di farne, al contrario, la verità ultima. Economia per difetto o per eccesso. Le terapie di controllo del sintomo, mentre negano quella compromissione col desiderio di cui il sintomo stesso testimonia, negano con lo stesso gesto l’evenienza del transfert. Sul terreno della psicoanalisi, il kleinismo ha spinto all’estremo il meccanismo interpretativo del transfert, rendendo il transfert sostanzialmente sovrapponibile alla proiezione e facendo dell’”arte dell’interpretazione”, di cui parlava Freud,  piuttosto una macchina dell’interpretazione che non lascia vie d’uscita. Le teorie dell’attaccamento hanno abolito il registro del sessuale e semplificato in senso psicologizzante i tortuosi percorsi della domanda d’amore. E se nel cuore del travaglio culturale francese si è sviluppato il pensiero di Lacan che, a partire da tali percorsi e dalle loro aporie, è infine approdato al soggetto supposto sapere, in America dalle deformazioni della prassi analitica è sorta la riflessione indubbiamente originale di Kohut sul narcisismo e sulle sue proprie forme di transfert. È senz’altro degno di nota il fatto che molte delle elaborazioni postfreudiane si siano imposte a partire da un allargamento del campo dell’analisi, impegnata con i bambini, con le psicosi, o con il mutare della sintomatologia.

E con questo approdiamo all’ultimo punto. La clinica della contemporaneità, mentre ci costringe a ripensare il rapporto del soggetto col suo desiderio, ci costringerà anche a ripensare il transfert? E come ripensarlo là dove il linguaggio della malattia sembra mettere in scacco le leggi del simbolico? Incontrato - e mancato al primo colpo - questo è l’aspetto inquietante del transfert, ieri come oggi -, incontrato nell’appuntamento col corpo parlante dell’isterica, come incontrarlo a partire dal corpo muto della malattia somatica, corpo consegnato dal soggetto alla medicina? E come liberarlo, disancorarlo, dal rifugio corporeo?

E dove incontrarlo quando si è confrontati col cieco automatismo del sintomo additivo?

E come tenere il timone dell’analisi quando essa rischia le acque pericolose della distruttività, cuore tenebroso della clinica attuale?

Ho cercato di delineare un terreno di questioni aperte. Ciascuno dei nostri ospiti vi si collocherà secondo la propria esperienza, le proprie inclinazioni e i propri interessi. Il nostro auspicio per questa giornata è che metta in moto curiosità e riflessione, sicuro antidoto al sonno del pensiero, che è la forma più subdola della distruzione. In una congiuntura storica in cui la psicoanalisi, e non solo, sembra destinata a sparire, mi piace concludere citando l’ultimo lavoro di un filosofo e storico dell’arte, Georges Didi-Huberman. Vi si legge di un’etica della speranza e della sopravvivenza e vi sono convocati P.P. Pasolini, W. Benjamin, G. Agamben, H. Arendt e altri. Si intitola Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, e le lucciole sono prese a metafora delle scintille di umanità e creatività, sempre minacciate, sempre in via di estinzione.“Ci sono tutte le ragioni per essere pessimisti [sulla sorte delle lucciole], ma proprio per questo è necessario aprire gli occhi nella notte, continuare a spostarsi, rimettersi in cerca delle lucciole […] Sta a noi non vedere scomparire le lucciole […] Noi stessi […] dobbiamo trasformarci in lucciole e riformare così una comunità del desiderio, una comunità di bagliori, di danze malgrado tutto, di pensieri da trasmettere”

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