Testi di psicoanalisi

Pandemia e soggettività: tra catastrofe e trascendimento

Angela Peduto

L'articolo è stato inizialmente pubblicato sulla rivista Gli Argonauti Psicoanalisi e società, anno XXXXIV, n. 164:15-28, Padova University Press 2022

Premessa

Poco più di due anni ci separano dall’inizio della pandemia: una crisi che ha sconvolto i nostri punti di riferimento abituali e ci ha confrontati con un trauma collettivo le cui conseguenze psicopatologiche i clinici vedono manifestarsi da mesi in tutta la loro gravità.

Ogni evenienza traumatica obbliga alla ricerca di senso: ma quale senso dare a un’esperienza così inaudita? Forze individuali e collettive si muovono magmaticamente all’ombra di mutamenti sociali, economici, politici di cui avvertiamo l’enorme portata ma la cui direzione è del tutto indefinita e incerta. E intanto la guerra scoppiata all’est dell’Europa sgretola impietosamente le nostre illusioni di pace duratura, peraltro sostenute da democrazie sempre più vacillanti.  

Indubbiamente la prospettiva da cui si muove lo psicoanalista nell’intimità, affettività e alterità della seduta è ben diversa da quella che gli si offre nel momento in cui si rivolge a temi di questa portata. Tuttavia il pensiero psicoanalitico, nella misura in cui si occupa della vita psichica e dei modi di soggettivarsi dell’individuo, è portato ed è tenuto a riflettere sugli effetti soggettivi dell’esperienza e sulla posizione del soggetto rispetto ad essa: se oggi l’esperienza cruciale, la prova che è l’orizzonte recente e forse futuro delle nostre esistenze, è la pandemia, essa esige di essere interrogata, pur nella provvisorietà delle nostre riflessioni.

L’altro, tra estraneità e familiarità

Tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo del 2020 una pandemia investe l’umanità. Un virus il cui diametro è 600 volte inferiore al diametro di un capello, un grumo invisibile di materiale genetico fatto di un singolo filamento di RNA, molto simile al virus della SARS, la prima epidemia del millennio che nel 2003 si diffuse dalla Cina verso Hong Kong e a quello della MERS, seconda epidemia del millennio, che nel 2013 si diffuse in Medio Oriente, ebbene questo virus ferma il mondo intero anziché arrestarsi come i precedenti ai confini dell’occidente. 

Le prescrizioni sono tanto semplici quanto inumane, esattamente antitetiche alla natura sociale dell’uomo: nessuna vicinanza, nessun contatto, nessuna comunità. 

Da un giorno all’altro, confusi, disorientati, smarriti, entriamo in un’esperienza inaudita: smettiamo di abbracciare i nostri bambini, i nostri vecchi, i figli, gli amici. Cominciamo a diffidare degli incontri e degli slanci spontanei verso l’altro. Rinunciamo rapidamente a stringere le mani.

Rinunciamo ai piccoli gesti di tenerezza, prossimità e amicizia che accompagnano i nostri scambi umani. Rapidamente si impone una nuova grammatica delle relazioni, si disegna una nuova geografia dei confini tra sé e l’altro, un nuovo modo di essere con l’altro. Ci ritroviamo divisi. Ci scopriamo smembrati. Nel nostro esilio, che sia la casa, la città o la nazione, diventiamo improvvisamente e inaspettatamente partecipi della solitudine e derelizione del migrante, colui che per eccellenza è solitario, gettato in un mondo sconosciuto e ostile. 

Giorno dopo giorno il virus scompone e dissolve il legame, sempre fragile, tra gli esseri umani. L’ombra del sospetto e della minaccia oscura ogni incontro con l’altro, per quanto prossimo, per quanto amato. La minaccia incombe su ogni rapporto umano. Il virus semina la diffidenza nel cuore stesso dell’intimità familiare, sconvolge i legami generazionali, caricando i più giovani - perfino i bambini - del fardello di proteggere i vecchi e gli adulti, segno di una crisi generazionale senza precedenti. 

Maggio 2020: una paziente, la cui figlia è rimasta bloccata all’estero durante i mesi più selvaggi del contagio, racconta. “L’aeroporto era deserto. C’era un grande silenzio. Tutto era vuoto, assurdamente vuoto. Eravamo in pochissimi ad aspettare qualcuno. La porta si è aperta e lei è comparsa. Pallida, smagrita, stanca. Ho aspettato che si avvicinasse senza potermi muovere. Avevo paura. Non ci siamo abbracciate. Ho sentito con chiarezza la paura salirmi dentro, la paura che lei potesse essere portatrice di quella particella di morte. In quel momento ho avuto paura di lei …  e nel momento stesso in cui l’ho compreso ho sentito che qualcosa di inumano si era materializzato in me”.

Nel 1895 Freud invia all’amico Fliess il Progetto di una psicologia; questo manoscritto sarà abbandonato in un cassetto e pubblicato postumo perché Freud considererà fallito il tentativo di spiegazione che ha portato avanti.  Nel Progetto Freud tenta di tradurre in termini fisico-quantitativi le osservazioni che intanto raccoglie in campo psicologico. Siamo ancora in era prepsicoanalitica e Freud usa uno schema interpretativo e una terminologia che discendono interamente dalla fisiologia cerebrale; vero è che, accanto a questo, egli comincia a pensare la nascita del soggetto alla luce dell’esperienza di soddisfacimento e della relazione con l’oggetto - il primo altro, la madre - attraverso il quale questo soddisfacimento è ottenuto. 

La specificità della specie umana è che il piccolo dell’uomo attraversa un lunghissimo periodo di svezzamento prima di avviarsi all’autosufficienza: la sua incompletezza e la sua impotenza originarie necessitano di un “aiuto esterno”. È attraverso l’incontro con un “essere umano prossimo [1]” - Freud lo chiama Nebenmensch - che passa il soddisfacimento del bisogno ma anche la prima apprensione della realtà. Questo Nebenmensch, questo primo Altro reale, questo oggetto primordiale, ha con il soggetto il rapporto più intimo ma è anche la prima realtà esterna, estranea; è il primo oggetto di soddisfacimento, la prima potenza, la prima forza che soccorre, accorrendo al grido del bambino e placando la sua fame, ma è anche l’oggetto che può assentarsi, sottrarsi, rifiutare l’aiuto: in quanto tale è anche “il primo oggetto ostile”. Al principio, là dove per ciascuno di noi affonda l’origine della vita e dell’umanizzazione, intrecciata col registro del piacere, del soddisfacimento, del soccorso, si trova una dimensione di alterità incomprensibile che verrà elaborata fin dai primi movimenti psichici come male, esclusione, enigma [2].

