Testi di Psicoanalisi

"Le Benevole" di Jonathan Littell: la necessità di guardare il male

Mariangela Pierantozzi

In questo momento drammatico per l’Europa e per il mondo, mentre la guerra in Ucraina devasta milioni di vite e prepara lacerazioni future, abbiamo deciso di pubblicare il testo di una conferenza tenuta per OfficinaMentis nel 2008 in collaborazione con la libreria Einaudi di Bologna.   Faceva parte di un programma di riflessione e analisi sul male attraverso la letteratura, e questo libro di Jonathan Littlell - Les Bienveillantes, Gallimard 2006, trad. it. Le Benevole, Einaudi 2007 -, era veramente un urlo potente atto a svegliare le coscienze e allertarci sul fatto che il vento della seconda guerra mondiale soffiava ancora gelido sopra le nostre teste e dentro i nostri cuori.  Ora il conflitto, atteso e da molti previsto, si è palesato. C’è urgenza di riflettere su quanto sta accadendo, presagi di una terza guerra mondiale stanno oscurando di fumo, sangue e polvere i nostri cieli. Questo romanzo è una riflessione sul male, sulla psicopatologia che ne scaturisce, sul potere del male e sul male del potere. 

Le Benevole è il romanzo di un autore fino al 2006 sconosciuto: il suo primo romanzo, che lo ha reso famoso.  Critiche e opinioni lo hanno portato alla ribalta ma, soprattutto, hanno lasciato sotto le luci dei riflettori la sua opera, premiata con il Grand Prix du roman dell’Académie Française e con il Prix Goncourt 2006. Certo l’ Autore ne ha tratto vantaggi, oltre ai diritti d’autore soprattutto in Francia (800.000 copie vendute in un anno). Un anno prima della pubblicazione del libro, scritto direttamente in francese, Littell fece domanda di cittadinanza allo stato francese. Il funzionario di allora (2005) rispose che non vi erano motivazioni per ottenere ciò che chiedeva. Ma Littell, con tenacia, rifece la domanda alcuni mesi dopo: non bastava scrivere correntemente in francese, né essere un americano che detesta gli USA e che vanta un curriculum di lavoro umanitario nei paesi più pericolosi del pianeta. Le assurde minuzie burocratiche amministrative gli vietarono la gioia elitaria dell’anagrafe repubblicana francese. Ma appena un anno dopo, tra il 2006 e il 2007, dopo aver percorso velocemente la parabola del caso letterario, accadde che l’Amministrazione stessa si scomodò a cercarlo e lo trovò a Barcellona, ultimo dei suoi domicili di frenetico giramondo: voleva consegnargli il passaporto “su richiesta del Ministro degli Esteri, per aver contribuito, con azione emerita, all’influenza della Francia nel mondo e alla prosperità delle sue relazioni internazionali”. Quindi Littell è un esempio da scolpire nei manuali di immigrazione chic, immigrazione “scelta” e non subita, quella che è sempre piaciuta ai presidenti francesi e che gli ha dato la possibilità di residenza per almeno sei mesi all’anno, nonché di avere in Francia la fonte principale delle sue risorse economiche.

Littell nasce a New York il 10 ottobre 1967 da una famiglia di origine ebraica, emigrata dalla Polonia negli USA alla fine dell’ottocento. È figlio dello scrittore Robert Littell, reporter di guerra per Newsweek, autore di una dozzina di romanzi di spionaggio. Jonathan è domiciliato a Barcellona, naturalizzato francese, come abbiamo già spiegato, e ha trascorso parte della sua infanzia e adolescenza in Francia. Torna negli Stati Uniti per frequentare l’università di Yale. Subito dopo si reca nei Balcani, durante il conflitto, dove si impegna nell’azione umanitaria all’interno della ONG “Action contre la faim”. Lavorerà in questa organizzazione per 7 anni, soprattutto in Bosnia, ma anche in Cecenia, Afghanistan, Congo. Suoi sono i reportage sulla guerra tra Russia e Georgia (2009), in Italia pubblicati da Repubblica. Nel 2001 lascia l’organizzazione umanitaria per dedicarsi alla scrittura del suo primo romanzo che uscirà nel 2006, Les Bienvieillantes, vasto affresco che affronta la seconda guerra mondiale e il fronte orientale attraverso le memorie immaginarie di un ufficiale SS cui ha dato in nome di Maximilien Aue.  La raccolta delle notizie storiche e la stesura del romanzo occupano cinque anni della sua vita. Il manoscritto fu proposto prima di tutto all’editore francese Calmann-Lévy, che lo rifiutò, poi acciuffato, con gran fiuto, da Gallimard. Ne furono stampate solo 5000 copie. Nel giro di pochi mesi ebbe un tale successo che dovettero sospendere le uscite di altri libri per poter stampare le circa 800.000 copie vendute. Bernardo Valli, a quei tempi corrispondente da Parigi per Repubblica, considerò immediatamente questo romanzo un ciclone tropicale che scoperchia case e sradica alberi, destinato a sollevare emozioni, passioni, entusiasmi, rifiuti, critiche, consensi esaltanti. Un altro grande critico francese, Pierre Nora, lo definisce un “uragano narrativo” e, passando sopra lo scetticismo e il rifiuto di altri critici, descrive il libro come “uno straordinario fenomeno letterario e storico”. In Francia ha invaso le vetrine delle librerie e quelle sale di lettura che sono le vetture dei treni della metropolitana di Parigi (voglio ricordare il libro di Grazia Cherchi - fondatrice dei “Quaderni Piacentini” - “Scompartimento per lettori taciturni”, Ed. Feltrinelli, 1997). Valli racconta di averlo visto in mano a molti viaggiatori e di averlo soppesato con sospetto per la mole (953 pag.) e per il titolo, che spingevano a non affrontarlo. Non riusciva a capire l’eroismo dei lettori passeggeri, in bilico nel metrò con l’esordiente volume spalancato davanti, nella ressa, tra le fermate Trinité e Concorde, assorti, quasi ipnotizzati, nella lettura. Cosa che posso capire molto bene perché anch’io rimasi ipnotizzata, in una calda estate di 15 anni or sono, leggendolo in dieci giorni. Valli pensava che i parigini sfuggissero, con questa lettura, alla loro popolata solitudine, poiché la lettura è la sola rassicurante compagnia nella massa umana in cui nessuno ti guarda.  

Bisogna ammettere che gli autori, in Europa, ci hanno disabituati ai romanzi fiume, a meno che non ci immergiamo nella rilettura di “Guerra e Pace” o dell’”Uomo senza qualità”. Sono in effetti soprattutto i Russi e gli Americani che continuano imperterriti a proporre dimensioni ormai considerate da vecchio classico.

Qualcuno ha detto, non ricordo chi, che Les Bienveillantes è un romanzo russo scritto in francese da un americano. Russo perché Dostoevskij è presente in filigrana nella tessitura, perché si scorgono le ombre di Lermontov, di Tolstoj  e il Vassily Grossman di Vita e destino; numerosi sono i riferimenti ai linguisti russi citati dai nazisti colti ma impegnati nello sterminio degli ebrei. Questo libro è una vera e propria biblioteca e intimidisce il lettore, con una cultura dall’alto peso specifico.

Per i francesi è diverso: sono molto sensibili alla letteratura, tenendola in gran conto, e se ne fanno vanto: bisogna riconoscere loro una grande capacità di lettura. Inoltre fa peso, per loro, che un altro straniero, dopo Milan Kundera, abbia scelto la loro lingua per scrivere un romanzo. E per di più un americano, titolare di una lingua che ha spodestato il francese. 

Il titolo Les Bienveillantes è quello originale ed è stato imposto agli editori recalcitranti, in tutte le lingue: Le Benevole, The Kindly Ones, ecc. Titolo denso di cultura, sebbene non riconoscibile da tutti immediatamente. In un mondo in cui i nomi di Leonardo e Raffaello sono conosciuti soprattutto come i nomi delle tartarughe Ninjia non è proprio semplice rintracciare il significato delle Bienveillantes.  

Esse sono le Eumenidi della Orestiade (450 a.C. circa - trilogia di Eschilo formata dalle tragedie “Agamennone”, “Coefore”, “Eumenidi”), cioè le Erinni, dee della vendetta, che prendono il nome di Eumenidi quando si pongono in atteggiamento positivo. Sono le Erinni che chiedono vendetta dopo l’assoluzione del matricida Oreste, ma che Atena persuade a divenire benigne, appunto Benevole, cioè Eumenidi. Il mito di Oreste (l’assassinio di Agamennone da parte della moglie Clitennestra, la vendetta del figlio Oreste che uccide la madre, la persecuzione del matricida da parte delle Erinni e la sua assoluzione finale ad opera del tribunale dell’Areopago) è la struttura portante del romanzo, nel quale l’autore si propone di unire l’Olocausto al matricidio dello stesso Max Aue.  Le Erinni, anche se trasformate in Eumenidi, hanno il compito di tenere vivo il rimorso. I grecisti sanno che il rimorso non esisteva nell’antica Grecia: ma nei primi versi dell’Agamennone di Eschilo compaiono le parole “doloroso rimorso”. 

