Stato d'assedio

Mahmoud Darwish
12 luglio 2025
Felix Nussbaum, Orgelmann, 1942-43

Quest’assedio, il mio assedio metaforico, si prolungherà

Finché non insegnerò a me stesso l’ascetismo della meditazione

Prima di me ha pianto una viola

E dopo di me ha pianto una viola

E la terra guarda stupita il vano gioco del tempo.


Introduzione e cura di Angela Peduto

Nel 2002 Mahmoud Darwish si trova a Ramallah, dove ha fatto ritorno nel 1996 dopo una vita passata in esilio. La città, al centro di una drammatica escalation di violenza, è assediata dall’armata israeliana. In queste condizioni Darwish compone un centinaio di frammenti e li raccoglie sotto il titolo di Stato d’assedio: un assedio reale, dunque, chiede alla voce poetica di levarsi e “assediare l’assedio”, ritagliare uno spazio di libertà per dire la sofferenza e la speranza, per ricreare un “nucleo di luce” nella notte della guerra. La lingua è lì – “Io sono la mia lingua” - sola patria di un poeta diventato esule a sei anni.

“La poesia - disse in un discorso pronunciato il 3 aprile 2003 a Aix-en-Provence, a distanza di pochi giorni dall’invasione dell’Irak - questo mezzo particolare per sopportare la vita e conciliarci con essa, è anche un metodo che ci permette di resistere a una realtà disumana che schiaccia l'evidenza della vita.

Superando l'aspetto esteriore delle cose, rubando la luce nascosta nell'oscurità, disperando della disperazione, la poesia ci protegge dall'odio e dal furore. La sua fragilità grida, per dare un nome alle cose. Ferisce, senza versare sangue. 

[…]

La poesia non combatte la guerra con le armi e il linguaggio della guerra. La poesia non abbatte un aereo con l’aiuto di un missile. Contemplare l'eternità di un filo d'erba, l'adorazione che la farfalla ha per la luce, ciò che lo sguardo della vittima non dice al suo carnefice: ecco in che modo la poesia combatte l'effetto della guerra, contrario a ciò che c’è di naturale in noi, coerente con la natura.

Chi di noi non conosce le parole che Diogene rivolse ad Alessandro Magno quando, venuto a fargli visita, gli chiese se avesse bisogno di qualcosa?

Diogene gli rispose: “Sì. Non coprirmi il sole!”.

Abbiamo bisogno di qualcosa che oltrepassi l'oscuramento del nostro sole.

Abbiamo bisogno di fermare la barbarie e risvegliare le coscienze.

[…]

Proprio in questi tempi di tempesta la poesia ha bisogno che vengano poste le domande che essa, da sola, solleva, in un modo che la renda presente e viva. Rendere vivo il linguaggio, restituire alle parole la fluidità della vita, questo non si può fare senza ridare alla vita il senso della vita. In questo, la ricerca del senso è ricerca dell'essenza, è la nostra domanda umana, collettiva e personale. È ciò che rende la poesia possibile e insieme necessaria. Perché la ricerca del senso è ricerca della libertà”.

La lingua di Stato d’assedio risponde a questa esigenza di vita: disegna l’immediato, le immagini del quotidiano. le nervature dei pioppi, il cielo ora plumbeo ora arancione come un arcobaleno, il blu dell'orizzonte, la minaccia degli aerei da caccia, il volo delle colombe bianche, i cipressi dietro i soldati, una recinzione di ferro, i soldati che urinano, le notti “scintillanti di proiettili”, il “nero delle cantine”, un cavallo, tazze di caffè, uccelli, il gioco dei dadi. 

Frammenti, lampi, che radicano la lingua nella terra dell’umano e, se resistenza sono, lo sono della vita. 

Poesia dell'istante assediato, dove lo spazio è pietrificato nella sua eternità e il tempo è sempre “assente all'appuntamento”: essa resiste, rifiutando di cedere al linguaggio dell'assedio, linguaggio dell'odio e della guerra: “Non ti amo e non ti odio/disse un prigioniero all’inquisitore […] Il mio cuore è colmo dell’odore di salvia/ il mio cuore è innocente, luminoso, pieno”. 

Nel 1997 la regista Simone Bitton realizza un film documentario sulla vita e l’opera di Mahmoud Darwish. Scrive, per presentare il film: “È difficile immaginare, in Occidente, l'immensa popolarità di cui godono i poeti in Oriente. Dal Medio Oriente al Nord Africa, non solo si leggono più poesie che romanzi, ma la poesia è considerata un'arte viva che deve essere recitata sul palcoscenico dagli autori. Quando Mahmoud Darwish dà un recital poetico al Cairo, a Beirut o ad Algeri (ma anche a Parigi o a Londra), folle enormi si radunano per scandire insieme a lui i suoi versi. Capita persino (come è successo recentemente a Casablanca) che la voce del poeta debba essere amplificata dagli altoparlanti nelle strade vicine per soddisfare l'ardore degli appassionati.

La nostra ambizione è che il film riesca a far comprendere questo fervore popolare, a trasmettere l'emozione che nasce dalle parole e dal ritmo inimitabile di Darwish, consentendo allo spettatore di cogliere la sua opera nella sua globalità, nel suo contesto storico e culturale”.