Nella sua essenza il Nebenmensch ha qualcosa di contraddittorio: indica una presenza simile ma non identica, vicina - e perciò riconoscibile - ma anche estranea - e perciò imprevedibile. Ha due volti, uno familiare e uno indecifrabile: il primo è a mia immagine, lo comprendo e mi comprende, è il mio simile. Ma al di là oscuramente si profila qualcos’altro: uno scarto, una differenza, una non somiglianza; qualcosa che si declina come enigmatica estraneità dell’altro e si pone sotto il segno dell’arbitrario, dell’imprevedibile, del non proprio: fin dagli inizi nell’altro, il più prossimo, il più familiare, giace un fondo minaccioso e inquietante di estraneità. Questa parte non riconoscibile Freud la designa come Sache, Cosa, inaugurando tutta una dialettica tra familiarità ed estraneità, tra prossimità e separazione. 

Ora, il virus, agendo come una sorta di rivelatore dell’inconscio, sembra aver avuto la capacità di strappare alle profondità inaccessibili dell’origine e portare verso la superficie una traccia di questo aspetto estraneo e minaccioso dell’altro [3]. L’estraneo, l’ostile, ha deformato i lineamenti familiari dell’altro, ha sdoppiato e corrotto il familiare e, così facendo, ha aperto faglie più o meno profonde nell’esperienza del “noi”: “Il virus, ha scritto con una bella espressione Pierre Laurent Assoun, - affecte e infecte – intacca e infetta - il legame sociale [4]”

Quali tracce ha lasciato e lascerà nella nostra vita interiore e nelle nostre relazioni questa esperienza di alterità inquietante annidata nel familiare? Quali rimaneggiamenti comporterà nelle forme personali e comunitarie delle nostre esistenze? Cederemo all’angoscia che emana dall’altro, facendo della posizione fobica uno stile di vita, tanto più inevitabile quanto più le misure per far fronte alla crisi sanitaria ci hanno abituati ad essa e i nuovi assetti di studio e di lavoro la incoraggiano? Che ne è, che ne sarà di quel sottofondo di eros - di erotismo sublimato - che colorava le nostre vite pur nella progressiva dematerializzazione del mondo e che il distanziamento ha condannato come mortifero, avviando una desessualizzazione su larga scala?

Le angosce che il virus ha attivato permettono di scrivere un’altra storia, accanto a quella scritta dalla medicina e dalla biologia [5]: invisibile, non localizzabile, onnipresente, nascosto nella segretezza del corpo – il corpo proprio come quello altrui -, è tutto un immaginario persecutorio che si risveglia, proiettato all’esterno di sé o, al contrario, imprigionato nello spazio interiore: esplosione fobica nel primo caso, nel secondo vissuti di propagazione incontrollabile dell’estraneo - la Cosa irrappresentabile - nell’intimità del proprio corpo, fino allo sviluppo di sintomi confinanti col delirio. 

Questo immaginario si sviluppa intorno a un doppio asse: intrusione ed estraneità. Ancora P. L. Assoun:

“È un nemico intimo, si scava una via nell’intimità antropica. Partecipa del vivente senza esserlo (in quanto manca di autonomia), si completa per mezzo del vivente, in una sorta di commensalismo. Infettare è il suo modo di vivere, di amare il vivente più completo di lui. È un erotomane del campo del vivente […] devono vivere insieme, lui e la cellula ospite, c’è in questo una necessità. L’infezione è in qualche modo una forma di affezione rovinosa [6]”.

Un’affezione che in molti soggetti clinicamente guariti continua a prolungarsi sintomaticamente al di là dell’infezione clinica, generando forme talmente esitanti tra mente e corpo da essere difficilmente decifrabili: a riprova che il virus ha infettato le menti, oltre che i corpi. (A riprova, per inciso, di ciò che la medicina del terzo millennio cerca ostinatamente di dimenticare: che la malattia annoda sempre strettamente corpo e affetti, fantasmi e discorso, coscienza e inconscio). 

Insieme al virus è la morte che ha fatto irruzione nelle nostre vite e vi si è insediata. La paura di morire, che le nostre società hanno da lungo tempo espulsa, è diventata compagna dei giorni e, spesso, delle notti. Ogni ondata di contagi si è accompagnata ad un’ondata di stanchezza, di ripiegamento, di sconforto. Oltre un certo limite il silenzio si insinua nelle relazioni e nella vita psichica e le erode, salvo prendere la via rumorosa del disordine e della violenza. La crisi pandemica è una crisi intima e sociale. Un trauma individuale e collettivo: una catastrofe nel cuore dell’umano con la rivelazione del tragico che essa comporta.

La dimensione di estraneità nel familiare, nel più vicino, tornerà nel percorso freudiano con la nozione di Unheimliche, quell’effetto di spaesamento angoscioso che Freud indaga nel suo celebre saggio del 1919 [7] e che deriva dal coesistere di dimensioni apertamente contraddittorie: il noto, il domestico, heimlich, trapassa nel suo contrario e diventa unheimlich, proiettandoci in un punto di straniante incertezza tra ciò che è familiare e ciò che è straniero e minaccioso. Ciò che era rassicurante nella sua familiarità, ciò che era profondamente intimo diventa strano e inquietante, al punto che la mia paziente può sentire di entrare in una regione “inumana” dell’esperienza.

Il problema sarà allora cercare i modi per accogliere e integrare questa esperienza del perturbante - questo Unheimliche che è penetrato nelle nostre vite e ha dato loro il colore livido dell’angoscia. L’Unheimliche segnala per Freud l’emergenza nel reale di qualcosa che doveva rimanere segreto, rivela al soggetto un sapere conosciuto ma interdetto: ebbene, nel contesto di cui ci stiamo occupando, ciò che si rivela non è forse ciò che sappiamo ma a cui non vogliamo credere, vale a dire il nostro statuto di mortali? Il rischio di morte vicino, presente ovunque senza poter essere né localizzato né controllato, che si materializza nel nostro corpo, che incombe su tutto il pianeta, sull’intera specie umana, è qualcosa di irrappresentabile. È un impensabile: qualcosa che cerca un senso senza trovarlo. 