Le Benevole sono un’orda, una muta, sguinzagliata sull’Europa al fine di ricordare che nulla passa, che nulla si disperde e che antichi crimini, come il matricidio, l’incesto, lo stupro e lo sterminio degli ebrei impongono un incancellabile rimorso. 

Sempre Valli ci ricorda che tutto quello che nel romanzo viene descritto come anestesia dell’anima, ma non del corpo (su questo punto ritorneremo), è sovrastato da questo titolo, che è parte integrante del romanzo, che indica una direzione ben presente nella mente dell’autore e senza il quale avrebbe meno senso anche il libro: ciò che non è presente nel romanzo, né all’inizio né alla fine, è concentrato nel titolo (da qui la puntigliosità nel volerlo mantenere, da parte dell’autore, con gli editori). Il titolo inneggia ad un rimorso che dev’essere monito per ogni lettore, ma anche monito a tutti i cittadini del mondo, di fronte allo scempio inaudito della Seconda Guerra mondiale e della Shoah, quale delitto della collettività: monito per i molti, piccoli e grandi, privati crimini quotidiani da cui, ci ricorda l’autore, nessuno è esente.

Il raffinato ufficiale delle SS, Obersturmbannfuhrer Maximilien Aue, che cita S. Agostino e Kant, che ama la gavotte “à six doubles” di Rameau, che ha una passione per Bach, oltre ad uccidere la madre e il patrigno davanti a una coppia di gemelli, frutto di un suo fornicare incestuoso con la sorella Una, sodomizza quest’ultima, su una ghigliottina, aiutandosi con la saliva. È una versione senza veli dell’incesto alla Musil, contornata e preceduta da tanti episodi erotici. (Nel secondo capitolo del secondo volume de L’uomo senza qualità compare Agathe, sorella gemella dimenticata di Ulrich. È un amore singolare e platonico, ma di grande intensità dolorosa e al contempo fiammeggiante). Valli afferma che Sade, Genet, Bataille impallidiscono di fronte a queste descrizioni e di questo si fanno forti i critici detrattori. Questi ultimi dicono: “Sbatti il mostro in prima pagina”, (ma noi sappiamo che non esiste il mostro, esso viene creato per calmare ipocritamente la coscienza dei più. Il mostro siamo noi, tutti noi, è l’Uomo). Altri detrattori denunciano il libro come “scandalo per farsi comprare”.

Invece, purtroppo, sono immagini crude necessarie alla trama. Sembrano ricalcare il cliché del nazista, ma ricalcano anche la realtà. Altri ancora proclamano: “storia di un serial Killer”, “meglio Steven King”, “una sinistra burla”, “il protagonista non è credibile”, “ci sono troppe digressioni e oscenità”, “troppi nomi in tedesco”, “non ci sono capoversi”, “troppi deliri insostenibili”, “soltanto un nazista può interpretare il pensiero di un nazista, non un ebreo”. Potremmo replicare citando i resoconti delle purghe staliniane, dei massacri americani in Vietnam, le guerre in Iraq e Afghanistan, i massacri compiuti dai giapponesi in Cina nel ‘36-‘37, quelli dei Mongoli al confine tra Russia e Cina e andando indietro nel tempo faremmo un elenco infinito. Faremmo le stesse critiche a Joyce, Musil, Pynchon, Bernard, Perec? Anche loro sono lunghi, senza capoversi, senza virgole, zeppi di digressioni, di deliri e di “oscenità”. 

Poi ci sono state le critiche degli storici, a causa della mescolanza di storia e fiction. Essi cercano di smantellare dall’interno il romanzo: “il nazismo versione Littell non è mai esistito”, “prenderlo sul serio significa accordare agli assassini un onore che non meritano”, “questa ferocia totale non è mai esistita se non nelle allucinazioni barocche del pasoliniano Salò”. Appunto, Pasolini con il film “Salò e le 120 giornate di Sodoma” denuncia senza ombre i delitti del potere.

Anche negli Stati Uniti d’America il libro è stato stroncato e lodato. Chi non ricorda la stroncatura di Lolita al suo apparire? Questa stroncatura statunitense mostra come la critica sia schiava di “un sentire comune interessato ai diritti umani, ma poco interessato alla forma artistica". Libri come Lolita, I Canti di Maldoror (poema epico in prosa pubblicato nel 1869 dal conte di Lautréamont, pseudonimo di Isidore Ducasse, in cui si esprime un unico personaggio, Maldoror, che incarna la rivolta adolescenziale e la vittoria dell’immaginario sul reale, e che fa pensare ai dipinti di Bosch a causa della profonda malvagità del personaggio e del suo amore per il male), Morte a Venezia, forse oggi farebbero fatica a trovare degli editori. Anche Lewis Carroll avrebbe perso la tonaca e sarebbe stato messo alla berlina. Il discorso del male, dell’eticamente scorretto, ha attraversato la letteratura in tutta la sua storia, e buona parte delle arti figurative. Senza l’eticamente scorretto l’arte sarebbe priva di quella essenza dionisiaca che ne rappresenta la sferza in grado di colpire. Quanto la censura esclude dalla pubblicazione, a causa del “politically correct” odierno, si diffonde come una epidemia, in modo catastrofico e letale nella società. Quasi fosse il ritorno del rimosso. 

C’è una generazione di narratori (dice Cristina Togliatti sul Corriere della sera, febbraio 2008), tra cui Wu Ming, Scurati, Evangelisti, Saviano, che spacca i protocolli, le gabbie della letteratura, che sta lavorando sul romanzo storico con una visione metafisica e allegorica della storia. L’impressione è che i critici non lo capiscano e che quindi vedano il romanzo storico come invenzione, come un oggetto strano e indefinibile. Questo libro, con l’arroganza della barbarie e uno stile di scrittura degno dei migliori classici, si sbarazza di tutto ciò che sembra storicamente corretto, cui tutti attingono. È da leggere come una metafora di qualcosa di tragicamente contemporaneo, o atemporale.  D’altronde Littell si è documentato su questa parte di storia in modo assai meticoloso. Dice di aver tratto spunto anche dalla sua esperienza diretta in alcuni grandi cataclismi umanitari del secolo delle tenebre, dove ha appreso che, al contrario di Tolstoj per il quale al mondo non ci sono colpevoli, noi dobbiamo essere consapevoli di una realtà diversa: che sulla terra non ci sono innocenti.  

Littell ha sublimato l’orrore al rango di male eterno, senza luogo e senza tempo, ha tentato di afferrare le fibre del Male quale principio universale; perché il male non si è esaurito certo ad Auschwitz o con l’offuscamento del nazismo. Oggi è solo mimetizzato, più o meno abilmente, adeguato alla capacità di assuefazione dell’uomo postmoderno. 

Oppure è stato spostato lontano, in un altrove dove i nostri occhi non arrivano e le coscienze tanto meno. Ma il lettore, dice Valli, che è puro come la Ludmilla di Se una notte un viaggiatore di Italo Calvino, è una persona semplice, debole, non è un professionista, non è un critico. E da dilettante qual è, fiuta il libro, lo soppesa sospettosamente e, come lui ha fatto, affronta il volume come una specie di Via col vento ma ne resta travolto. Lui pure lo ha iniziato in treno, in un lungo viaggio verso il Massiccio Centrale francese, classicamente in una notte di tempesta, e ha maledetto le ferrovie francesi di non essere mai abbastanza in ritardo. 

Anche Piperno ne è stato affascinato. Egli si chiede se Primo Levi lo avrebbe potuto trovare rivoltante: ne I sommersi e i salvati Levi accusava di libidine letteraria ogni tentativo di speculazione artistica sull’orrore. Per lui lo sterminio doveva essere lasciato ai testimoni. Riteneva inoltre che i superstiti dei campi non avessero il diritto di parlare al posto di quelli che non ce l’avevano fatta. Tuttavia, nella prefazione alla autobiografia di Rudolf Hoss, comandante di Auschwitz, Levi scrive come “quel libro fosse utile a mostrare con quale facilità il bene possa cedere al male, esserne assediato, ed infine, sommerso e sopravvivere in piccole isole grottesche”. Allo stesso tempo si sarebbe imbattuto, leggendo Le Benevole, nella trasposizione letteraria dell’idea cardine della sua speculazione: la “zona grigia” (titolo del secondo capitolo del libro in cui tratta dei privilegiati all’interno del lager).