حَالَةُ حِصَارْ

Stato d’assedio

Ḥalat Ḥisār

Martha Hraoul, 1975 (Libano)

(versi tratti da Stato d’assedio, di Mahmoud Darwish, Ed. Q, 2014, trad. dall’arabo di Wasim Dahmash)

Qui, sui pendii di colline davanti al tramonto    
e alla bocca del tempo
accanto a giardini di ombre spezzate,
facciamo come fanno i prigionieri,
facciamo come fanno i disoccupati:
coltiviamo la speranza.

**

Un paese si prepara all’alba

Intontiti

a spiare l’ora della vittoria:

senza notte nella notte illuminata di bombe. I nemici vegliano,

e accendono le luci per noi fino al buio dei sotterranei.

**

Qui, nessun “io”.


Qui, Adamo ricorda la sua argilla.

**

Quest’assedio si prolungherà fino a quando

non avremo insegnato ai nemici

passi della nostra poesia antica.

**

Nell’assedio la vita è il tempo

trascorre ricordando l’inizio

e scordando la fine.

**

La vita

la vita intera

la vita mancante

ospita stelle vicine

senza tempo

nubi migranti

senza meta.

E la vita qui

si chiede

come riportarla in vita.

**

Qui sulle alture del fumo, sui gradini di casa,
non c’è tempo per il tempo.
Facciamo come chi s’innalza a Dio,
dimentichiamo il dolore.

**

Voi che state lì sulla soglia, entrate!
Bevete il caffè arabo con noi.
(Potreste sentirvi uomini come noi).

Voi che state lì sulla soglia della nostra casa
uscite dal nostro mattino
ci sentiremo sicuri di essere
uomini come voi!

**

Ogni morte

pur se attesa

è la prima morte.

Come posso vedere

una luna

dormiente sotto ogni pietra?

**

Soli, saremmo soli a bere il calice amaro,
se l’arcobaleno non venisse in visita.

**

L’assedio è attesa,
attesa su una scala inclinata dove più infuria l’uragano.

**

Urlerò nella solitudine,

non per svegliare i dormienti,

ma perché il mio urlo svegli me

dalla mia immaginazione prigioniera!

**

Una donna ha detto alla nube: copri il mio amato
ho le vesti grondanti del suo sangue.

**

Se non sei pioggia, amore mio
sii albero
colmo di fertilità … sii albero
se non sei albero, amore mio
sii pietra
satura d’umidità … sii pietra
se non sei pietra, amore mio
sii luna
nel sogno dell’amata … sii luna
(Così al funerale del figlio disse una donna al figlio)

**

O voi che vegliate! Non siete stanchi
di spiare nel nostro sale la luce?
E l’incandescenza della rosa nella nostra ferita,
non siete stanchi, voi che vegliate?

**

Seduti lontani dal nostro destino come uccelli
che fanno il nido negli anfratti delle statue,
o nella cappa dei camini, 

o nelle tende erette
sulla strada del principe diretto alla caccia.

**

Nell’assedio, il tempo diventa spazio
pietrificato nella sua eternità,
nell’assedio, lo spazio diventa tempo
in ritardo nel tempo.

**

Il martire mi spiega: non ho cercato al di là dell’orizzonte

le vergini dell’immortalità, perché amo la vita
sulla terra, tra pini e fichi,
mi è stato impossibile raggiungerla

la cercai con l’ultima cosa che mi appartiene: 

il sangue nel corpo dei lapislazzuli.

**

In quel che resta dell’alba cammino 

verso il mio involucro esterno
In quel che resta della notte

ascolto il rumore dei passi rimbombare al mio interno.

**

Le tazze del nostro caffè, gli uccelli, gli alberi verdi
dall’ombra azzurra, il sole che scivola 

di muro in muro quale gazzella,
l’acqua nelle nubi dalla forma infinita 

in quel che ci resta di cielo

e altre cose dai ricordi sospesi
rivelano che questo mattino potente splende
e che noi siamo ospiti dell’eternità.

**

Pace a chi con me rispetta
l’ebbrezza della luce, la luce della farfalla, nella
notte di questo tunnel.

**

Pace a chi con me divide il mio bicchiere
nella densità di una notte che trabocca dai due scranni:
pace al mio spettro.

**

La pace è colomba di due estranei che si dividono il tubare

sull’orlo dell’abisso.

**

La pace è riconoscere, pubblicamente, la verità:

che cosa avete fatto dello spettro dell’ucciso?

**

La pace è dedicarsi al giardino:

cosa pianteremo adesso?

**

La pace è canto di vita, qui, nella vita

su corda di spiga.

Nell’aprile 2002 il compositore Garrett List scopre il poema e ne è profondamente colpito. Decide di comporre una cantata per solisti, coro e orchestra sui versi di Darwish tradotti in francese. Il lavoro richiede tre anni e nel 2005 va in scena a Liegi e poi a Parigi. 

“Ciò che più mi colpisce in lui è la sua umanità. Ha affrontato circostanze estremamente difficili ma è rimasto pienamente umano. Nei suoi versi si percepisce la sofferenza, il dolore – il suo e quello del suo popolo. Ma non è la sofferenza a prevalere. È un po' come se esortasse ciascuno di noi a sentire nel profondo la bellezza della vita e ad aprirci così alla compassione, indispensabile se vogliamo porre fine all'assurda violazione della nostra anima che si perpetua da 50 anni. E in questo io mi ritrovo. Nella domanda: «Perché noi, in quanto esseri umani, coltiviamo il peggio di noi stessi?». Non è una domanda disfattista, è una domanda necessaria. Una domanda che dobbiamo affrontare con onestà se vogliamo trovare una soluzione”.

Qui il video “Au bord de la mort”

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