Segno inequivocabile della nostra mortalità, il virus addita la morte che ci accomuna tutti e ci incalza, in agguato ad ogni angolo di strada … reale senza volto e senza senso pronto a ghermirci dal fondo opaco della vita. O dal fondo sconosciuto e inaccessibile di noi stessi, perché lì segretamente e silenziosamente opera e agisce: non fuori di noi ma dentro.

In questa chiave mi pare di poter comprendere quanto afferma Julia Kristeva: 

“È l’abissale incertezza delle frontiere tra la vita e la morte che ci colpisce, dal momento che il virus non è esterno, ma risiede nel tessuto genetico umano. Lo sviluppo della tecnica e la nostra incapacità di controllarla sono tali che, se questo virus sparirà, altri faranno la loro comparsa. Come prepararci a vivere con queste minacce presenti fuori e dentro, all’esterno e all’interno, tra intimità ed estimità [8]? Esse coabitano con noi da millenni ma ora diventano il sintomo della nostra civiltà e colpiscono con l’incertezza quelli che chiamiamo i ‘nostri valori’ [9]”.

L’incertezza è il grande perturbatore di questo tempo storico, spaesamento angoscioso cui ci destina il nostro mondo senza Dio. Un tempo le epidemie erano la punizione inflitta dagli dei: erano un nodo fatto di colpa e di vendetta. È dalla pestilenza di Tebe - loimòs (λοιμός) - che prende le mosse l’indagine di Edipo. E sulla cima di Castel S. Angelo a Roma, immobile e solenne, l’arcangelo Michele ancora ricorda agli uomini la fine della peste di Roma, nel 590 d.C., per volontà di Dio.

Quanto a noi, senza un divino a cui appellarci che ci punisca o ci redima, quale senso sapremo dare? Le porte serrate delle chiese e gli ospedali traboccanti di un passato vicinissimo sono il segno della nostra modernità.

Pandemia e fragilità dell’umano: la nozione diHilflosigkeit

“Una solitudine allo stato chimicamente puro, totale, estrema … che nessuno era preparato a vivere, nemmeno chi viveva da solo. Mi sono chiesta che cosa potesse provocare. Penso oggi che faccia risalire a galla faglie, debolezze, dolori o anche forze che dormivano dentro di noi [10]“.

È quello che i clinici osservano da mesi: la pandemia è entrata in risonanza con le zone di alterità interiore e ne è diventata la cassa di risonanza, le ha fatte emergere come da una faglia aperta, portando alla luce ciò che fino a quel momento stava sommerso, acquattato nei recessi del sé o reso impercettibile dal rumore assordante della vita quotidiana: dolori che attendevano un’ospitalità interiore, reviviscenze di memorie infantili, fantasmi inconciliati, brandelli di memorie familiari sepolte che esigevano di essere riesumati e rielaborati. Ogni crisi rivela e riattiva per ciascuno di noi i fondamenti del nostro essere, i traumatismi antichi e gli affetti disconosciuti, talvolta accelerando ciò che era già in atto, talvolta offrendo l’occasione per un lavoro psichico di integrazione.

La solitudine così pura, di cui parla Sylvie Germain, la solitudine così estrema che abbiamo sperimentato nei mesi della pandemia era tuttavia già lì, covava come una scintilla sotto la cenere degli individualismi e sotto l’accelerazione delle nostre società, aspettando di prendere fuoco.

Era la solitudine dell’iperconnessione, dell’essere soli nell’illusione di essere insieme agli altri; era la solitudine dell’”homo neuroeconomicus”, catturato nelle maglie sempre più strette della produzione e della tecnica, “exilé de l’intime” - esiliato dall’intimità; era la solitudine di una giovane generazione ormai avvezza allo sradicamento e all’assenza di futuro. La solitudine si è mostrata col suo vero volto: angoscia del vuoto, paura del crollo, vissuti agonici ai limiti del dicibile, vissuti di impotenza destinati a esplodere, ribaltandosi in forme d’odio e di violenza, oppure a implodere, spingendosi fino ai bordi del suicidio e della morte. 

È quanto i clinici continuano ad ascoltare: è il lamento monotono,  inconsolabile e disperato - “non ce la faccio, non ce la faccio, non ce la faccio” – di un’adolescente, tutto spostato e attualizzato come angoscia di fallimento scolastico; o il gesto - scaturito dalla certezza dell’apocalisse - della giovane donna che raccoglieva e accumulava di nascosto foglie secche e rami, convinta che non ci sarebbe più stato modo per scaldarsi; o l’esperienza di catastrofe interiore, di essere senza appigli, perduti nel nulla, di altri pazienti. Giovani, soprattutto, che hanno pagato costi altissimi e la cui sofferenza oggi è diffusa. Smarriti in un tempo sospeso e in un mondo irriconoscibile oppure costretti a ripiegare nel sistema familiare - con quanto di conflittualità più o meno violenta può esservi -, congelando i propri processi di crescita. 

Hilflosigkeit è in tedesco una parola corrente, che in Freud assume un senso specifico e diventa una sorta di fondazione del soggetto. Come molte parole tedesche è un composto:

- helfen (aiutare, essere a fianco, sostenere, guarire, salvare)

- los (come aggettivo vuol dire staccato, slegato, libero; come suffisso vuol dire senza, privo di)) 

- keit sostantifica l’aggettivo hilflos

In italiano traduciamo con ‘situazione di impotenza’. In francese è detresse, un sentimento di impotenza, desolazione, disperazione, indigenza, sconforto. Freud usa questo termine per indicare lo stato di impotenza del neonato, da cui deriva la dipendenza totale del bambino dalla madre e l’onnipotenza di quest’ultima. Siamo ancora una volta all’alba della vita, là dove inizia la strutturazione dello psichismo: come si origina un soggetto? Come avviene l’umanizzazione? Sono le domande che sottendono la costruzione freudiana articolata intorno a questa nozione. 

