Testi di psicoanalisi

L’Agonia della Psichiatria: riflessioni sullo stato attuale della psichiatria a partire dall’ultimo libro di Eugenio Borgna

Mariangela Pierantozzi
ANTHONY BRUNELLI FINE ARTS —NA CHAINKUA REINDORF
Na Chainkua Reindorf, Venezia, Biennale d’arte 2022

Stiamo vivendo un periodo torrido segnato da eventi di morte e distruzione, da chiari segni di evoluzione climatica negativa, mancanza d’acqua e innalzamento progressivo delle temperature, dal moltiplicarsi di reazioni emotive violente che, non facendosi pensiero, né tantomeno pensiero critico, sfociano in azioni brutali, stupri, omicidi di donne e bambini. Parlare di pazienti psichiatrici e dello stato delle cure loro riservate non è proprio all’ordine del giorno.

Eppure la situazione della salute mentale sta attraversando un momento drammatico e sembra aver raggiunto il livello più basso dalla chiusura dei manicomi.

Un richiamo impellente, espresso con sussurro gentile e un po’ tremulo, quale è la voce di Eugenio Borgna, emerge dalle righe dell’ultimo dei suoi moltissimi scritti: libro che lancia l’allarme su tale problema e ne analizza le possibili soluzioni.  

Il volume, dal titolo L’Agonia della psichiatria, ha il coraggio di fare il punto sullo stato attuale dei servizi psichiatrici pubblici. È ancora una volta lui a sottolineare l’importanza di alcuni fondamentali mutamenti in questo campo, il nostro psichiatra più vecchio e illuminato, preparato dalla psichiatria fenomenologica e da sensibilità ed empatia ad avvicinarsi ai pazienti sofferenti mentali con quel rispetto e quella dignità che sempre dovrebbero definire l’incontro con il paziente, con qualsiasi paziente, non solo sofferente mentale.

In questo testo Borgna vuole riaccendere un faro sulla psichiatria radicata nella grande rivoluzione di Franco Basaglia, quella rivoluzione acculturata che aveva le proprie basi nella psichiatria di Janet e nella fenomenologia di grandi pensatori e psichiatri del passato come Ludwig Binswanger, Karl Jaspers, Eugène Minkowski e nelle loro profonde e minuziose descrizioni delle esistenze umane mancate.

L’Autore ci rammenta la prima rivoluzione etica, oltre che conoscitiva, della psichiatria, che ha cambiato l’oggetto di questa disciplina mettendo al secondo posto il cervello e le sue disfunzioni e al primo posto la soggettività, l’interiorità, il modo di essere nel mondo, facendo della psichiatria una scienza umana e non una scienza naturale.

La psichiatria attuale è una psichiatria organicista, basata esclusivamente sui Manuali Diagnostici, sul DSM-5, dove non solo lo psichiatra ma qualsiasi persona che navighi in rete può avere l’illusione di riconoscere percorsi standardizzati che permettono di identificare i sintomi e formulare una diagnosi e una terapia farmacologica.

Borgna non rifiuta certo gli psicofarmaci, li declina però all’interno di un rapporto terapeutico che si basa prima di tutto sul rapporto intersoggettivo, interpersonale e con una quota fondamentale di empatia e immedesimazione nella sofferenza dell’altro.

Per l’Autore “la psichiatria non può non essere immersa nella parole”.

“Non c'è psichiatria se non analizzando senza fine le parole che diciamo ai pazienti, e che loro ci indirizzano, le emozioni che sono in loro e in noi; ma non c'è nemmeno psichiatria se, nel parlare dei disturbi psichici, non ci serviamo, anche nel descriverli in cartelle cliniche, di parole semplici, non convenzionali, e non aridamente e crudelmente tecniche, come oggi avviene.

