Gruppi di supervisione

In quale luogo, con quale cornice, a quale scopo, parlare dei propri pazienti?

Conrad Stein

In quale luogo, con quale cornice, a quale scopo, parlare dei propri pazienti?

"En quel lieu, dans quel cadre, à quelles fins, parler de ses patients?", pubblicato in Études freudiennes n. 31, maggio 1989, La pratiques des cures contrôlées ou supervision, pp. 9- 28.

Si ringrazia Danièle Brun per la gentile concessione.

“On est psychanalyste lorsque ce que l’on a entendu fait jaillir une idée nouvelle”

“Si è psicoanalisti quando ciò che abbiamo inteso fa sorgere un’idea nuova”

Conrad Stein (1924-2010), psichiatra e psicoanalista, nato in Germania nel 1924, riparato in Francia a 9 anni e sfuggito così all'ascesa del nazismo, è stato una grande figura della psicoanalisi francese, interlocutore autorevole dei massimi esponenti della psicoanalisi del suo tempo, Granoff, Perrier, Leclaire, Lacan, Mannoni, Aulagnier, per citarne solo alcuni.

Giocò un ruolo di primo piano nel clima di eccezionale fermento intellettuale che caratterizzò la psicoanalisi francese negli anni 60.
Il suo rifiuto di ogni forma di assoggettamento della psicoanalisi ad una ideologia, ad una fede, ad una istituzione, fu radicale e mai smentito.
Nel 1961 aprì alla Société Psychanalytique de Paris un celebre seminario, che teneva il giovedì pomeriggio. A partire dal 1965, per trent’anni, lo dedicò al commento e alla lettura critica dell’Interpretazione dei Sogni di Freud, testo da lui considerato fondamentale per comprendere la situazione analitica. Fu cofondatore con Piera Aulagnier della rivista L'Inconscient, fondatore e direttore della rivista Études Freudiennes, collaboratore di tutte le più importanti riviste francesi di psicoanalisi. Tra i suoi libri occorre citare L'Enfant imaginaire (trad. it. L'Immaginario:strutture psicoanalitiche, Feltrinelli), La mort d' Œdipe (trad. it. La morte di Edipo, Spirali ed.), Aussi je vous aime bien, Les Erynis d'une mère: essai sur la haine, Le monde du rêve, le monde des enfants (postumo).
Il processo analitico, la condotta della cura, la formazione dello psicoanalista, la trasmissione della psicoanalisi, sono questioni centrali nel suo pensiero. Come lo è il sogno, paradigma della realtà psichica e apertura verso l’infantile, quell’infantile che occorre saper risvegliare, tanto da arrivare a privilegiare lo “psicoanalista poeta” allo psicoanalista erudito.

A C. Stein dobbiamo la messa a punto di un metodo di lavoro di gruppo che viene utilizzato per la formazione degli psicoanalisti; la ricchezza e l'originalità di questo metodo si fondano sull'utilizzo delle libere associazioni e sul gioco delle identificazioni crociate che si creano nei partecipanti a partire dal racconto di un frammento clinico presentato in modo slegato e disarticolato dalla "storia clinica". Così il metodo dell'analisi, il rigoroso permanere nel campo della realtà psichica, la fiducia nelle possibilità di scambio del gruppo, vengono messe al servizio della supervisione, sottraendo quest'ultima alla comune trasformazione in un processo di oggettivazione del paziente o in una pratica pedagogica (si veda su questo il numero di Cliniques Méditerranéennes dedicato a C. Stein, Le don de la parole en psychanalyse). C. Stein sostenne sempre che l'analista deve arrivare ad afferrare e comprendere le rappresentazioni che egli si crea del paziente, seguendo il tragitto del proprio transfert che le fabbrica.
Tale metodo, ponendo al centro le "formazioni dell’inconscio" e i percorsi delle libere associazioni è, più estesamente, una pratica che permette anche ai non analisti l'esperienza della scoperta e della messa al lavoro dell'inconscio. Non a caso è stato utilizzato anche con medici (pediatri, oncologi, curanti coinvolti nell’assistenza a malati gravi e malati terminali).

L’articolo di Conrad Stein che pubblichiamo, finora inedito in italiano, è dedicato alla pratica della supervisione e alla formazione degli analisti; vi si trovano preziose indicazioni sul suo metodo di lavoro e una miniera di riflessioni per chi fosse interessato al complicato problema della formazione psicoanalitica.