Ecco la complessità del male: “la zona grigia”, che ci mette di fronte al male senza la consolazione di poter pensare a un demone. Piperno pensa che sia l’uso della prima persona a rendere questo libro una bomba a orologeria nelle mani del lettore, che pian piano può sostituirsi all’io narrante in una allucinante, non si sa se proprio impossibile, sostituzione o specchio. E in fondo Aue appartiene all’umanità non meno di noi: “Fratelli umani, lasciate che vi racconti come è andata”. È questo il folgorante incipit del romanzo.  Incipit ripreso dalla poesia di François Villon “La Ballata degli impiccati”: Fréres humains qui aprés nous vivez…  

È la letteratura che si è presa da sempre l’onere di cercare la verità attraverso la desacralizzazione; la storia cristallizza, con la retorica, i martiri o manda all’inferno i satanassi. Ma la cristallizzazione delle vittime non è forse l’inizio dell’oblio? Sembra che Littell abbia scelto di raccontare non in modo ideologico né in modo estetizzante: ha affrontato quella zona grigia da cui emana un odore ributtante.  Il romanzo è percorso da note olfattive e tattili, da odori e liquami come per volerci immergere nella fangosità della condizione umana. 

E chi si trova maggiormente immerso in tale fangosità, se non noi psicoanalisti? Dovremmo essere i primi a renderci conto della nostra personale fangosità. Ed ecco infatti che nel coro di coloro che hanno parlato di questo romanzo troviamo anche lo psicoanalista André Green che si è preso la briga di portare il dibattito all’interno della “Revue Française de Psychanalyse” poiché, secondo lui, quest’opera oltrepassa di gran lunga i confini del romanzo. 

Egli spera di attirare l’attenzione degli psicoanalisti su questo libro poiché è convinto che solo uno psicoanalista sia in grado di comprenderne tutta la profondità e l’estensione problematica. Si fa promotore di una specie di campagna pubblicitaria per la sua lettura. Tutti i libri che Green ha letto sul debutto e il declino del nazionalsocialismo tedesco, fino alla disfatta finale, gli sembra che si siano occupati solo di dettagli. Egli considera Le Benevole di qualità superiore e spesso si è trovato di fronte a potenziali lettori che dichiaravano la loro volontà di NON leggere questo libro: essi gettavano sull’autore il sospetto di compiacimento ed ostentazione di follie che solo persone in cerca di emozioni dubbie o francamente malsane potevano avere la curiosità di soddisfare. Per esperienza Green ha sostenuto che questa argomentazione è la razionalizzazione di una condotta di evitamento, atta a soddisfare il desiderio di non sapere di fronte all’insostenibilità del confronto con l’orrore. Littlell, e Green con lui, hanno accettato di mettersi a confronto con l’inaccettabile.

È difficile parlare di questo argomento dall’interno: i tedeschi se ne sono guardati, i vincitori russi, americani, inglesi e francesi se ne sono disinteressati. Inutile dire che Green si aspettava, invano, il punto di vista di coloro che avevano partecipato al regime stesso. I tedeschi se la sono cavata con qualche mea culpa. Littell, secondo Green, ha raccolto la sfida con una faccia tosta incomparabile: con audacia ci dice che tutta la Germania ha seguito il suo Führer o, peggio ancora, che nelle stesse circostanze tutti, anche noi, avremmo fatto la stessa cosa. Quest’opera è per Green la prima che descrive senza belletti gli orrori della guerra condotta da coloro che vedevano in essa un’ordalia in grado di conferire, attraverso il trionfo della forza, la legalità del diritto. Una tale situazione poteva essere descritta solo da chi era, o si poneva, al centro - tra coloro che detenevano l’ideologia nazionalsocialista -, e al centro del suo crimine più palese: lo sterminio degli ebrei. 

La cultura greca in questo romanzo si deduce non solo dal titolo ma dallo stesso progetto dell’opera, che dà la parola ai vinti. Eschilo descrive la vittoria della democrazia greca a Salamina dal punto di vista dei persiani sconfitti, persiani araldi della tirannia imperiale. 

Qualcuno troverà da ridire sull’accostamento individuale /collettivo che forma la trama dell’opera. Vi è la descrizione di un’anarchia pulsionale evocata fino ad un raro livello, che dimostra una intelligenza acuta, spinta di rado fino a quel punto, del pensiero psicoanalitico. Green riconosce la descrizione della disperazione erotica del protagonista come la più sconvolgente che egli abbia mai letto, per cui pensa che quest’opera debba la sua nascita anche a conoscenze psicoanalitiche e che proprio questo motivi il rifiuto da parte di molti.  Littell ci introduce al tragico, e lo sguardo glaciale con cui lo presenta ce lo fa sembrare insensibile a ciò che sta descrivendo. Per Green è invece vera letteratura. Tanto peggio per coloro che vogliono legittimare la loro misteriosa avversione al vedere, per evitare non la necessità, ma l’obbligo di sapere.

Il romanzo è diviso in sette parti, intitolate con i nomi di sette movimenti musicali: Toccata, Allemanda I e II, Corrente, Sarabanda, Minuetto (in rondò), Aria, Giga. La musica occupa un posto importante e Bach può essere considerato uno dei protagonisti. Yakov, un piccolo pianista ebreo, si salva perché suona divinamente Beethoven e Haydn, in particolare tutte le suites di Bach, che conosce a memoria. Viene ucciso quando si ferisce ad una mano e quindi non serve più per suonare. 

La tragica danza nazista è accompagnata dunque dalla musica classica: una musica eccelsa e nobile di sottofondo ci accompagna nell’orrore, dando il ritmo all’olocausto e ai crimini individuali di Aue. Di nuovo il bello e il buono, opere dell’uomo, si mescolano alle sue azioni più nefande.  Pierre Nora, in una lunga ed essenziale conversazione con l’autore (Le Débat, marzo-aprile 2007) afferma che da più di mezzo secolo gli storici hanno ricostruito, e lo fanno ancora, questo periodo storico, ma tentano di razionalizzarlo, cioè lo raffreddano anche quando vogliono scaldarlo.  Littell invece lo arroventa; egli si è documentato in modo preciso, interrogando una massa gigantesca di documenti, ma nel suo romanzo si è tuffato nel meccanismo psicologico, al quale gli storici non avevano e non hanno accesso. Ha unito la sua straordinaria conoscenza di quel periodo mescolandola con l’esercizio letterario, che è per sua natura più libero dai vincoli storici. In questo modo ha raggiunto una verità estrema che ha scandalizzato gli storici ma che comunque è una verità con la V maiuscola. 

Il romanzo sembra un fiume in piena, sembra scritto tutto d’un fiato (almeno così si legge). Ripercorre avvenimenti cui sono state dedicate montagne di parole e ci porta, con stupore, negli abissi, che non pensavamo potessero essere così profondi, della tragedia. E l’io narrante, via via, in parallelo alla carriera inarrestabile del protagonista, a cui peraltro egli sembra indifferente, descrive minuziosamente i luoghi e i modi dello sterminio, nelle sue missioni in Ucraina, in Polonia, nel Caucaso. 

Descrive, con molti particolari, come le squadre della morte si danno da fare nel torrente Baby Yar presso Kiev. Guarda negli occhi e descrive le espressioni di chi uccide. Cerca di scavare nelle menti e sonda i sentimenti di coloro che uccidono e programmano lo sterminio. Descrive questa macchina infernale di morte che è nel contempo una grande macchina burocratica, ne enumera i difetti, gli insuccessi e i successi. Parte dalla descrizione di una macchina di morte artigianale con forche, mitra, fucili e pistole, per seguirne l’evoluzione più tecnologica, pratica, su vasta scala, ad alta produttività, i sistemi industriali come le camere a gas. Non ci risparmia niente Littell, ci fa incontrare Himmler e Heichmann; a Berlino assistiamo alla distruzione finale, anche allo sventramento, da parte delle bombe, del meraviglioso Zoo del Tiergarten e la disperazione degli animali si mescola con quella degli uomini. 

Ma chi è questo assassino, Max Aue? È un intellettuale che legge L’Educazione sentimentale di Flaubert. Il suo racconto è inframezzato da citazioni e riflessioni filosofiche e letterarie; la lettura trascina la memoria ad alcuni passaggi delle discussioni fra Settembrini e Naphte nella Montagna Magica di Thomas Mann.  Siamo di fronte ad una raffinatezza estetica quasi sublime e Aue a volte ha anche scrupoli morali, eppure nella stessa maniera viene preso da raptus omicidi. È spesso in preda a passioni incontenibili, descritte con la freddezza anestetizzata con cui affronta l’inaudita violenza della guerra e dello sterminio, freddezza interrotta solo dalla risposta violenta di un corpo che si svuota con il vomito e la diarrea, che lo accompagneranno fino alla fine della guerra e oltre, come sintomi psicosomatici. Passioni non solo perverse, come quella verso la sorella Una, che è la fonte maggiore dei suoi deliri allucinati di incesto, ma anche di grande sofferenza per quel che vede ad Auschwitz o a Stalingrado, dove il racconto dell’assedio ci ricorda gli accenti di Vita e Destino di Grossman (prima edizione italiana nel 1984; il testo fu fatto uscire dalla Russia in un microfilm poiché nel 1960 era stato confiscato dal governo russo, che ne fece scomparire sia la copia originale sia la carta carbone sia i nastri della macchina da scrivere adoperata dall’autore).  