Freud collega esplicitamente questa condizione originaria di impotenza alla prematurazione dell’essere umano: 

“L’esistenza intrauterina dell’essere umano appare, in confronto a quella della maggioranza degli animali, relativamente più breve; esso viene mandato al mondo più incompleto di loro. L’influenza del mondo esterno reale viene perciò rafforzata, […], i pericoli del mondo esterno aumentano in significato, e il valore dell’oggetto, che solo può proteggere contro questi pericoli e sostituire la vita intrauterina perduta, si accresce enormemente [12]”.

Ogni essere umano attraversa questa esperienza: l’Hilflosigkeit è il passaggio obbligato che fonda il soggetto votandolo a costituirsi interamente nella relazione con l’altro: dolore originario che lo spinge verso l’altro, esperienza elementare e primigenia destinata ad essere riattraversata nelle grandi prove che la vita impone [13].  L’enigma della morte, le catastrofi naturali, le malattie, precipitano gli uomini nella loro Hilflosigkeit e non a caso Freud fa di essa il prototipo di ogni situazione traumatica. In sogno accade talvolta di incontrarla. Un vecchio uomo, in balia di una malattia rapida e incurabile e ormai prossimo alla morte, racconta alla figlia un sogno singolare: ha sognato di essere un bambino piccolo, completamente nudo. Quale modo più commovente di rappresentare ciò di cui parliamo? Inerme e senza difese, nel presentimento della fine, egli riattraversa in sogno l’origine.

Nel 1983 Ilse e Robert Barande riprendono in un lungo e importante lavoro sulla perversione[14]la nozione di neotenia, tratta dagli studi di Louis Bolk (1926). Anatomista olandese, Bolk ebbe un’intuizione straordinaria che si può riassumere nella formula “il bambino è il padre dell’uomo [15]”: con questa formula egli intende dire che il progresso evolutivo non è la conseguenza di un continuo perfezionamento delle forme adulte, ma l’esito di un’infanzia conservata. Nell’anatomia dell’uomo si osservano caratteri che l’uomo ha in comune con i primati allo stato fetale: nei primati sono caratteri transitori, nell’uomo diventano permanenti. 

"Ciò che nel processo evolutivo delle scimmie era uno stadio di passaggio, nell'uomo è diventato lo stadio finale della forma. Per questo motivo il feto delle scimmie inferiori, il feto e il neonato degli antropomorfi hanno un aspetto molto simile all'uomo, non perché le scimmie - come sarebbe lecito dedurre da una coerente applicazione della fondamentale legge biogenetica - siano derivate da un progenitore con un aspetto più umano, ma perché l'uomo conserva il tipo fetale fino alla fine del suo sviluppo corporeo. […] Nel corso dello sviluppo storico la forma adulta acquisì un'impronta fetale sempre più marcata, essa fu - vorrei definirla - fetalizzata. L'ominizzazione della forma che si realizzava storicamente era essenzialmente una fetalizzazione. Questo è il principio di ciò che vorrei chiamare ipotesi della fetalizzazione [16]".

Bolk estese questa intuizione dall’anatomia all’intero processo di ominazione. Nell’uomo, a partire dal concepimento e per tutta la vita, la neotenia si esprime come ritardo, come differimento di maturazione. In questo consiste per lui l’essenza dell’uomo e questo determina la lentezza della sua maturazione. 

Le conseguenze sono enormi: a un’infanzia cronica corrisponde un cronico disadattamento a cui l’uomo risponde con un prolungato periodo di accudimento, un’infanzia prolungata e un lungo rapporto di dipendenza dagli adulti che, attraverso una serie di strutture sociali, rende lentamente l’individuo abile alla vita adulta. La cultura, nel senso più ampio del termine, è essa stessa una compensazione innata delle lacune della nostra specie: “la neotenia, scrive Enzo Melandri, è il veicolo di ogni rivoluzione [17]”.

Riprese dai Barande, le tesi di Bolk vengono incrociate in modo originale con alcune tesi di Freud. Del loro testo interessa qui sottolineare un solo punto: il comune fondo umano è la nostra condizione di immaturità, che persiste per tutta la vita. Fonte della nostra inquietudine, del nostro appetito di eccitazioni, della nostra tendenza alla sottomissione. E sfondo di fragilità consustanziale alla condizione umana. 

Se mettiamo in risonanza i concetti di cui ho appena parlato, è evidente che l’Hilflosigkeit, la condizione desolata dell’origine, coincide col panico del neotene: epifania della nostra immaturità, della nostra miseria fondatrice, dell’incompiutezza che ci abita [18]. 

La traversata della solitudine e dell’impotenza sepolte dentro di noi può avere esiti diversi, dalle sublimazioni più riuscite alle catastrofi identitarie, avviando in questo caso un crollo che ha a che fare con la perdita di ogni riferimento, con una discesa agli inferi senza ritorno. I sogni talvolta ne parlano, ospitando allora visioni apocalittiche che sfiorano quei vissuti di fine del mondo così efficacemente descritti dalla grande psichiatria fenomenologica del secolo passato: “Devo andare in un luogo che conosco bene, ma mi ritrovo in luoghi irriconoscibili. Tutto è sporco, desolato, in rovina, come in certe città distrutte dalla guerra. Mi perdo, non mi ritrovo più. Vago in questa distruzione. Mi sveglio e mi accade di non ricordare i nomi dei luoghi, delle città che ho visto, delle persone che ho incontrato, dei film che ho amato. Allora c’è solo silenzio e, come fossi malata di demenza, non so più di cosa parlare”. 

Tangibile o indistinto, è comunque un discorso del trauma che oggi si impone ai clinici. Lo choc subito dall’intera popolazione mondiale e la difficoltà di trovare circuiti simbolici capaci di elaborarlo hanno generato uno spaventoso cortocircuito con la condizione di precarietà e desolazione iniziale delle nostre esistenze e con i traumatismi successivi. Una situazione è traumatica quando eccede le possibilità di elaborazione del soggetto: preso alla sprovvista, egli si ritrova senza soccorso e senza risorse davanti all’irruzione di un reale debordante al quale non riesce a dare senso. 