 

Considerazioni preliminari

Per introdurre le nostre tre mezze giornate dedicate alla pratica delle cure controllate (in inglese chiamate “supervisioni”) non mi propongo né di presentarvi il tradizionale excursus sui dati bibliografici disponibili in francese né di offrirvi una veduta d’insieme delle domande che mi sembrerebbero pertinenti. In effetti le poche considerazioni preliminari che mi sembrano doverose sfoceranno direttamente su un primo argomento da sottoporre al dibattito.

Forse è necessario che, per cominciare, io tenti di rispondere, seppure in modo lapidario, a certe questioni di principio che sono state o potrebbero essere sollevate. Queste questioni sono tre e riguardano rispettivamente l’opportunità, la possibilità e l’ordine del giorno della nostra riunione.

In primo luogo, se è ovvia l’importanza della questione di cui dobbiamo dibattere, è altrettanto evidente che essa riguarda due, o addirittura tre, categorie di persone: da una parte, quelle che pensano di intraprendere un controllo e quelle che sono già in controllo (detto in altro modo, i fruitori potenziali e i fruitori), dall’altra parte, quelli che sono in posizione di controllore. Questa classificazione non solleverebbe nessun problema particolare se essa non mettesse in questione l’opportunità della nostra riunione. Un collega, che non era certamente mosso da animosità nei miei confronti, ha giudicato “sconveniente” l’argomento che figurava sul bollettino di iscrizione alle giornate; egli si è rifiutato di dirmi di più. Forse condivide il sentimento dei controllori che considerano poco conveniente mostrare i loro problemi davanti ai controllati; così come non converrebbe parlare di questioni inerenti alla condotta della cura davanti ai pazienti. Eccoci dunque, in materia di etica della psicoanalisi, confrontati con un’opposizione apparentemente irriducibile.

Io suppongo, è vero, che gli insegnanti il più delle volte si accordino per escludere gli allievi dai loro colloqui; e ciò può apparire naturale. Ma sostengo che, psicoanalisti o controllori, noi non siamo insegnanti e soprattutto sostengo che i nostri pazienti o controllati non sono bambini.

E, sebbene essi non manchino, anche spesso, di comportarsi come bambini (benché ciò possa essere deplorevole è pur sempre il destino comune di tutti gli esseri umani, compresi gli psicoanalisti e i controllori) non conviene tuttavia trattarli come tali. Ecco qualcosa che, a prima vista, potrebbe apparire paradossale a chi di voi sa quanto valore io dia al “bambino sempre vivo con le sue pulsioni” che, secondo Freud, l’interpretazione dei sogni permette di ritrovare in noi.

Tanto farei fatica a dare ex abrupto una definizione dell’adulto, tanto mi sembra certo che l’abitudine di comportarsi come bambini nel campo che Freud ha assegnato alla realtà esterna (in altri termini, nella vita quotidiana) ostacola il pieno sviluppo delle potenzialità del bambino sempre vivente il cui campo è quello che Freud assegna alla realtà psichica. Ecco perché, se noi vogliamo aiutarli a prendersi cura del bambino che sopravvive in loro anziché persistere a schiacciarlo, non dobbiamo trattare i nostri pazienti o i nostri controllati come bambini nel nostro comportamento sociale verso di loro.

In secondo luogo, il progetto di dibattere dei problemi posti dalla pratica delle cure controllate facendo astrazione dalle esigenze di ordine istituzionale può apparirvi rischioso. Si tratta semplicemente di non mettere il carro davanti ai buoi, come fanno quelli che si sforzano di legiferare in materia di trasmissione della psicoanalisi senza preoccuparsi innanzitutto di mettere in evidenza i processi grazie ai quali essa è stata trasmessa da più di 80 anni.

A questo proposito devo segnalarvi che la bibliografia che vi è stata comunicata è incompleta.