Sostanzialmente la narrazione ruota attorno a due assi centrali: la marcia verso Stalingrado delle truppe naziste nel ‘42-’43 (Allemanda I e II) e il periodo a cavallo tra il ’44 e il ’45, che il protagonista trascorre sostanzialmente in Germania, girando per i campi e assistendo al tracollo del regime (Minuetto). Tutto il periodo della seconda guerra mondiale viene preso in considerazione, ma i fatti centrali sono i due citati: i capitoli ad essi dedicati sono di circa 300 pagine l’uno. Non si incontrano cadute di stile, in questo romanzo, sempre scorrevole, agile, ricco di documentazione. Basti pensare al personaggio del linguista Voss, sottotenente della Wehrmacht, studioso di lingue caucasiche, amico di Max, la cui lezione sul Caucaso (“La Montagna delle lingue”), sulla suddivisione dei popoli di quelle terre (“Un popolo equivale a una lingua più un territorio”, come diceva Stalin) prende quasi 50 pagine e vale i migliori saggi di linguistica antropologica. 

Il libro va avanti come una cronaca: lo spazio dedicato ai pensieri e alle considerazioni di Max Aue è minimo e spesso chiuso nelle discussioni con Voss, con l’amico Thomas, con il dr. Hoheneg, oppure nelle vivissime immagini della sua attività onirica, legate a deliri febbrili. Il protagonista spesso si ammala, quasi in risposta alle insopportabili atrocità cui assiste (all’inizio del capitolo “Sarabanda” Aue sostiene addirittura di sentirsi staccato dal proprio corpo e di percepirsi sparpagliato dappertutto. Potremmo commentare: bella risposta alla monolitica concezione del corpo ariano!).

Questa cronaca vuole essere fondamentalmente neutra e oggettiva; ha un tono sempre netto, con aggettivi misurati anche quando descrive esecuzioni, stragi, morti orrende. I luoghi chiave sono visitati da Aue e corrispondono a fasi del conflitto, come dicevamo in precedenza: Ucraina, Stalingrado, la Francia di Vichy, Berlino, Polonia, Ungheria; ad essi si allaccia la storia personale del protagonista, della sua famiglia, il rapporto incestuoso con la sorella, l’omosessualità (non può volere altra donna che sua sorella), alcune amicizie, il misterioso omicidio della madre e del patrigno. La scelta cronachistica di Littell diventa pian piano, come succede al suo personaggio, un anestetico sul lettore. Come possiamo catalogare, interpretare questo affresco vertiginoso, che fa sfilare gesti odiosi, sogni, deliri, in una anarchia pulsionale scatenata, campione allucinante e rappresentativo della specie umana? Come possiamo avvicinarci a questo Max Aue che attraversa la storia e ne è attraversato e la genera in un medesimo stravaso convulsivo? Il fatto è che, come sottolineava A. Green, in questo libro il 3° Reich e i suoi effetti devastanti, concepibili e inconcepibili, sono scrutati e sezionati come nessuno in precedenza aveva fatto. 

Ho scelto il pensiero di tre psicoanaliste per avanzare in questo percorso diabolico, per trovare ipotesi che permettessero di comprendere e non rifiutare. La prima è Evelyn Tysebaert, che rimanda, nella sua riflessione, ad altre due: Nathalie Zaltzman e Piera Aulagnier, entrambe appartenenti al “Quatrième groupe” e, precedentemente, aderenti all’”Ecole Freudienne” diretta da J. Lacan. Esse sono molto vicine anche nelle loro teorizzazioni. Vedremo come il loro lavoro si affianchi a quello di Freud e a quello di Lacan: le teorie di N.  Zaltzman (L’esprit du mal, Gallimard, 2007) e di P. Aulagnier ci aiutano a vedere come la scelta dell’autore sottolinei in modo forte che il problema dell’assassinio collettivo attraversa le patologie individuali e non ne risparmia alcuna: l’espressione  “capitale rappresentativo”, usato da Zaltzman, indica che le rappresentazioni che abitano noi umani non sono solo quelle riferite ai processi primari (cioè fantasmi, miti) e ai processi secondari (cioè dare senso, idee) ma che l’attività di rappresentazioni originarie, come ha teorizzato Piera Aulagnier (La violence de l’interpretation, PUF, 1975) è un fondamento cruciale, per ogni soggetto, nel suo accesso al registro del significato. L’originario definisce una forma di attività comune a ogni soggetto vivente, senza eccezioni, ma questo concetto è comprensibile solo alla prova dell’esperienza clinica della psicosi. Lontano dalla psicosi esso abita, silente e non riconoscibile, direttamente dentro di noi. La sua opacità e l’estromissione dalla coscienza non impediscono però di coglierne le tracce: l’acting out, lo stato di siderazione, certe forme catastrofiche di angoscia, punteggiano fugacemente, ci dice Aulagnier, la nostra esistenza e l’unica differenza tra queste esperienze e quella della psicosi è la possibilità che mantiene l’Io di riprendere possesso della sua normale modalità di funzionamento, di dimenticare questi momenti, di dominarli con l’après coup o di trattarli come corpi estranei.

E. Tysebaert (“Quand l’analyste écoute aux portes de la scène originaire”, Topique, 2002/1) fa l’ipotesi che la nozione di “originario” possa rivelarsi illuminante per comprendere manifestazioni umane che non rientrano nel campo della psicosi. Quando degli “accidenti” traumatici ledono il pensiero individuale o collettivo, questa modalità di rappresentazione si manifesta in vari modi.  Tysebaert ci permette quindi un approccio psicopatologico al romanzo: il narratore per lei non è né un nevrotico, né un perverso, né uno psicopatico o uno psicosomatico, né un melanconico o uno psicotico, un assassino puro e semplice, ma tutto ciò contemporaneamente, operando attraverso un’ampia esplorazione dello spettro patologico. Si trovano nel romanzo dei passaggi per ognuno di questi tipi patologici e questo senza nuocere alla verità del quadro complessivo. Si dispiega uno stato di specularità tra l’io narrante e i massacri realizzati dai nazisti, tra spazio originario proprio e spazio del mondo al di fuori dell’individuo. Il suo corpo si svuota violentemente da tutti gli orifizi, proprio come i corpi di coloro che lui non può guardare, che esplodono sotto le pallottole e si svuotano alla stessa maniera.  Tysebaert ci propone un “pittogramma di ritorno”, o il ritorno di un pittogramma, quale primissima figurazione del male: un pessimo incontro, un accidente, che non potrà essere pensato a causa di una automutilazione psichica, di un buco nel pensiero, come il buco nella testa di Max Aue (il protagonista a un certo punto viene ferito alla testa).

Proseguiamo facendo qualche richiamo teorico: secondo Aulagnier ogni soggetto vivente è sottoposto all’incontro con l’ambiente fisico-psichico circostante. Questo incontro è all’origine di tre produzioni che delimitano tre spazi-funzioni: 1) l’originario e il pittogramma, 2) il primario e il fantasma, 3) il secondario e l’ideazione, cioè il dare un senso quale opera dell’Io. Il pittogramma è il segno di una scrittura primitiva che rappresenta idee e fatti attraverso disegni e non parole. Esso occupa un posto importante nella elaborazione del libro di Piera Aulagnier La violenza dell’interpretazione, il cui sottotitolo è “Dal pittogramma all’enunciato”. La sua costituzione psichica si situa nella prima fase processuale, l’originario, appunto, anteriore all’apparizione del linguaggio. È una prima rappresentazione dell’attività psichica all’interno dell’oggetto-zona complementare bocca-seno. Il soggetto non ne ha alcuna conoscenza diretta e il pittogramma dipende esclusivamente dalla costruzione dell’analista. Esso è rappresentazione dell’affetto e affetto della rappresentazione nello stesso tempo.  La definizione pura e semplice, da dizionario, non ci porta sul concetto che vuole esprimere Aulagnier. Sarebbe piuttosto un significante di demarcazione che si origina a partire da un “percepito” dal corpo, da una relazione tra il corpo e l’oggetto. Ma non è solo visivo, poiché risponde ai cinque sensi. Resta isolato e non si articola ancora in una rappresentazione di qualcosa. È ancora un significante potenziale dunque ancora enigmatico. Ma se la sofferenza, in questo percepito, è intollerabile per il bambino, esso viene abolito, producendo un buco (una situazione di odio o di abbandono, di rifiuto, produce il ribaltamento del bocca-seno in ingoiare-vomitare) o una forclusione, da cui origina una psicosi, come dice Lacan. Altrimenti rimane attivo ma immemore (la memoria del bambino comincia a svilupparsi tra il primo e il secondo anno). Può essere solo una traccia mnesica; Freud ne parla nel Mosè e solo il racconto dei genitori, che si ricordano le prime reazioni del bambino, può aiutare l’analista a ritrovarlo. Altro riferimento teorico: per Aulagnier la madre ha un’importanza fondamentale, è la porte-parole, la mediatrice tra il mondo e il neonato, verbalizza le manifestazioni del figlio, dà loro un senso, supplisce alla mancanza di linguaggio. Piera Aulagnier definisce questa funzione protesica come violenza poiché si trova all’interno del divario di ciò che la madre proietta sul bambino e ciò che questo si rivelerà essere: l’ombra portata sul bambino non coinciderà mai con il bambino stesso. L’Io giunge e si sviluppa, quindi, in uno spazio preformato da una aspettativa che non è la sua. Aulagnier ha scritto anche “Dal linguaggio pitturale al linguaggio dell’interprete” (Topique, 1981) e “Un interprete in cerca di senso” (Topique, 1986).