Il discorso del trauma si è manifestato secondo forme e traiettorie differenti. Ora ha imboccato la via della dissoluzione di sé, con angosce di morte, di perdita, di vuoto. Ora ha preso la via della minaccia e della persecuzione, con un restringimento sempre più fobico del campo esistenziale. Alcuni hanno saputo sublimare; altri si sono gettati nella negazione e nel rischio. A livello individuale e collettivo abbiamo visto prevalere ora l’agitazione maniacale ora l’inerzia depressiva. Ciascuno ha fatto appello alle proprie risorse. Ciascuno ha attraversato e attraversa questo tempo storico secondo la propria soggettività, la propria storia, i propri fantasmi personali e familiari.

Certo è che la pandemia ci ha posti di fronte a qualcosa di assolutamente unico: perché è unico nella storia dell’umanità che il mondo intero abbia lo stesso avversario invisibile, che le grandi città siano diventate tutte mute e deserte, che l’ondata di morte abbia colpito nello stesso tempo tutto il pianeta. Il virus ha rivelato in modo brutale quel sentimento di vulnerabilità che è condizione ordinaria e originaria della vita, struttura condivisa da tutti gli esseri umani, fondamento della nostra comune umanità e che le nostre società hanno continuato a occultare sotto l’imperativo dell’individualismo performante e delle illusioni progressiste.

Cosa può fare la psicoanalisi davanti a una simile prova? Reclamare la centralità dell’umano. Riaffermare il valore della parola. Sostenere la traversata del tragico che questa prova comporta e richiede. Aprire al tragico, che è in noi, che è il nostro fondo comune, vie di elaborazione e di integrazione. Accettare la sfida del tragico e, accogliendo la paura, l’agonia, la disintegrazione psichica, contribuire a trasformare il trauma in esperienza interiore.

Sappiamo bene che la vita, lungi dal potersi ridurre al solo fatto biologico, è ricerca di senso, spinta costante alla ricostruzione di sé, perfino e anche in prossimità della morte. La vita è passione e spasimo di creazione. Razionalismo e tecnicismo eletti a sistema e regole di vita hanno progressivamente impoverito le vie che aiutano l’uomo a cercare un senso nel tempo dell’insensatezza, nel tempo scandito dall’incertezza, dalla precarietà e dalla solitudine. E dall’indigenza degli strumenti simbolici. La cultura, l’arte, la parola vivente scambiata, sostengono quel lavoro psichico che permette al soggetto senza soccorso, hilflos, di riparare il Sé e il mondo, di rinnovare e ricostruire la capacità di pensare, sentire, creare. Se la vita è ridotta al solo fatto biologico precipita nel semplice adattamento, del quale D. Winnicott, lo psicoanalista che ha fatto del gioco il centro vitale del Sé, ha sottolineato tutti i pericoli.

Ancora J. Kristeva: 

“Vi propongo di pensare che questo tempo [il tempo biblico dell’erranza senza fine] è anche quello dell’era planetaria nella quale siamo entrati dopo i tempi moderni. Un tempo nel quale il necessario sradicamento non potrà acquietarsi se non nell’esigenza estrema di pensiero, immaginazione e cultura, di cui fanno parte la scoperta e la pratica attuale della psicoanalisi: sempre al di là della separazione e della perdita, sempre in viaggio fuori di sé verso nuovi sconosciuti legami, da reinventare con gli altri [19]”.

Oggi siamo nell’après coup della pandemia: tempo secondo dal punto di vista psichico e sociale: il mondo intero è in sofferenza e nessuno di noi può sottrarsi al compito etico della cura. Ciascuno dal proprio posto, secondo il proprio cammino e la propria vocazione: perché la psicoanalisi è una via, ma ce ne sono altre.

Eros-Thanatos: destini della pandemia

Negli anni tetri della Grande Guerra Freud preparò la rivoluzione teorica che l’avrebbe portato verso le sue concezioni più pessimistiche e sconcertanti. Al di là del principio di piacere, nel 1920, segnò questo passaggio e spostò dalla sessualità alla pulsione di morte il centro di gravità della sua speculazione. 

Se l’idea della pulsione di morte è diventata la base da cui pensare l’aggressività e la distruttività dell’uomo, rinchiuderla in un semplice e originario istinto di aggressione rischia di far perdere di vista l’originalità dell’invenzione freudiana: mai Freud la pensò dissociata dalla sua antagonista, la pulsione di vita. L’ipotesi della pulsione di morte va molto al di là della semplice formulazione hobbesiana dell’homo homini lupus: il suo scopo è dissolvere legami e in questo modo distruggere le cose, laddove la pulsione di vita vuole “stabilire unità sempre più vaste [20]” e mantenerle in vita, dunque legare. Il conflitto tra Eros e Thanatos non può essere pensato se non come conflitto tra la forza simbolica del legame e la forza diabolica del caos, tra la forza che unisce e quella che disaggrega, disarticola, frantuma le costruzioni della prima. 

A non imprigionarla nelle figure dell’aggressività o della distruttività originaria si afferra il carattere specifico di questa pulsione, il suo essere “un processo, una potenza: potenza di slegamento, di dislocazione, di rottura, di decomposizione [21]”: potenza di chiusura e cieca ripetizione, che perennemente si inscrive nella relazione complementare con la pulsione di vita e che perciò sempre erode e minaccia i fenomeni della vita. Sempre il pericolo che incombe sulla vita individuale e collettiva è la disaggregazione, la perdita della capacità di stabilire legami, che si tratti di legami simbolici, di relazioni tra parti del sé, di relazioni tra il sé e l’altro. In Psicologia delle Masse e analisi dell’Io Freud fa del panico l’elemento che disaggrega il legame sociale. In preda al panico: “[…] ognuno si preoccupa soltanto per sé medesimo senza tener conto degli altri. I legami reciproci hanno cessato di esistere e si scatena una paura sconfinata, irragionevole [22]”. La spiegazione, prosegue Freud, non dev’essere cercata nella grandezza del pericolo, bensì nel venir meno dei legami affettivi che fino a quel momento tenevano insieme la massa. L’individuo si ritrova in presenza di una minaccia “originaria”, quella che “la struttura libidica [la coesione assicurata dai legami affettivi] aveva l’obiettivo di scongiurare”. L’ipotesi di Myriam Revault d’Allonnes, filosofa, è che Freud faccia del panico il principio di una socialità desocializzante: ci troveremmo qui rinviati all’abisso della pulsione di morte che, nel collettivo come nell’individuo, lavora in silenzio fino al momento in cui si manifesta come potenza di slegamento.