Scorrendo Psicoanalisi in Europa (bollettino della Federazione Europea di Psicoanalisi, ramo dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale, A.P.I.), bollettino che, pur non essendo strettamente confidenziale, è nondimeno comunicato ai soli membri dell’A.P.I., mi sono accorto che gli atti della “Conferenza permanente sulla formazione” , di cui esso rende conto dalla fine degli anni sessanta, contengono talvolta osservazioni pertinenti per quanto riguarda il nostro dibattito, ma spesso annegate in un contesto dominato dalla preoccupazione burocratica. “Così come l’analista allievo deve imparare ad analizzare, il supervisore deve imparare a valutare”, scrive per es. Rolf Klùwer, citato da Pola I. de Tomar, di Madrid, in un articolo d’altronde interessante [1]. A causa di questa preoccupazione di valutare il candidato, “si comincia - scrive Frederick Wyatt, di Fribourg-en-Bisgau -, a inventare la burocrazia della psicoanalisi per garantire l’imparzialità e l’oggettività, per arrivare infine ad accorgersi che gli affetti, che accuratamente e meticolosamente si era cercato di scartare, tornano proprio sotto la forma delle procedure.” Si insiste sulla seguente questione, salvo formularla senza tentare di rispondervi: “Dove si situa dunque la lealtà del supervisore? Verso il suo candidato, verso l’Istituto e le sue regole, o verso il paziente di cui egli supervisiona il trattamento? [2]”

Secondo i principi dell’A.P.I. un candidato non potrebbe prendere in analisi un paziente senza esservi stato autorizzato da una commissione e non potrebbe svolgere il trattamento che sotto la protezione di un controllo. Il peso di una situazione di apprendimento che è oggetto di una costante valutazione viene dunque ad aggiungersi al fatto che, autorizzato da un’istanza esterna, il candidato non è nella posizione di sapere in quale misura egli si autorizza da sé stesso.  Perciò sarebbe illusorio intraprendere uno studio della pratica delle cure controllate senza attardarsi sul peso delle esigenze di ordine istituzionale se in Francia noi non beneficiassimo di una situazione abbastanza eccezionale.

Situazione confusa, così sembrerebbe, ma vantaggiosa proprio perché non sottoposta a una regola generale. Il controllo effettuato sotto l’egida dell’istituzione è abbandonato, non solo da quelli che diventano psicoanalisti senza coltivare il progetto di aderire ad una associazione, ma anche, sembra, dalla maggior parte delle associazioni non affiliate all’A.P.I. Ma è forse importante sottolineare che anche all’interno delle associazioni affiliate all’A.P.I. si tende sempre meno a gettare l’anatema su quelli che intraprendono delle analisi senza autorizzazione da parte dell’istanza burocratica o addirittura senza ricorso a un controllore. Spesso, in effetti, i controlli sono ufficialmente accordati a persone di cui si sa che hanno già dei pazienti e talvolta da molto tempo.

Occorre aggiungere che molti membri di associazioni affiliate all’A.P.I. accettano di prendere in controllo, controllo definito selvaggio da alcuni dei loro colleghi, persone che non hanno lo statuto di allievi. In queste condizioni l’esigenza istituzionale tende a prendere un senso nuovo.

Durante una recente conversazione, un collega che esercita responsabilità di alto livello in seno all’ A.P.I., metteva in luce la grande differenza che egli osserva, nello sviluppo dei controlli da lui praticati, tra quelli liberi e quelli autorizzati. Nondimeno egli attribuisce grande valore alla domanda detta di ammissione alle cure controllate, nella misura in cui stima che il successo di un siffatto cammino testimoni di una capacità sociale e di una capacità di farsi riconoscere che non gli pare estranea alla costituzione dell’identità dello psicoanalista.

Ecco ciò che mi è parso necessario dire per farvi comprendere che non è affatto illusorio pretendere di esaminare i problemi sollevati dalla pratica delle cure controllate astraendo dal peso delle esigenze di ordine istituzionale. Resta comunque aperto un problema che mi pare di ordine diverso: quali sono le forze nascoste dietro il desiderio di essere riconosciuti da un’associazione, desiderio che si manifesta anche in numerosi psicoanalisti che esercitano la professione da lungo tempo, godendo della stima dei loro colleghi? A questa questione, che è di grande interesse, potremo forse tentare di rispondere in un’altra occasione.

La mia terza e ultima nota preliminare riguarda l’ordine del giorno. Si è rivelato molto difficile distinguere e ordinare i problemi e voglio innanzitutto ringraziare coloro che mi hanno aiutato.


Che esista un’offerta e una domanda di controllo (Nathalie Zaltzman) e che questa offerta e questa domanda abbiano un’incidenza sulla psicoanalisi (Jacques Sédat), questo va da sé. Va anche da sé che occorra esaminare i processi all’opera - transfert e identificazioni (Alain de Mijolla) - e che la posizione di controllore sia fonte di difficoltà che spingono a definire la funzione e la cornice del controllo (Jean Cournut).