La dualità fondamentale, per queste autrici, non è quella soggetto-oggetto, ma quella della psiche e del mondo. Il mondo non è solo inghiottito, secondo il modello dell’assunzione orale, ma si inserisce in un fenomeno di specularità originaria.  La psiche nasce in un’attività folle di rispecchiamento all’interno della quale il bambino converte ogni incontro sensibile in una scoperta di sé stesso, una sorta di autogenerazione: quindi il percepire è conformato al generare. La bocca genera sé stessa nell’ingoiare il seno, seno da lui prodotto in un movimento allucinatorio (quest’ultimo movimento è presente in Freud: è il bambino che, a contatto con il seno, lo ritiene parte di lui, non differenziato da lui). Il mondo psichico si autogenera impadronendosi del mondo stesso con movimenti di strappo, penetrazione, apertura, chiusura, attrazione e rifiuto. Per Piera Aulagnier questi sono i primi prodotti psichici (preliminari) antecedenti alla costruzione dell’Io. L’originario, quindi, non si distingue solo per la anteriorità in rapporto al primario, ma in rapporto alla autogenerazione di ogni essere vivente. Di conseguenza, qualsiasi sia il nostro livello di funzionamento psichico, la modalità di rappresentazione originaria ci accompagna silente per tutta la vita. Ed è quel famoso “capitale rappresentativo”, capitale ad ancoraggio corporeo, che non smette di alimentare la nostra vita fantasmatica e i nostri pensieri più complessi. Questa modalità si muove sul binario dell’investimento e del disinvestimento: lo spazio originario non è l’inconscio né un processo primario. Esso metabolizza ogni sensazione affettiva trasformandola in pittogramma: rappresentazione dell’affetto e affetto della rappresentazione. Il pittogramma si mette in evidenza nell’azione del corpo e soprattutto di parti del corpo (come attrazione o rifiuto) e la realizzazione allucinatoria attraverso il pittogramma di rifiuto può causare una mutilazione della zona psichica corrispondente. 

Può questo meccanismo spiegare la vicinanza inestricabile tra cultura e barbarie? Forse in parte. Littell fa scorrere sotto i nostri occhi la scena corporea del mondo e quella del narratore: non sembra esserci in questo romanzo una divisione tra corpo privato e corpo del mondo, o con l’ordine ideologico burocratico. Questa prospettiva può essere criticabile, ma non si può certo negare la lucidità dell’intento. Seguendo la riflessione di E. Tysebaert riporto qui tre passi del libro estratti dai capitoli 1° e 2°; l’insostenibilità delle scene ricorda che siamo al di là della follia assassina e guerriera. La scena psichica originaria è un mondo crudo, terribile, caotico, senza senso per lo sguardo dell’Io. Ed è precisamente questo che stiamo fissando.

ALLEMANDA I E II

* Notai un giovane Waffen-ss, di cui non conoscevo il nome: incominciava a sparare come capitava, la mitraglietta sul fianco, rideva orribilmente e vuotava il caricatore a caso, un colpo a sinistra, poi a destra, poi due colpi poi tre, come un bambino che segue le linee del lastricato in base a una misteriosa topografia interna. Mi avvicinai e lo scossi, ma continuava a ridere e a sparare proprio davanti a me, gli strappai la mitraglietta e lo presi a schiaffi, poi lo mandai verso gli uomini che riempivano i caricatori; Grafhorst mi spedì un altro a sostituirlo e io gli lanciai la mitraglietta gridando: «E fa' un lavoro pulito, intesi?!!» Vicino a me, portavano un altro gruppo: il mio sguardo incrociò quello di una bella ragazza, quasi nuda ma molto elegante, calma, con gli occhi pieni di un'immensa tristezza. Mi allontanai. Quando tornai indietro era ancora viva, girata a metà sulla schiena, un proiettile le era uscito sotto il seno e lei ansimava, impietrita, le sue belle labbra tremavano e sembrava che volessero formare una parola, mi fissava con i suoi grandi occhi sorpresi, increduli, occhi da uccello ferito, e quello sguardo mi si conficcò dentro, mi aprì il ventre e ne fece uscire un fiotto di segatura, ero un volgare pupazzo e non provavo niente, e al tempo stesso volevo con tutto il cuore chinarmi e ripulirle la fronte dalla terra e dal sudore, accarezzarle la guancia e dirle che andava tutto bene, che tutto sarebbe andato per il meglio, invece le sparai convulsamente un colpo alla testa, il che dopotutto era lo stesso, per lei in ogni caso se non per me, perché io al pensiero di quell'insensato scempio umano ero invaso da una rabbia immensa, continuavo a spararle e la sua testa si era spaccata come un frutto, allora il mio braccio si staccò da me e se ne andò da solo per il burrone, sparando qua là, io gli correvo dietro, con l'altro braccio gli facevo segno di aspettarmi, ma lui si rifiutava, rideva di me e sparava sui feriti da solo, senza di me, alla fine, col fiato corto. mi fermai e mi misi a piangere. Adesso, pensavo, è finita, il braccio non tornerà più, invece con mia grande sorpresa era di nuovo lì, al posto solidamente attaccato alla spalla, e Häfner mi si avvicinava e diceva: «Va bene, Obersturmführer. Le do il cambio». Tornai su e mi diedero del tè; il suo calore mi riconfortò un poco. La luna, piena per tre quarti, era sorta e stava sospesa nel cielo grigio, pallida e appena visibile. Avevano costruito una piccola baracca per gli ufficiali. Entrai e andai a sedermi in fondo su una panca, a fumare e a bere il mio tè. C'erano altri tre uomini in quella baracca ma nessuno parlava. In basso le salve continuavano a crepitare: instancabile, metodico, il gigantesco congegno che avevamo messo a punto continuava a distruggere quella gente. Sembrava che non si sarebbe mai più fermato. Fin dagli albori della storia umana, la guerra è sempre stata considerata il male più grande. Ma noi avevamo inventato qualcosa al cui confronto la guerra finiva per sembrare pulita e pura, qualcosa a cui molti già cercavano di sfuggire rifugiandosi nelle certezze elementari dei combattimenti e del fronte. Perfino le folli carneficine della Grande guerra, vissute dai nostri padri o da alcuni ufficiali più anziani, sembravano quasi pulite e giuste in confronto a quello che avevamo prodotto noi. Lo trovavo straordinario. Mi sembrava che ci fosse qualcosa di cruciale in tutto ciò, e che se fossi riuscito a capirlo, avrei capito tutto e avrei potuto finalmente riposarmi. Ma non riuscivo a pensare, i pensieri cozzavano fra loro, mi si riverberavano nella testa come il fracasso di convogli del metrò che superano una stazione dopo l'altra, in tutte le direzioni e a tutti i livelli. Comunque a nessuno importava di quel che potevo pensare. Il nostro sistema, il nostro Stato se ne fregava altamente dei pensieri dei suoi servitori. Gli era indifferente che uno uccidesse gli ebrei perché li odiava o perché voleva far carriera o addirittura, entro certi limiti, perché ne ricavava piacere. Proprio come gli era indifferente che uno non odiasse gli ebrei e gli zingari e i Russi che uccideva, e che non ricavasse assolutamente alcun piacere a eliminarli, proprio per niente. Gli era perfino indifferente, in fondo, che uno si rifiutasse di ucciderli, non sarebbe stata comminata alcuna sanzione, perché sapeva bene che la scorta di uccisori disponibili era illimitata, poteva attingervi uomini a volontà, e uno avrebbe benissimo potuto essere assegnato ad altri compiti, più consoni alle proprie qualità. Schulz, per esempio, il Kommandant dell'Ek 5 che aveva chiesto di essere sostituito dopo aver avuto il Führerbefehl, era stato finalmente esonerato, e si diceva che avesse ottenuto un buon posto a Berlino, alla Staatspolizei. Anch'io avrei potuto chiedere di andarmene, molto probabilmente avrei anche ottenuto una raccomandazione di Blobel o del dottor Rasch. Perché allora non lo facevo? Di sicuro non avevo ancora capito quello che volevo capire. Ci sarei mai riuscito? Non ne ero affatto certo. Mi passava per la testa una frase di Chesterton: Non ho mai detto che sia sempre sbagliato entrare nel regno delle fate. Ho solo detto che è sempre pericoloso. Era dunque quella, la guerra, un regno delle fiabe pervertito, il campo giochi di un bambino demente che rompe i giocattoli ridendo a squarciagola, che butta allegramente i piatti dalla finestra? (pp. 127-129)