Negli ultimi decenni si è data sempre meno importanza, nella vita quotidiana e anche in psichiatria, alle parole.  Delle parole, del linguaggio, si avverte la mancanza soprattutto quando si parla di sofferenza psichica, di dolore dell'anima e di follia; non si può essere di fronte alle pazienti e ai pazienti, senza pensare alle dolorose risonanze emozionali che le parole hanno […]

Un tema, questo, che ho svolto in alcuni miei lavori, ma che vorrei ora riformulare nell'orizzonte di una psichiatria che dal passato e dal presente si proietti in un futuro intessuto di dignità e di fragilità, di tenerezza e di umanità, che diano un senso alla follia.

Un tema, questo delle parole, che, in una psichiatria rifondata eticamente sulle macerie di quella manicomiale, non può non essere di radicale importanza, e al quale vorrei ridare febbrile attenzione [1]”.

L’Autore arricchisce questo tema dando somma attenzione alle metafore quali potenziali espressioni dell’indicibile, di quanto nelle emozioni e negli stati d’animo è intraducibile: non possiamo non andare col pensiero a Freud, che usava con abilità metafore esplicative, costruendo un discorso letterariamente potente e comunicativo.

Di conseguenza anche l’orientamento diagnostico che lo psichiatra deve formulare non dovrebbe nascere dal compulsare le griglie dei Manuali Diagnostici, ma dal lavoro di scambio dialogico con l’altro e dovrebbe limitarsi ad aiutare il paziente a prendere autonomamente consapevolezza delle proprie inadeguate modalità di difesa dalle emozioni più sconfortanti. È accorato l’appello di Borgna contro la contenzione, che ancora si pratica in alcuni servizi ospedalieri psichiatrici: certamente non vi è nulla di più disumanizzante e, in alcune situazioni, è successo che, nel completo disinteresse per l’altro e per il rispetto della dignità umana, la contenzione sia stata usata per lungo tempo e con esiti finali mostruosi. Ma ricordiamo anche che vi è una contenzione meno evidente, la cosiddetta ‘camicia di forza’ chimica, l’uso del farmaco quale unico rimedio alla sintomatologia del paziente, nata sempre da sofferenze e angosce che non trovano parole e non trovano ascolto.  Ci sono reparti psichiatrici in cui il contenimento non è rappresentato dalle cinghie di contenzione.

Mi è capitato di entrare in reparti silenziosi, senza alcun paziente che giri per i corridoi, dove la porta dell’infermeria è chiusa a chiave e dal vetro si possono osservare due specializzandi e un infermiere seduti, con lo sguardo diretto allo schermo del computer o del cellulare; non si parlano, sembrano pesci in un acquario senza la sinuosità del nuoto che dà un senso allegro di vita. Sui corridoi, totalmente vuoti, si affacciano porte chiuse e con la serratura alla maniglia. Forse si apriranno senza chiave dall’interno? Essendo il reparto al completo si può pensare che i pazienti siano dentro, in silenzio, isolati, la loro sofferenza priva di voce, nessuno che parli con loro, loro che non chiamano nessuno.

Ho provato una spaventosa sensazione di estraniamento girando per questi corridoi. Come sono diversi dal primo SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) in cui ho lavorato nel 1979: i malati non erano chiusi nelle stanze ma giravano per il reparto chiedendo di essere ascoltati, bussando alla porta del medico o dell’infermeria, chiedendo, chiedendo in continuazione: in quel reparto circolava la vita, sì, anche la follia, ma era la lingua di comunicazione accettata che aspettava solo di essere interpretata e riempita di significati pregnanti.

In questo libro, che dovrebbe essere letto da tutti, non solo dagli addetti ai lavori, vi è anche una riflessione sulla pandemia appena trascorsa e forse non del tutto finita. La psichiatria è stata investita dalle problematiche scaturite dal processo sociale di isolamento e dal pensiero della morte cui il Covid 19 ci ha obbligati. Nel quadro ampio delle diseguaglianze sociali e culturali, la pandemia ha fatto emergere la fragilità dell’essere umano, ci ha ricordato senza mezzi termini che essa “non è una esperienza antiquata, inutile e immatura e malata”. La fragilità è la condizione normale della nostra esistenza, la coscienza dei nostri limiti e dei limiti e della deperibilità del nostro corpo, della nostra mente e delle nostre creazioni.