“Freud apre un paradosso intrattabile, che cade al di fuori dei topoi organizzatori della filosofia politica cosiddetta ‘classica’: il paradosso di una socialità da subito inscritta nell’orizzonte di una dislocazione, di un disordine radicale e fondatore. La figura della pluralità originaria è il panico. Tutto il problema è sapere come il lavoro del politico può operare la messa in senso e la messa in forma di questa pericolosità della cosa politica, come può operare tra terrore e pietà, tra fusione e dislocazione, tra legame e slegamento [23]”.

L’ipotesi freudiana della pulsione di morte impedisce ogni forma di pensiero basato sull’alternativa tra qualcosa e il suo opposto. “La sua fecondità deriva dal fatto che essa rinvia non solamente all’idea di una precarietà essenziale della cultura ma alla necessità di elaborare una riflessione sul vivere insieme degli uomini a partire da una antropologia della fallibilità, una antropologia dello zoppicare [24]”.

O della claudicanza.

È stato Haim Baharier, grande studioso di ermeneutica biblica e pensiero ebraico, matematico di formazione diventato psicoanalista, allievo dei filosofi Emmanuel Levinas e Léon Askenazi, a inventare la parola claudicanza. Nel corso di un’intervista gli viene chiesto che cos’è: 

"Di solito è lo zoppicare. Da bambino avevo scarpe che mi stringevano provocando una forma di claudicanza", mi dice Haim.

- Possiamo dunque immaginare la claudicanza come un difetto del nostro corpo? Una condizione di cui vergognarsi?

"Non è in questo senso che va intesa. Essa ci mette di fronte alla nostra fragilità. Ci ridimensiona. Ma al tempo stesso ci indica un percorso. Lo si legge nella Torah e in particolare nella Genesi, dove è chiaro che la claudicanza non rinvia all'imperfezione ma alla perfettibilità."

- Solo se hai difetti puoi sperare di correggerli?

"È certamente un aspetto ma c'è nella claudicanza un'idea più profonda che rinvia al nostro essere incompiuti. Essa rivela la coscienza della nostra finitezza. Del nostro limite. Si trattò di qualcosa che appresi da bambino, dapprima confusamente e poi in maniera sempre più chiara [25]”.

Freud, ebreo, cita lo zoppicare in Al di là del principio di piacere riportando proprio un versetto delle Scritture: “Zoppicare, dicono le Scritture, non è peccato”. Potremmo dire che 

“il carattere incerto della speculazione e la claudicanza del percorso teorico […] si accordano con l’incertezza antropologica che il dualismo pulsionale implica. La complementarità delle pulsioni di morte e delle pulsioni di vita impedisce le antinomie, ostacola la restaurazione di un’unità senza divisioni e senza conflitti, si oppone ad ogni superamento dialettico: dà luogo ad una logica agonale [26]".

La pandemia ha spalancato le porte alla morte: quando questo accade la morte irrompe in una società e diventa un elemento tanto più traumatico quanto meno quella società era preparata ad accoglierla. Una pandemia svela la potenza di morte che agisce nella vita, individuale e collettiva. Al di là delle morti prodotte dal virus, in aggiunta ad esse, lavora questa forza silenziosa e smisurata che Freud, da un certo momento in poi, non smise di additare nonostante le resistenze di tutti i suoi seguaci.  Opponendoci ad essa, sapremo sostenere la forza della vita? La paura del virus è diventata paura dell’altro, cioè spinta di desocializzazione, di slegamento. La paura genera odio: odio verso l’altro, che diventa pericoloso, odio verso lo Stato, che impone le sue decisioni, odio verso un altro gruppo sociale, che minaccia il proprio bene. Ogni crisi genera o amplifica una spinta autoritaria. La nostra democrazia, che da lungo tempo si immiserisce sotto il giogo dei poteri finanziari e tecnici, sarà in grado di ritrovare i suoi diritti e rifondarsi [27]? Oggi più che mai la preoccupazione politica dovrebbe essere di tenere insieme ciò che si scompone, legare ciò che si frattura.

Il legame sociale è fragile, abitato e assillato dall’ostilità reciproca, dalla diffidenza, dalla paura.  Un lavoro di morte è in gioco mentre lottiamo per la vita, annidato nel cuore stesso di questa lotta. Ne è testimonianza il caos che si propaga con la stessa virulenza del virus. Ne è testimonianza la violenza che pericolosamente attraversa la società e apre al suo interno spaccature sempre più profonde e cupe. Ne è testimonianza il montare della follia omicida che si abbatte sulle donne e della donna - del femminile - colpisce l’alterità.

In un mondo dove la totale interdipendenza degli uni dagli altri è apparsa con chiarezza assoluta, sembra oggi prevalere, al contrario, l’identificazione a gruppi ristretti, cosicché l’immagine del “noi” che circola appare del tutto sfasata e incoerente con quanto il virus ha rivelato e la cui coscienza sembra pericolosamente svanire: la realtà di un pianeta dove tutto - umano e non umano (virus compresi) -, si tiene insieme grazie ad una fitta e inestricabile rete di legami. Se la prima ondata ha risvegliato moti di solidarietà e una tendenza a creare unità, nazionali e sovranazionali – ricordiamo i canti sui balconi, Bella ciao intonata ovunque, perfino in una cittadina svizzera solidale con le nostre sofferenze? -, da tempo ormai si nota una tendenza opposta: un ripiegamento identitario e comunitario, una chiusura degli uni contro gli altri, un indebolirsi delle identità collettive a favore degli egoismi nazionali, col risultato di un acuirsi dei conflitti e delle disuguaglianze. Si tornano a costruire muri in Europa - e non solo -, visibili e invisibili. Le forze di slegamento corrono veloci: la guerra ne è, oggi, la  spaventosa conferma.