Questo primo passaggio (pp. 127-129) ha molti aspetti sensibili all’analisi: se esaminiamo il registro dell’originario vediamo all’opera i pittogrammi di unione e di rifiuto che si coniugano in una sequenza impressionante: lo sguardo della giovane e bella donna attira Aue che distoglie il suo e prova un vissuto di svuotamento del suo ventre pieno di sostanza inerte (lo sguardo si piantò in me ...). Non sente nulla e nondimeno percepisce una sensazione violenta di rabbia smisurata. Simultaneità dell’attrazione e del rifiuto-esplosione seguita da un fenomeno psicotico di spezzettamento: il suo braccio si stacca da lui e fugge non obbedendo ai suoi comandi. Ma se riflettiamo bene dovremmo chiederci: chi è psicotico in questo momento, Max Aue o il mondo? Sembra esserci una cattura speculare tra lo spazio proprio e quello del mondo, una specie di riflesso in lui di ciò che è esterno e che autogenera circolarmente. Inoltre il fantasma incestuoso di Aue, non nominato in questo passo, è comunque presente, suggerito dallo sguardo e dal gesto di consolazione fantasmatizzato verso la giovane donna. Esso viene però nascosto da una rabbia smisurata e da un assassinio che precede l’irruzione del braccio che si stacca. Aue poi si riprende e cerca di comprendere, ma un frastuono gli impedisce di pensare. Una citazione letteraria gli permette di ritrovare un pezzo di immaginario e forse di identificarsi nel bambino demente che rompe i suoi giocattoli ridendo a squarciagola, chiuso in un mondo pervertito di fate. Possiamo dunque seguire il percorso che va dal fantasma incestuoso all’atto omicida, sullo sfondo di uno spezzettamento e di un pittogramma di rifiuto, quindi al tentativo di dare un senso e al tentativo di una riflessione filosofica e infine alla induzione di un fantasma per mezzo di una citazione letteraria.

** Alcuni Orpo inquadravano un gruppo di persone vestite solo della biancheria e lo guidavano verso il fossato anticarro, a un chilometro di distanza. Li guardai allontanarsi. La fossa era troppo lontana per udire gli spari; ma quella gente doveva sospettare la sorte che l'attendeva. Bolte mi chiamò: «Viene?» La nostra auto sorpassò il gruppo che avevo visto allontanarsi; tremavano di freddo, le donne tenevano stretti per mano i bambini. Poi la fossa fu davanti a noi. Alcuni soldati e Orpo stavano in posizione di riposo, con aria ironica; sentii un tumulto, delle grida. Oltrepassai il gruppo di soldati e vidi Turek, con una pala in mano, intento a colpire un uomo seminudo a terra. Davanti a lui giacevano altri due corpi insanguinati; più in là, c'erano degli ebrei terrorizzati, in piedi, guardati a vista. «Bastardo! urlava Turek, con gli occhi fuori dalle orbite. - Striscia, giudeo!» Lo colpì alla testa con il taglio della pala: il cranio dell'uomo cedette, spruzzando di sangue e cervella gli stivali di Turek; vidi chiaramente un occhio, fatto schizzare via dal colpo, volteggiare a qualche passo di distanza (pag. 237)

In questo secondo stralcio (pag. 237) Turek, con gli occhi fuori dalle orbite, spacca la testa di una delle vittime il cui occhio schizza fuori volteggiando. Aue lo rimprovera e il boia gli risponde di impicciarsi di ciò che lo riguarda. Gli occhi del boia schizzano quasi dalla sua testa nell’atto frenetico di uccidere e l’occhio della vittima, staccato dal cervello, diventa lo sguardo inerte fisso sul nulla di un senso perduto.

*** Nel terzo passaggio (pag. 247) Aue vomita e poi guarda i resti delle deiezioni umane che insudiciano il fondo del camion Saurer. Un altro gioco di specchi, che nel libro si ripetono all’infinito, fino alla saturazione. 

L'indomani dovevo assolutamente passare al Kommando per una visita di cortesia; aspettavano l'Oberführer Bierkamp. Ci andai verso le undici. Dalla città bassa, sul viale, si distinguevano nettamente, in lontananza, le creste frastagliate del Bestau, che si ergeva come un nume tutelare; non era piovuto, ma l'aria restava fresca. Al Kommando, mi informarono che Müller era occupato con Bierkamp. Aspettai sulla scalinata del cortiletto, guardando un autista che lavava il fango dai paraurti e dalle ruote del camion Sauter. Lo sportello posteriore era aperto: per curiosità, mi avvicinai a guardare l'interno, perché non avevo ancora visto come fosse; ebbi un moto di repulsione e incominciai subito a tossire; era uno schifo, un lago puzzolente di vomito, escrementi, urina. L'autista notò il mio malessere e mi disse qualche parola in russo: afferrai «Grjaznyj, kazdi raz», ma non capivo il significato. Un Orpo, molto probabilmente un Volksdeutsche, si avvicinò e tradusse: «Dice che è sempre così, Herr Hauptsturmführer, sporchissimo, ma che modificheranno l'interno, inclinando il fondo e sistemando al centro una piccola botola. Sarà più facile da pulire». «È un russo?» «Chi, Zajtsev? È un cosacco, Herr Hauptsturmführer, ne abbiamo parecchi». (pag.247)

**** Importante mi sembra il passo di pag. 603; vi è descritta una presa di consapevolezza di un fuori di sé che però resta dipendente da una relazione di identità, cosicché il riconoscimento della alterità è riconosciuta ma immediatamente negata attraverso l’uccisione. Altro atroce e destabilizzante gioco di specchi.

Sono giunto alla conclusione che la guardia delle SS non diventa violenta o sadica perché pensa che il detenuto non sia un essere umano; anzi, la sua rabbia aumenta e si trasforma in sadismo quando si accorge che il detenuto, lungi dall'essere una creatura inferiore come gli hanno insegnato, dopotutto è proprio un uomo, come lui in fondo, ed è questa resistenza, che la guardia trova insopportabile, questa persistenza muta dell' altro, e quindi la guardia lo picchia per tentare di far scomparire la loro comune umanità. Ovviamente non funziona: più la guardia picchia, e più è costretta a constatare che il detenuto rifiuta di riconoscersi come non umano, Alla fine, non gli resta altra soluzione che ucciderlo, il che significa prendere definitivamente atto del proprio fallimento. (pag. 603)

Una forza di questo romanzo sta nel suggerire senza pause, con il meccanismo dinamico dei fluidi e delle maree, i movimenti di avanzamento e di arretramento dei differenti registri di rappresentazione, degli stati affettivi e corporali ad esse associati.   Ritornando alla dimensione psichica del male, N. Zaltzman sottolinea che “essa può penetrare ogni forma della vita psichica, non appartiene solo alla economia primaria pulsionale, data la sua capacità di alleanza con le formazioni psichiche più evolute, data la sua qualificazione nell’ambito del morale che fa appello all’Io e al Super Io, data la sua possibile messa in atto con la partecipazione cosciente dell’Io. Il male dunque è un ibrido”. Zaltzman ci dice che anche il primario e il secondario sono all’opera nell’attuazione del male ma è l’originario che, pur non essendone la fonte primaria, è il luogo psichico della sua prima iscrizione. 