La psichiatria non dovrebbe essere l’unica scienza ad occuparsi dei limiti e della fragilità umana. Tale consapevolezza dovrebbe essere parte fondante di ogni sapere: l’illusione che la tecnica e la scienza tutto possano risolvere si schianta contro la finitezza e fragilità della nostra vita. Ricordo episodi - non poco frequenti -, in cui, nel ruolo di psichiatra di collegamento presso l’ospedale civile, ero chiamata dai medici di un reparto di medicina interna o di chirurgia con la massima urgenza; quando arrivavo, nell’arco di pochi minuti, trafelata, mi si diceva: “Dottoressa, non è arrivata in tempo, il paziente è morto”.

Mi rendevo conto allora, trasecolando, che mi avevano chiamata per un paziente in agonia: di fronte alla morte perché non chiamare l’ultimo degli specialisti, lo psichiatra, il più disprezzato ma in fondo, nella fantasia, in possesso di quel qualcosa che lo identifica come taumaturgo, lo specialista per eccellenza che forse può far qualcosa quando tutti gli altri falliscono: uno specialista contro la morte. È la grande illusione tecnologico-scientifica che pensa di sconfiggere anche l’essenza stessa delle nostre vite, la morte. La psichiatria dovrebbe essere, come tutte le branche della medicina, quella che non può dimenticare che l’essenza dell’uomo è proprio la sua fragilità.

Borgna ci ricorda come le diseguaglianze sociali si siano fatte più evidenti durante la pandemia: non tutti sono rimasti chiusi in ambienti confortevoli, dotati di spazi adatti a fornire la possibilità di una solitudine dignitosa. Solitudine e isolamento, sottolinea, non sono la medesima cosa: l’isolamento ci separa dagli altri, non ci permette di comunicare, la solitudine ci aiuta a rientrare nella nostra interiorità alla ricerca dei pensieri, delle emozioni, delle riflessioni che, come fili, intrecciano e compongono il tessuto del nostro essere. Ci si può sentire isolati e angosciati anche in famiglia, se non si ha lo spazio per coltivare la propria interiorità.

Ho in mente adolescenti sofferenti durante il lockdown perché costretti a vivere con fratelli e genitori ammassati in spazi angusti, con ogni componente della famiglia dedito alla propria attività da remoto, spesso nella stessa stanza.  Inoltre, la visione e la convivenza con la morte non sono mai stati cosi pressanti: il pensiero della morte, che questa società ormai da decenni cerca di rimuovere, con la pandemia è entrato prepotentemente nella vita di ognuno di noi attraverso la televisione o la rete o la carta stampata, attraverso il conteggio quotidiano dei morti o di coloro che, nelle terapie intensive, erano prossimi a sparire senza poter avere l’ultimo saluto dei propri cari. Molti adolescenti hanno agito le loro angosce con atti di autolesionismo e/o con il ritiro scolastico, incapaci di trasformare le proprie emozioni in parole e pensieri da comunicare ad altri adulti, talvolta altrettanto muti e rinchiusi nei propri problemi.

Il titolo, L’agonia della psichiatria, titolo forte, affilato come la lama di un bisturi, senza nascondimenti, dovrebbe far riflettere ogni psichiatra ed entrare in un dibattito più ampio e approfondito sulla gestione della salute mentale. Ci sono voci in tal senso ma, sporadiche e sparute, non riescono a bucare la sensibilità degli esperti e dei politici sull’argomento.

Da molti anni assisto al declino delle sorti umane e progressive della psichiatria pubblica e privata. Mi sovviene il ricordo di un paziente che mi raccontò la sua esperienza nello studio di uno psichiatra privato: il professionista fece una specie di veloce visita in cui, dopo le prime battute conoscitive, sottopose al paziente una pagina del DSM-5 aperta sulla griglia sintomatologica del “disturbo depressivo maggiore”: “Quanti di questi sintomi potrebbe riconoscere come propri?” Ottenuta la risposta il professionista compilò la ricetta di un antidepressivo e salutò. Ritorno a questo ricordo per non mettere sotto accusa solo la grave situazione dei servizi pubblici territoriali e degli SPDC, ma per sottolineare che siamo di fronte ad una situazione drammatica generale, a un cambio di paradigma culturale.