Sur-vivance e trascendimento

Nei suoi interventi sulla pandemia J. Kristeva ha più volte fatto riferimento alla questione della sur-vivance. “La sola questione seria, insieme politica, filosofica e pratica, è la sur-vivance. […] La prova del confinamento e la sua variante, il deconfinamento, fanno di noi dei sur-vivants [28]”.  Kristeva si appella ad una frase tratta dal Disagio della civiltà, là dove Freud scrive che “l’evoluzione della civiltà può definirsi in breve come la lotta per la vita della specie umana”. La sur-vivance sarebbe dunque questa lotta per la vita. Ma come intendere questa lotta?

Il senso della sur-vivance eccede ampiamente quello della parola italiana sopravvivenza, che la traduce. Lo si coglie più profondamente se si introduce un trattino: sopra-vivere. Siamo tutti sur-vivants non nel senso di sopravvissuti quanto di sopra-viventi, accomunati e presi nello sforzo di andare oltre, di oltre-passare e trascendere le catastrofi della vita. Se quello culturale è un processo di oltrepassamento continuo, se l’intera vita psichica è transfert senza fine, preferisco qui evocare la nozione di trascendimento, nozione che in questo tempo storico si impone alla nostra riflessione e al nostro ascolto interiore. Alla psicoanalisi vengono in soccorso altre voci, altri cammini. J. Kristeva lavora oggi su Dostoewskij [29], il romanziere, il condannato a morte, il sopravvissuto, l’esule, il deportato, l’epilettico: “La sua scrittura, esuberante affermazione della vita fin nella morte, afferra l’internauta inghiottito senza limiti dalla Rete (la Toile) e lo invita a un’esperienza interiore che io accolgo come una sorta di immunità intima: senza sostituire i vaccini né spegnere i conflitti guerreschi, essa edifica contrafforti psichici e culturali indispensabili alla lotta della specie umana per la vita [30]”. La scrittura di Dostoewskij diventa paradigmatica di una disponibilità alla morte - accettazione intima della compresenza della morte nella vita - e di una approvazione della vita fin nella morte, portata avanti grazie ad una contestazione permanente: contestazione del lavoro della morte che diventa apatia, ripiegamento, isolamento, a favore del lavoro della vita, fatto del continuo rilancio verso nuovi oggetti e nuovi legami. 

In Dante il trascendimento è trasumanar: andare oltre - oltre il conosciuto, oltre il visibile, oltre sé stessi e la stessa facoltà di dire -, perfino oltre l’umano, ma - ed è il lascito supremo della Commedia - attraversando l’umano fino in fondo, assumendo di questa traversata il rischio radicale: solo questo fa del viaggio dantesco - e della prova dell’esilio - una vicenda esemplare.

E come non pensare alle riflessioni di Ernesto de Martino mentre lavora alla sua ultima opera, incompiuta? Per de Martino il destino umano si gioca nel costante slancio di trascendimento della natura in cultura, della fattualità in senso. Il trascendimento è per lui necessità - pena il cadere nella perdita di sé - e ingiunzione etica: lo chiama ethos del trascendimento.

I mondi finiscono, egli ammonisce ne La fine del mondo: ma la fine di un mondo appartiene alla storicità della condizione umana. È la fine del mondo il vero rischio, inteso come crollo dell’energia etica di trascendimento e della possibilità di un nuovo cominciare. A questa energia l’uomo ha il dovere di rispondere, è il suo compito, che ne sia cosciente o no: al di là si profila la crisi individuale - fino all’annientamento della follia o della morte -, oppure, per una società, la decadenza e la perdita della capacità di trasformare il mondo. 

“Il mondo ‘può’ finire: ma che finisca è affar suo, perché all’uomo spetta soltanto rimetterlo sempre di nuovo in causa e iniziarlo sempre di nuovo. L’uomo non può recitare che questa parte, combattendo di volta in volta, fin quando può, la sua battaglia contro le diverse tentazioni di un finire che non ricomincia più e di un cominciare che non includa la libera assunzione del finire. Il pensiero della fine del mondo, per essere fecondo, deve includere un progetto di vita, deve mediare una lotta contro la morte, anzi, in ultima istanza, deve essere questo stesso progetto e questa stessa lotta [31]”.

C’è in ogni epoca, in ogni civiltà, la “tendenza a cancellare dall’esistenza quanto esiste, la cieca tentazione dell’eversione e del caos, la nostalgia del nulla”. Ogni epoca e ogni civiltà devono fronteggiare, con maggiore o minore successo, la tentazione o il rischio di annientare quanto l’immenso sforzo di umanizzazione è capace di creare.

La catastrofe dell’umano è sempre possibile e la civiltà è sempre pericolosamente in bilico tra l’ordine culturale e il caos, tra il senso e il non senso, tra il legame - che è pensiero, memoria, storia - e lo slegamento, che è frammentazione. Tra i valori di pietas e di communitas e l’indifferenza che disumanizza. E oggi, oggi più che mai, tra il mondo sensibile, fatto di corpo reale e di parola incarnata e il mondo dematerializzato e desocializzato che sembra voler diventare il nostro destino. 

Non è ancora dato sapere quale mondo nascerà dalla trasformazione epocale di cui siamo testimoni e attori, ma è certo che in questo processo il corpo continuerà a giocare una parte essenziale. 

Tornare al corpo sarà forse la posta in gioco dei tempi a venire: non solo Körper, corpo-cosa che la postmodernità ha consegnato alla necessità della salute e della sicurezza e perciò, inevitabilmente, al rifiuto illusorio della morte, ma Leib, corpo vivo inscritto nella tensione tra vita e morte, nei paradossi della loro coesistenza, nella mobilità e fragilità delle loro frontiere. Non più solo corpo malato, contagiato, contagioso, morto o mortifero, ma corpo sensibile restituito alla sua potenza di apertura nel mondo, al mondo, con l’altro.