Uno dei temi maggiori e ossessivi delle Benevole è l’esistenza di una riserva umana di assassini, burocrati e agenti di esecuzione, collaboranti ed estremamente produttivi. Il crimine commesso per dovere o sottomissione, funzionale ad una ideologia sterminatrice, senza alcuna inclinazione criminale, ma sicuramente senza un’attività di pensiero capace di rimetterla in discussione, è la prova che indica la presenza di mutilazioni psichiche ad opera dell’originario. Questa mutilazione è appesantita da eccessi di violenza e da una appropriazione del pensiero della massa ad opera di altre persone e propagato dal linguaggio ideologico: la massa, prolungamento della specie, organo solo ricevente, reagente ma non pensante, che persegue ciecamente il suo programma.  Non a caso la scrittura del libro, gravata e sovraccaricata, forse di proposito, di nomi e termini tedeschi, designanti le strutture amministrative e militari dell’apparato nazista, come pure i gradi dei personaggi, rende torpido il pensiero, insensibile lo spirito del lettore. Il raffronto tra originario dell’individuo e originario della massa pone questioni teoriche difficili da trattare senza cadere nello schematismo. Freud, nella introduzione a Psicologia delle masse (1921), ci ricorda che la psicologia individuale si deve far carico di studiare le relazioni del singolo con l’altro, regolarmente presente come oggetto e modello, che la psicologia dell’individuo è al tempo stesso psicologia sociale e che non è idoneo separare la psicologia delle masse da quella del singolo. Il singolo sente, agisce, pensa in maniera affatto diversa se incluso in una moltitudine umana che abbia acquisito le qualità di massa psicologica. Freud prende in esame gli scritti di Le Bon, Mc Dougall, Trotter. Ci dà della folla un quadro fortemente pessimistico: la considera un corpo unico dove l’individuo annulla la sua personalità per unirsi alla moltitudine, perdendo il senso critico, la morale, il pensiero, per partecipare ad una sensazione di potenza data dalla disinibizione delle pulsioni. L’anima della folla presenta aspetti tipici della vita dei primitivi: impulsiva, volubile, accessibile alle immagini, chiusa alle istanze critiche, affascinata dalle parole, priva del senso della realtà, indifferente alla verità. È autoritaria, convinta della propria onnipotenza, crudele, brutale, distruttrice. Freud per primo si avvicina, nel descrivere la folla, a quel periodo della vita in cui c’è l’iscrizione, nella psiche, del pittogramma e ci spiega le caratteristiche della massa con concetti quali la suggestionabilità (chiamata da le Bon “contagio mentale”) e l’ipnosi; ma, soprattutto, con l’identificazione e la regressione, identificazione con gli altri e in alcune organizzazioni anche con il capo. Egli prende ad esempio due tipi di masse, transitorie e stabili, e tra queste ultime si occupa della chiesa e dell’esercito. Il capo in esse si costituisce come Ideale dell’Io e si sostituisce al Super Io. Compara la psicologia delle masse a quella del capo e si riallaccia, facendola sua, all’ipotesi di Darwin dell’orda primitiva, condotta da un maschio forte che impone a tutti la sua volontà: l’orda primitiva è la prima folla, tutte le altre soggiacendo ai comportamenti di quella, attraverso la regressione. Per effetto dell’identificazione il narcisismo individuale si trasforma in narcisismo di gruppo, l’aggressività viene indirizzata all’esterno e presentata come doverosa verso altri gruppi esterni. 

In effetti l’atto di dichiarazione di guerra da parte dello Stato è quell’atto che riconosce come giusta la violenza contro l’avversario. Per il singolo questo atto rappresenta un improvviso capovolgimento dei valori e non viene sentito come l’imposizione di una autorità esterna, in virtù dell’essere il singolo immesso nella massa. La coscienza morale coincide, in massima parte, con l’angoscia sociale, cioè con il timore della riprovazione sociale, ma quando la società toglie il veto alle tendenze aggressive latenti nell’animo umano (pulsione di morte), queste esplodono, forti dell’appoggio dello stesso Super Io. Nel fenomeno guerra bisogna includere anche i fattori ideali e affettivi che vengono additati nella esaltazione dell’eroismo. Freud rifiuta che vi sia una pulsione gregaria nell’uomo, come aveva postulato Trotter, e riconduce la genesi di tutti i fenomeni sociali alla pulsione libidica, all’Eros e precisamente alla libido inibita nella meta sessuale, cioè sublimata. Anche Tysebaert considera la massa un prolungamento della specie, una “placca sensibile” solamente ricevente, non pensante, che persegue il suo programma ciecamente. 

Solo la cultura la può ostacolare poiché è al di fuori di questi schemi e ne blocca gli obiettivi. La massa, quando si mette in moto, si muove anch’essa secondo cieche reazioni e atti violenti orientati verso la distruzione e l’annullamento: sentire, generare, espellere, distruggere. Tutto si svolge sotto il segno assoluto del rigettare fuori ciò che non si può prendere dentro, che fa paura. Nelle masse, questo schema di rifiuto di ciò che non può essere assorbito si appoggia sul pulsionale scatenato, anarchico, che diventa il motore imbizzarrito del processo. Ma ci sono anche le espulsioni mute e silenziose che servono allo stesso scopo e convergono tutte verso lo stesso punto, come limature di ferro sparse che si dirigono tutte inesorabilmente e ordinatamente verso una calamita posta ad una determinata distanza. Così l’architettura del romanzo fa vedere nettamente, a fianco dei racconti dei massacri, una ideologia nazista e una pianificazione burocratica alle prese con la risoluzione del problema della eliminazione massiccia degli ebrei: il problema è posto in termini statistici, contabili e tecnici (alimentazione, logistica, sistemazione dei camion Saurer, ecc), ancora in termini di definizioni. Siamo di fronte all’opera del processo secondario, di una risoluzione intelligente, razionale, funzionale; senza la partecipazione di un odio caratteristico. Queste modalità contribuiscono più efficacemente al movimento di eiezione, di mutilazione fisica e psichica. La parola rifiuto ci induce facilmente a immagini violente di espulsione, ma ne esistono di soffocanti come quella di una fusione corrodente e liquefacente che non lascia niente a livello delle zone psichiche per pensare alla mutilazione subita: il crimine commesso per dovere o sottomissione ad una ideologia sterminatrice, senza una particolare inclinazione criminale individuale, ma senza il lavoro del pensiero atto a rimettere tutto in discussione, è proprio l’indice di questa mutilazione, nella zona sia della funzione psichica sia della sua autonomia. L’attività persiste ma si è spossessati di ogni forma di scelta che l’Io potrebbe esercitare sulla propria attività. Si ha qui la connessione tra massa e funzionamento di tipo originario sullo sfondo di una regressione. Questa amputazione è spesso gravata da un eccesso di violenza e di appropriazione dell’attività di pensiero esercitato da altri; e questo eccesso è propagato in altri attraverso il linguaggio ideologico. Tra l’individuo e il mondo si instaura un movimento circolare come quello che si instaura tra la madre e il neonato, l’Io materno che getta la sua ombra dichiarata, parlata, sull’Io in divenire del neonato, sul e nel corpo del neonato che diventa il luogo dell’affetto.  Allora ogni volta che l’idea del mondo rischia di vacillare in modo imprevisto e non dominabile, il funzionamento psichico è a rischio di non potersi più appoggiare sul funzionamento primario o secondario e di incontrare una immagine di questo mondo prossima all’originario. È costretto ad un tentativo disperato di rendere sensate esperienze che derivano da una rappresentazione che non è soltanto il riflesso fugace di un corpo che si automutila, autorifiuta, autoevacua. Nessuno è indenne dal male interiore, il soggetto umano rischia di essere ghermito da un’esperienza allucinatoria: le conseguenze sono una messa in atto distruttrice del pittogramma del rifiuto, in una perdita di senso, in una perdita di autonomia dell’Io, anche se il resto del funzionamento psichico non è minato e l’Io tratta questa esperienza, après coup, come un corpo estraneo. 

Come non parlare a questo punto del libro di Hannah Arendt La Banalità del male, uscito in Italia nel 1964 per Feltrinelli e pubblicato nel 1963 con il titolo Eichmann a Gerusalemme, sottotitolo “Un rapporto sulla banalità del male”? Vi sono i resoconti che l’autrice pubblicò come corrispondente del settimanale New Yorker delle 120 sedute del processo ad Eichmann (responsabile della sezione IV-B-4 dell’ufficio centrale per la sicurezza del Reich, organo nato dalla fusione, voluta da Himmler, del servizio di sicurezza delle SS con la polizia di sicurezza dello Stato), catturato dal Mossad in Argentina e processato a Gerusalemme tra il 1961 e 1962. Condannato a morte il 15 dicembre del 1961, l’esecuzione ebbe luogo il 31 maggio 1962 per impiccagione. La Arendt si rese conto che il male perpetrato da Eichmann, come dalla maggior parte dei tedeschi che si resero corresponsabili attivamente o passivamente della Shoah, non era dovuto ad un’indole particolarmente maligna quanto piuttosto ad una strana interdipendenza tra una mancanza di idee e il male. Eichmann viene fuori da tutto il resoconto degli interrogatori del processo come un banale burocrate di un regime totalitario, in cui la burocrazia tende a trasformare gli uomini in funzionari e in semplici rotelle dell’apparato amministrativo, cioè tende a disumanizzarli. Eichmann, “a parte la eccezionale diligenza che metteva nel fare carriera, non aveva motivi per essere crudele e anche quella diligenza non era in sé criminosa”. Egli brillava per mancanza di pensiero, ma non era uno stupido, era semplicemente senza idee, “e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a diventare uno dei più grandi criminali di quel tempo.  Non era un uomo comune ma grottesco se, ai piedi della forca, non seppe pensare ad altro che alle cose che nel corso della vita ha sentito ai funerali di altri e dire delle frasi esaltanti, o meglio esaltate, che gli facevano dimenticare la realtà della propria morte. […] Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza di idee possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo”. Per H. Arendt, dunque, pensare previene il male: essa pone alla base del male non solo gli istinti negativi connaturati all’uomo ma soprattutto la mancanza delle idee, cioè la mancanza di quel lavoro della cultura di cui parlavano Freud e Zaltzman. La sentenza lo riconobbe responsabile di crimini contro gli ebrei per averne favorito lo sterminio, non per averli sterminati, facendoli vivere in condizioni tali da accelerarne la morte. La sentenza e il processo furono al centro di varie dispute giuridiche. Ci si trovava di fronte ad un crimine tutto nuovo che non riguardava solo i crimini di guerra o crimini contro la pace, ora il crimine era definibile e definito come “crimine contro l’umanità”, avendo portato al genocidio di un popolo che aveva inoltre molte nazionalità, un crimine che tendeva a cancellare dalla faccia della terra una intera popolazione. Karl Jaspers in una intervista a radio Basilea disse che il tribunale di Gerusalemme doveva rinunziare, dopo aver esaminato le prove, al diritto di pronunziare la sentenza, dichiararsi incompetente e ricorrere all’Onu affinché approntasse un tribunale penale internazionale. La sentenza di un tribunale di una sola nazione avrebbe, secondo lui, sminuito la sua importanza. Il crimine contro l’umanità fu concepito dopo la Seconda Guerra mondiale insieme alla formazione di una comune coscienza internazionale (vedi processo di Norimberga dal novembre 1945 all’ottobre 1946). La carta di Londra dell’agosto del 1945 decise quali crimini contestare agli accusati e tra essi inserì i delitti contro l’umanità: assassinio, sterminio, deportazione e riduzione in schiavitù, commessi a danno di una popolazione civile, prima o durante una guerra, persecuzioni per motivi religiosi, razziali o politici anche se non costituiscono reato all’interno del paese in cui sono stati commessi.