È, in effetti, una questione di formazione e di pensiero.

La psichiatria italiana - ma non solo -, è sprofondata nel positivismo organicistico in cui il cervello e le sue disfunzioni esauriscono la spiegazione del comportamento e delle emozioni umane. Le ricerche scientifiche in generale, e quelle sulla salute mentale, in questi ultimi decenni di imperante dominio del corpo sono orientate a cercare l’evidenza materiale delle patologie. In alcuni campi le scoperte sono state evidenti e di successo, come nella cura delle patologie tumorali. Ma si è perso di vista, ancora una volta, soprattutto per quel che riguarda la psichiatria, la soggettività del percorso di vita di ogni individuo, si è perso interesse per gli ostacoli o le modalità di accudimento ricevuto, per gli eventuali traumi subiti, per le conseguenze mutative delle esperienze di vita vissuta. Si è persa la volontà, la necessità, per lo psichiatra, di conoscere l’interiorità e il modo di essere-nel-mondo del paziente.

Sotto il nuovo paradigma delle neuroscienze si nasconde la vecchia concezione organicista della psichiatria. Quali che siano le future innumerevoli scoperte sul cervello umano, non si potranno mai sottovalutare l’effetto dell’ambiente su di esso e l’importanza della sua plasticità. I genetisti stessi affermano da molti anni che il ruolo della epigenetica è spesso più importante della genetica: e cosa c’è di più organico della genetica? Essi affermano che se un giorno due gemelli omozigoti escono di casa e uno si dirige verso destra e l’altro verso sinistra rispetto al portone della casa comune, quando vi faranno ritorno non saranno più quei gemelli identici che potevano essere in precedenza, saranno irreversibilmente diversi a causa degli incontri e delle esperienze fatte in quel breve diverso percorso.

La vita e gli incontri che facciamo sono fonte inesauribile di emozioni ineludibili. Queste e i modi per integrarle nella nostra interiorità sono la cifra della nostra unicità di esseri umani: e di queste dobbiamo imparare ad essere consapevoli e sono queste ciò attraverso cui gli altri possono conoscerci.

Oltre ad una cultura psichiatrica fondamentale come quella fenomenologica, imprescindibile per un professionista della salute mentale, non possiamo pensare ad una psichiatria che non affondi le sue radici nella psicoanalisi: non la psicoanalisi applicata nello studio privato per soggetti nevroticamente sani e nel setting chiuso in schemi canonici e rigidi, ma una psicoanalisi ‘senza divano’, quella dei concetti fondatori che regolano non solo le sedute ma i singoli incontri interpersonali: la psicoanalisi che, avviata dalla rivoluzione basagliana, negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso era presente nei servizi psichiatrici pubblici nella doppia professione di psichiatra e psicoanalista. Ne porto impresso il ricordo per gli anni trascorsi dal 1973 al 1991 nei nascenti servizi territoriali che si preparavano alla chiusura dei manicomi, ma è anche la radice su cui si basa oggi ogni mio atto professionale.

Anche se psichiatria e psicoanalisi sono due scienze profondamente diverse, è possibile conciliare e creare un’attività professionale che sia la compenetrazione di questa doppia professione. Chi legge ancora Lo psicoanalista senza divano o Il genio delle origini di Racamier [2] può comprendere a cosa mi riferisco. Per questo è importante liberare la psicoanalisi dall’aria asfittica in cui si è rinchiusa. Lo psichiatra e psicoanalista francese Roland Gori [3] si batte per ricordare che la psicoanalisi porta a riconoscere, nel dialogo da essa illuminato, un altro senso potenzialmente presente, nascosto nell’atto della parola quotidiana: la psicoanalisi è la teoria e la pratica più adatta a mostrare come una nuova realtà possa sorgere da un discorso comune, con un senso nuovo, e soprattutto la più adatta a ridare alla parola e alla lingua il desiderio profondo criptato nei discorsi manifesti.  Lo studio e le teorie del linguaggio sono importanti per comprendere le crisi soggettive e culturali degli individui. R. Gori non si stanca di ricordarci che, di tutte le scoperte della psicoanalisi, quella delle associazioni libere - dire ciò che viene in mente ‘senza scelta né reticenza’ - è senza dubbio la più rivoluzionaria, perché permette di sospendere i significati abituali, sblocca e conduce a ricomposizioni di senso, cambia le direzioni del pensiero e la logica semantica.