  1.  Sigmund Freud, Entwurf einer Psicologie, in Marie Bonaparte, Anna Freud ed Ernst Kris (a cura di) Aus den Anfangen der Psychoanalyse, Imago Publishing Xo., Londra 1950, trad. it. Progetto di una psicologia, in Opere1892-1899, Boringhieri, Torino, 1968, p. 334 e sgg.
  2. La presenza del Nebenmensch non solo è condizione necessaria perché il soggetto possa costituirsi come tale ma ne determina il “destino” di essere desiderante: il desiderio sarà perennemente e radicalmente segnato dalla inesausta inappagante ricerca inconscia di ciò che all’origine determinò il soddisfacimento primordiale.
  3. Cfr. Dominique Scarfone in IPA Webinar: La situation virale et ses résonances psychanalytiques, https://www.ipa.world/en/en/IPA1/Webinars/La_situation_virale.aspx , 14 giugno 2020) (ove non diversamente specificato la traduzione si intende sempre di chi scrive)
  4. Pierre Laurent Assoun, “La condition pandémique à l’épreuve de la psychanalyse”, testo presentato in occasione del colloquio di Espace Analytique “Les effects paradoxaux du Covid19”, 21 novembre 2020
  5. Del resto fu Rudolf Virkoff, padre della patologia cellulare, ad affermare che la pandemia non è solo una faccenda virale ma “un fenomeno sociale con alcuni aspetti medici”.
  6. P. L. Assoun, “La condition pandémique à l’épreuve de la psychanalyse”
  7. S. Freud, Das Unheimliche (1919), in Gesammelte Werke, vol 12 (1947), trad. It. Il perturbante, in Opere 1917-1923, op. cit. 
  8. Estimità è un termine formato sul modello di intimità, con scambio di prefisso (ex- di esteriore). La parola è stata introdotta dallo psicoanalista Serge Tisseron: “Nel 2001 ho proposto il termine “estimità” per indicare il desiderio che spinge un gran numero di nostri contemporanei a mettere in scena parte della loro intimità in televisione (a quell’anno risale l’esordio in Francia dei reality show televisivi)”. (Serge Tisseron, Psicologia contemporanea, n° 209, 2008) (dal Dizionario Treccani)
  9. Julia Kristeva, La psychanalyse est un “combat pour la vie”, http://kristeva.fr/psychanalyse-combat-pour-la-vie.html
  10. Sylvie Germaine, Brèves de solitude, Albin Michel, Paris, 2021; https://www.franceculture.fr/emissions/la-salle-des-machines/sylvie-germain-que-provoque-en-nous-la-solitude-a-letat-pur
  11. Cfr. Marie-José Del Volgo e Roland Gori, Exilés de l’intime. Vers un homme neuroéconomique?, Les Liens qui Libèrent, Paris, 2020
  12. S. Freud, Hemmung, Symptom und Angst (1926), in GW, vol. 14 (1948), trad. it. Inibizione sintomo e angoscia, in Opere 1924-1929, op. cit., cit. p. 301
  13. Cfr. Anna Feissel-Lebovici e Jacques Barbier (a cura di), Insistance 2012/1, n° 7: Clinique, écriture et poésie de l'Hilflosigkeit, Erès, Toulouse
  14. Cfr. J. Kristeva, “Antinomies du concept de perversion et épigenèse de l’appétit d’excitation: notre duplicité d’être inachevé” di Ilse Barande e Robert Barande (estratti del rapporto scelti e commentati da), in Revue Française de psychanalyse, 2020/5, vol. 84, Presses Universitaires de France, Paris, pp. 1423-1438
  15. Cfr. Louis Bolk, Das Problem der Menschwerdung, Gustav Fischer, Jena, 1926, trad. it. Il problema dell'ominazione, Derive Approdi, Roma, 2006
  16. Ivi, pp. 52 e 53
  17. Enzo Melandri, http://www.libercensor.net/contenuti/note/enzo-melandri-zo-n -politk-n-bolk-e-l-antropogenesi
  18. Uno scrittore che ha fatto di questo strato originario dell’esperienza umana il centro della sua meditazione letteraria e filosofica è Pascal Quignard. “Occorre, scrive Quignard nei Desarçonnés, riattraversare la disperazione originaria ogni volta che vogliamo rivivere. Il trauma della nascita, che fu la porta di questo mondo, è la sola porta alla quale dobbiamo bussare se desideriamo rinascere”, Les Desarçonnés, Grasset, Paris, 2012, cit. p. 49
  19. J. Kristeva, Le lieu psychanalytique, Congrès des Psychanaystes de Langue Française, 14 maggio 2021,http://www.kristeva.fr/le-lieu-psychanalytique.html
  20. S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur, 1929, in GW, vol 14 (1948), trad. it. Il disagio della civiltà, in Opere 1924-1929, op. cit., cit. p. 605
  21. Cfr. Michel Plon e Henri Rey-Flaud (a cura di), La pulsion de mort entre psychanalyse et philosophie, Erès, Toulouse, 2004
  22. S. Freud, Massenpsychologie und Ich-Analyse, 1921, in GW, vol. 13 (1940), trad. it. Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in Opere 1917-1923, op. cit., cit. p. 286
  23. Myriam Revault d’Allonnes, “Pulsions de mort et intraitable socialité”, in La pulsion de mort entre psychanalyse et philosophie, op. cit., cit. pp. 37-38
  24. Ivi
  25. Haim Baharier: "Fatti piccolo e il mondo migliorerà. Questo mi insegnò un clochard" https://www.repubblica.it/cultura/2015/08/10/news/haim_baharier_fatti_piccolo_e_il_mondo_migliorera_questo_mi_insegno_un_clochard_-120750189/
  26. M. Revault d’Allonnes, op. cit., cit. p. 39
  27. Cfr. la polemica che ha coinvolto i filosofi Massimo Cacciari e Giorgio Agamben, presente sul sito dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici https://www.iisf.it/index.php/search.html?searchword=diario+della+crisi&format=html&t=1640620761818&tpl=search&Itemid=896
  28. J. Kristeva, La psychanalyse est un “combat pour la vie”
  29.  J. Kristeva, Dostoïevski, collection “Les auteurs de ma vie”, Buchet-Chastel, Paris, 2020, trad. it. Dostoevskij. Lo scrittore della mia vita, Donzelli, Roma, 2020; Dostoïevski. Face à la mort ou le sexe hanté du langage, Fayard, Paris, 2021
  30. J. Kristeva, La psychanalyse est un “combat pour la vie”
  31. Ernesto de Martino, La fin du monde. Essai sur les apocalypses culturelles (2016), EHESS, Paris, trad. it. La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino, 2019, cit. p. 208

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