E ancora va da sé che l’esperienza dello psicoanalista in supervisione debba essere presa in conto, allo stesso titolo di quella del supervisore, ragion per cui Thierry Bokanowski e Jean-François Rabain si sono incaricati di organizzare la mattinata di domenica, intitolando la loro relazione “La caccia allo snark del supervisionato”.

A proposito dell’ordine del giorno, avrete notato che l’offerta in esso precede la domanda. La giustificazione di questa scelta, che è di ordine storico, non appartiene più alla mia introduzione generale, che termina qui. Essa mi permetterà, al contrario, di entrare nel vivo del mio argomento.

Essendo la pratica delle cure controllate abitualmente considerata una condizione necessaria della trasmissione della psicoanalisi, vi propongo di limitarci, per il momento, a esaminare la legittimità di questa idea. Mi baserò su due riferimenti storici e su un riferimento contemporaneo, rispettivamente le pubblicazioni di Max Eitingon, Vilma Kovacs e Jean Paul Valabrega [3].

Una ideologia

Numerosi autori osservano che il controllo esisteva prima di essere istituzionalizzato. Questo fatto è attestato dalla corrispondenza di Freud con i suoi discepoli così come da numerose testimonianze: quando ci si trovava in difficoltà si domandava consiglio. Non c’era tuttavia niente di sistematico in questa condotta che, come nota Elisabeth Roudinesco [4], poteva avere funzione di psicoanalisi didattica; niente di sistematico se non forse l’abitudine di Freud di trascinare in lunghe passeggiate i discepoli che andavano da lui per consultarlo.

Occorre aspettare la fondazione del Policlinico di Berlino perché si instauri l’esigenza di un controllo considerato come una tappa della formazione e come una condizione necessaria (secondo le parole di Eitingon) alla “riproduzione della specie analitica”. Vi rinvio all’articolo di Michelle Moreau in Topique, che riproduce il Rapporto di Max Eitingon sulle attività del Policlinico di Berlino dal marzo 1920 al giugno 1922, dove si legge quanto segue:

“Affidiamo agli allievi che sono già avanti nello studio teorico e nell’analisi personale uno o più casi […] adatti a principianti […] Per mezzo di appunti dettagliati che gli studenti devono redigere seguiamo strettamente le analisi e possiamo facilmente individuare una gran quantità di errori che l’analista inesperto fa. […] Proteggiamo i pazienti che sono affidati ai principianti mediante il controllo che esercitiamo sul loro trattamento, essendo sempre pronti a togliere il caso all’allievo per continuare noi stessi il trattamento […] Possiamo dunque essere ugualmente soddisfatti della formazione nel nostro Policlinico.”

Ecco qualcosa che è chiaro, preciso e che non dovrebbe far sorridere. Notiamo piuttosto che i fondatori del Policlinico di Berlino hanno dato prova della stessa coscienza professionale che ogni maestro deve avere quando affida un lavoro a un apprendista, ancor più quando è in gioco la sorte di persone malate. Isituito dai responsabili del Policlinico, il controllo è dunque preteso perché è giudicato necessario, e le regole che ne fisseranno il protocollo sono determinate da quelli che lo offrono nel quadro di un contratto di formazione. La giustificazione che dovevo darvi dell’ordine del giorno adottato per queste giornate si trova in questa precedenza dell’offerta sulla domanda.

La pratica delle cure controllate è giudicata indispensabile alla riproduzione della “specie analitica” in virtù di considerazioni che, l’ho appena sottolineato, non sono specifiche della psicoanalisi. Così la metafora di Eitingon non è forse innocente: nella misura in cui l’homo psycoanalyticus è necessariamente definito da quelli che sono i caratteri biologici di una specie, egli non potrebbe riprodursi per partenogenesi, a meno di appartenere ad una specie molto poco evoluta, dal che risulta necessariamente che la sua riproduzione, la sua formazione, deve essere assicurata congiuntamente da uno psicoanalista e da un controllore [5]. Se questa osservazione dovesse essere presa sul serio, occorrerebbe dedurne che l’organizzazione del piano didattico proposto dal Policlinico di Berlino restava estranea al carattere della psicoanalisi poiché, all’insaputa dei suoi fondatori, essa non era altro che la messa in atto di un fantasma.