Ma quanti sono oggi gli psichiatri che hanno alle spalle una preparazione psicoanalitica?  Sono quasi scomparsi, ne resta qualche esponente, soprattutto della vecchia generazione, un incauto e solingo esemplare che si aggira in qualche servizio, di solito accerchiato, deriso, oserei dire bullizzato dai propri colleghi tutti certissimi organicisti. Come invece sarebbe importante innestare la psicoanalisi nella relazione tra psichiatra e paziente! non pensare che la teoria e la pratica psicoanalitica si possano aristocraticamente esercitare solo in studio e con regole rigide, spesso originate da una cattiva interpretazione dei testi di Freud.

È più che mai necessario radicare il lavoro terapeutico sui concetti fondamentali della psicoanalisi, aver presenti tutti i meccanismi difensivi, il transfert, il controtransfert, avere un concetto di neutralità che si basi su un ascolto silenzioso e rispettoso, senza pregiudizi né giudizi, senza sovrapporsi al discorso dell’altro, senza mettere il nostro pensiero nella mente del paziente riempiendo con idee nostre i suoi silenzi.

Certo, è un lavoro difficilissimo, un pò come stare su un asse in equilibrio precario, su una zattera in un mare in tempesta cercando di avere un timone interiore fermo tra le mani: avere sempre presente la rotta anche tra i marosi delle manipolazioni.

Il 10 giugno 2022 si è svolto a Roma un piccolo convegno nazionale (dalle 14.30 alle 17.45) presso l’Istituto Superiore di Sanità, dal titolo “Valorizzare e potenziare la salute mentale”, sotto l’egida dei promotori del “Manifesto della salute mentale, come valorizzazione della persona e difesa della democrazia”. Il motto di questo gruppo è: “La salute mentale è un diritto di tutti: ripensiamo il SSN”.

Sarantis Thanopulos, presidente della SPI (Società Italiana di Psicoanalisi) ha lanciato in questa occasione una petizione e l’ha inviata al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a Mario Draghi, al Ministro della Salute Roberto Speranza: una sorta di decalogo che insiste su punti fondamentali e ineludibili nell’organizzazione delle cure ai malati mentali. Li riassumo brevemente: 1) è necessario mettere sotto osservazione la qualità della cura somministrata ai sofferenti psichici nei centri di salute mentale; 2) si è abbandonata l’umanizzazione della cura e si sta tornando alla logica dell’istituzione globale, anche attraverso il modello biomedico/tecnologico ormai dominante; 3) le persone sofferenti sono recluse in mere esistenze diagnostiche costruite in funzione di trattamenti farmacologici sintomatici, spesso usati in modo inappropriato, che soffocano la persona se non usati con giudizio e cautela all’interno di una relazione medico-paziente; 4) la psicoterapia deve essere inserita tra le metodologie di cura alla persona, mentre i servizi si sono appiattiti sulla sola cura farmacologica.

Parole e concetti molto importanti, che dovremmo sostenere: essendo una petizione possiamo firmarla affinché un gruppo sparuto di addetti ai lavori si trasformi in un folto gruppo che porti le proprie idee non solo nei centri di potere ma in ogni più piccolo ambito di incontro tra curanti e sofferenti.

La psicoterapia ha un ruolo insostituibile nella umanizzazione/soggettivazione di un individuo sofferente. Contro un’idea di cura finalizzata all’addestramento/adattamento dei pazienti al sistema, è importante sintonizzarsi sull’ascolto del loro modo di raccontarsi e di sentirsi.