N. Zaltzman si spinge oltre H. Arendt: apporta una critica importante alla nozione di “crimine contro l’umanità” attraverso il confronto tra il lavoro della cultura individuale e la storia collettiva in rapporto al male: per lei questa definizione idealistica sacralizza l’umanità e la mette al di là dei diritti stessi dell’uomo, tende a occultare il fatto che è l’umanità stessa capace di questo crimine. Erigere l’umanità a entità purificata, escludendone l’inumano che invece ne fa parte, serve a preservare l’Io con i suoi ideali evadendo il principio di realtà, mentre lo spirito del male si riassorbe, si rende invisibile ma pericolosamente presente. 

Per mettere a fuoco il concetto freudiano di “lavoro della cultura” nel rapporto dell’uomo col male, è necessaria la rilettura metodica del Disagio della civiltà (1929) poiché, per passare dalla clinica individuale alla clinica sociale e storica, bisogna conoscere le idee di Freud sulla psicologia collettiva. In questo saggio Freud ritiene che la civiltà sia una tappa necessaria per l’umanità ma che essa comporti inevitabilmente un certo grado di rinuncia pulsionale. La civiltà mette un limite all’individuale a favore del sociale. Il tema principale è dunque l’antagonismo tra le esigenze pulsionali dell’individuo e le restrizioni imposte dal vivere in una comunità civile. Il principio di piacere urta con il principio di realtà e la società per costruirsi deve imporre limitazioni, leggi e regole. I divieti del principio di realtà riguardano in parte la libido, l’eros, che viene accettato solo per le parti inibite nella meta, cioè sublimate, e nella fattispecie il piacere derivante dal lavoro intellettuale, formazione sostitutiva del desiderio. Ciò rende indipendenti dal mondo e dagli istinti distruttivi derivati dalla pulsione di morte (Thanatos travalica secondo Freud il rispetto della specie e la minaccia costantemente di distruzione). Il conflitto tra queste due entità comporta la nevrosi. Se questo conflitto non si instaura, se il soggetto non limita i propri istinti individuali in favore della collettività, si produce una psicosi in cui la frattura interna all’individuo viene espulsa all’esterno sotto forma di paranoia, di lotta contro un nemico esterno, di guerra e distruzione.  Egli giunge alla formulazione di un Super Io collettivo, lo ricava per analogia da quello individuale, preso in considerazione questa volta dal punto di vista filogenetico. Ritorna all’orda primigenia e ai fratelli che uccisero il padre: dal rimorso di questa azione è risultata l’ambivalenza verso il padre, amato e odiato allo stesso tempo. E fu proprio Eros a ripristinare l’amore paterno attraverso l’istituzione del Super Io. Senza questo continuo lavoro conflittuale la società è diretta verso il disfacimento, il senso di colpa aumenterà e Thanatos avrà la meglio su Eros. Tale sacrifico individuale potrebbe non bastare, avendo l’uomo conquistato nel tempo strumenti tecnici atti alla sua stessa distruzione. La pulsione di morte presente in parte già in Al di la del principio di piacere (1920) trova la sua sistematizzazione definitiva in questo saggio del 1929. 

N. Zaltzman, nel libro L’esprit du mal, isola nel lavoro di Freud due direzioni opposte dell’analisi e in parte complementari: la prima è la visione della storia dell’umanità che si sradica dalla propria selvaggia e crudele pulsionalità pagando il prezzo di costrizioni restrittive della sessualità e con l’inclinazione conseguente alla nevrosi. Ogni opera di civilizzazione, scalfendo appena questa base naturale, fallisce comunque nello scopo di piegare il nostro psichismo. La seconda è il “lavoro della cultura”, che Freud introdusse posteriormente nelle Nuove conferenze di introduzione alla psicoanalisi (1932) e in quello che è uno dei pilastri del suo testamento, L’uomo Mosè e il Monoteismo (1934-1938). Senza rinunciare al suo pessimismo di fondo, Freud ammette qui la possibilità di un progresso dello spirito, ma nell’individuo e nella misura in cui questo individuo diviene capace di contemplare con lucidità il suo rapporto intimo col male. Così l’individuo, libero, può comprendere come la soddisfazione pulsionale lo conduca su queste frange inquietanti che fanno di lui un nemico della società. Esempio freudiano di grande impatto è quello in cui afferma che non vi è libertà né soddisfazione sessuale in colui che non abbia familiarizzato con l’idea dell’incesto con la madre e la sorella. Dunque questa familiarizzazione è opera del “lavoro della cultura” che l’ha prodotta nello psichismo dell’individuo. Questo lavoro implica un salto trasgressivo, in cui l’individuo scopre il costo della sua eccezione, contro il destino biologico, storico, tragico di cui Il Disagio della civiltà dà la chiave a livello collettivo. N.  Zaltzman vuole coniugare queste due direzioni dell’analisi nel punto in cui la programmazione della specie include la personale de-programmazione attraverso il lavoro della cultura, processo di elaborazione intrapsichico e interindividuale dell’esperienza di vita. Prendendo atto del fatto che, nella visione contemporanea del male, “l’angoscia e la cura dell’angoscia hanno sopravanzato il pensiero del male”, ella riconosce un primo punto di questo lavoro della cultura nell’appropriazione del male da parte dell’uomo, solo, ridotto ai propri mezzi e che non può più rimettersi al diavolo o ad un’altra istanza trascendentale. Ma dove situare il male e i suoi effetti psichici specifici? A fianco della pulsione di morte come una de-oggettivazione i cui effetti sono il non senso totale. Questa è anche la posizione di Green. Per trasformare la pulsionalità bruta del male occorre la partecipazione del giudizio morale. Senza il giudizio morale il godimento pulsionale puro ha la meglio e si ha la perdita di senso e il caos.  Il poter vedere e riconoscere il male è pungolo per il lavoro della cultura e sorgente di ispirazione artistica: Le anime morte di Gogol e I fratelli Karamazov di Dostoevskij lo dimostrano. 

Guy Rosolato (Pour une psychanalyse exploratrice dans la culture, PUF,1993) ha formulato la nozione di “psicosi collettiva” attraverso uno studio psicoanalitico delle arti visuali e letterarie, della musica,  miti, religioni e strutture sociali - tutti prodotti del lavoro della cultura -, volto all'esplorazione intima del male in sé stessi. Zaltzman richiama alla nostra memoria quella parte del lavoro freudiano sulla pulsione di morte e sulla sua soluzione in fondo piena di speranza: il lavoro della cultura, di ognuno, sul male, è una lotta vitale, e la coscienza paradossale di una inumana umanità, senza la rimozione collettiva, non ci farà distogliere lo sguardo dalla angosciante e crudele realtà: pensiero trasgressivo e libero, sia nella lotta di ognuno sia in una psicoanalisi sviluppata con rigore ma libera in tutte le sue potenzialità. Aue chiama la sua ferita, quel buco in testa subito durante l’assedio di Stalingrado, “occhio pineale". L'occhio pineale è quello che permetteva ai primi vertebrati marini e agli anfibi di distinguere la luce dal buio. La ghiandola pineale era per Descartes la sede dell’anima razionale; il terzo occhio di Aue ci ricorda l’occhio in più di Edipo nel poema di Hölderlin “En bleu adorable” (Bibliothèque La Pleiade) e “Edipo” rappresenta la tragedia della conoscenza, del voler sapere. Intravediamo qui il lavoro delle idee, il lavoro della cultura, che l’uomo fatica a conquistare; oppure, al contrario, possiamo pensare all’abisso di una neoformazione regressiva che sempre, in ogni momento e in ogni epoca, può sopraffarci e sfuggire al controllo.

(Mariangela Pierantozzi)

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