La cura psicoterapeutica può essere definita come un prendersi cura di sé e dell’altro, una umanizzazione della relazione. Nei servizi pubblici oggi è assente o pari statisticamente ad un 6% delle terapie erogate: da qui l’appello dell’attuale presidente della SPI a tutti gli psicoanalisti e agli operatori della salute mentale perché si facciano promotori di un impegno sociale in questa direzione.

Poiché le scuole universitarie di specializzazione in psichiatria negli ultimi decenni sono diventate quasi esclusivamente organiciste, è inevitabile che i giovani psichiatri non vengano formati alla psicoanalisi, con le conseguenze che ho cercato fin qui di evidenziare (su questi temi si è espresso con efficacia lo psichiatra e psicoanalista Antonello Correale [4], che ha lavorato per anni presso il servizio psichiatrico del quartiere Centocelle di Roma).

Qualche giorno prima del convegno citato sopra, l’ex presidente della SPI Stefano Bolognini aveva rilasciato un’intervista ad un grande quotidiano: in essa lamentava l’attuale forte aumento della richiesta di cure psichiatriche, richiesta impossibile da sostenere da parte dei servizi pubblici in quanto con organici e risorse ridotti al minimo. Il personale è stato negli anni addirittura dimezzato e la mancanza di operatori della salute è un’altra piaga della nostra medicina. L’intervista era stata sollecitata da un tragico evento avvenuto in provincia di Modena: una ragazza, assunta come baby-sitter, aveva lanciato da una finestra il bimbo di due anni a lei affidato in assenza dei genitori. La ragazza ha confessato di essersi sentita alterata, in uno stato confusionale, ma non ha saputo dire il perché del gesto. Il dr. Bolognini ipotizza un disturbo psichico della ragazza e ritiene che esso non sia stato intercettato proprio a causa della scarsità del personale psichiatrico dei nostri servizi[5].

Eppure, se anche una tale sofferenza fosse stata intercettata, il malessere della ragazza sarebbe stato ascoltato? O sarebbe stato soltanto attutito grazie all’azione chimica?   Nel decennio trascorso la regione Emilia Romagna ha preparato un piccolo gruppo dei suoi psichiatri ad affrontare i primi esordi psicotici e lo ha fatto con corsi preparatori di psicologia cognitivo comportamentale. Sicuramente i percorsi di studio e l’applicazione di tale psicoterapia sono più veloci e meno costosi, ma meno capaci di raggiungere le profonde variazioni dell’animo umano. Sono strategie per adulti già più equilibrati che possono utilizzare strumenti adattativi, inadatte a giovani che si trovano a 18-20 anni scaraventati nello tsunami di una psicosi.

Come formatori dobbiamo batterci perché la cultura umanistica non vada persa, perché le nuove generazioni di psichiatri si rivolgano ad essa cercandovi strumenti di comprensione della vita soggettiva, perché approfondiscano la loro conoscenza della psicoanalisi senza diffidare della sua complessità ma, al contrario, riconoscendo che l’ascolto della sofferenza richiede il costante, seppur faticoso, esercizio di un pensiero complesso.

  1. Eugenio Borgna, L’agonia della psichiatria, Feltrinelli, Milano, 2022.
  2. Paul-Claude Racamier, Lo psicoanalista senza divano, Raffaello Cortina, Milano, 1982; id. Il genio delle origini, Raffaello Cortina, Milano, 1996.
  3. Roland Gori, La fabrique de nos servitudes, Les Liens qui Libèrent, Paris, 2022.
  4. La videointervista ad Antonello Correale, a cura di Pietro Roberto Goisis, si può vedere sullo "SPI Channel", canale video della Società Psicoanalitica Italiana, col titolo "Psicoanalisi e Servizi di salute mentale", nella serie "Psicoanalisi e Istituzioni".
  5. “Troppi tagli ai servizi psichiatrici”, intervista a Stefano Bolognini, Repubblica Bologna, 5 giugno 2022.

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