Le cose sono cambiate dal 1920? La pratica del controllo si è certamente ammorbidita (non si ritira più il caso a un allievo carente) man mano che si percepiva che le condizioni di trasmissione della psicoanalisi non erano simili a quelle dell’apprendimento di qualunque altra professione. Oggi si sa che un fastidioso e il più possibile fedele resoconto delle sedute non rende affatto conto del lavoro di uno psicoanalista, mentre l’arte di rendere conto della psicoanalisi di un paziente è una creazione che deriva in effetti dalla psicoanalisi del clinico. Se lo psicoanalista può così far valere ciò che ha appreso ascoltando un paziente, non può però ostentare il lavoro di cui solo quest’ultimo potrebbe testimoniare. Man mano che le conoscenze si sono evolute, al punto da non poter più sottoscrivere le condizioni che hanno presieduto all’invenzione del controllo, le giustificazioni alla sua indispensabilità sono diventate sempre più confuse, tenui e contraddittorie, fatta eccezione per la teoria di Valabrega che discuterò più avanti. Ma poco importano le giustificazioni, nella misura in cui esigere il controllo è diventato oggetto, da parte dei veterani come dei debuttanti, fruitori o fruitori potenziali, di un largo consenso, estraneo ad ogni riferimento alle esigenze degli istituti di formazione ed estraneo, salvo eccezioni, ad ogni ragione. Al di là di un’eventuale esplicita accettazione di un contratto conforme alle leggi di un’istanza burocratica esterna a sé – e, a giudicare dal risultato più tangibile, il cui scopo nascosto è assicurare la propria continuità - le parti si accordano dunque nel sottomettersi a un imperativo che sembra andare da sé e rispetto al quale nessuno si chiede da dove venga. Staccato così da ogni riferimento all’istituzione, il consenso di cui il controllo è oggetto ha assunto il carattere di un’ideologia o, per dire le cose più semplicemente, di una credenza.

Parlare dei propri pazienti stando sul divano

Nel 1936 una discepola di Ferenczi, Vilma Kovacs, si è opposta ad una concezione del controllo che, nelle sue grandi linee, prevale ancora oggi e che lei considera “superficiale”. Ha predicato pressoché nel deserto quando ha sostenuto che  “il riconoscimento degli affetti nel controtransfert è l’essenziale dal punto di vista della formazione”, così come quando ha affermato che “se il candidato continua la sua analisi personale, quando comincia ad analizzare dei pazienti le due  parti del lavoro, parallele, illuminano lati della sua personalità che avevano ricevuto poca o nulla attenzione fino a quel momento”, per concludere che, in queste condizioni,  “ la procedura più corretta è che il controllo sia condotto dall’inizio alla fine dal didatta”. Facendo dell’analisi didattica e dell’analisi di controllo una sola cosa, Vilma Kovacs pare implicitamente rifiutare la nozione di didattica e quella di controllo, considerate come i due poli della formazione, per sostenere che l’analisi dello psicoanalista è l’analisi per eccellenza e che essa costituisce l’essenziale nella trasmissione della psicoanalisi. Sul primo punto, notiamolo en passant, avrebbe così anticipato una proposizione di Lacan che non mi pare sia stata sempre ben compresa.

Quanto al secondo punto, le sue idee mi paiono conformi a quelle di Ferenczi, che ha insistito sull’importanza dell’analisi dello psicoanalista, destinata ad approfondire la “conoscenza di sé” necessaria all’esercizio del mestiere, mentre non ha mai nominato “l’analisi di controllo” se non a titolo di informazione senza commento in una conferenza, “Sul cursus di formazione dello psicoanalista” [6].

Leggendo Vilma Kovacs l’ho applaudita a piene mani, salvo apprendere un po’ di tempo dopo che forse le avevo prestato delle mie idee. Altri lettori l’hanno letta in modo diverso quanto a un punto sul quale, in effetti, il suo testo è ambiguo. A causa del tono un po’ normativo ci si può chiedere se essa non indicasse espressamente ai suoi pazienti di parlare dei loro propri pazienti, prendendo separatamente i due lati del lavoro che lei considera paralleli (l’analisi del loro transfert e quella del loro controtransfert).  E, volendo, si può supporre, come fa una mia interlocutrice, che essa preconizzi una mescolanza di analisi e di controllo, un po’ come Françoise Dolto che, pur senza rifiutare il controllo fatto con un altro analista, accetta talvolta di effettuare per qualche tempo un controllo con i propri pazienti. A questo scopo propone loro una seduta supplementare poiché considera negativo sacrificare una delle loro sedute di analisi per parlare dei propri pazienti [7].

Se sollevo questa questione non è per tentare una esegesi del testo di Vilma Kovacs che, in ogni caso, non sarebbe qui pertinente. Per le mie finalità di oggi consideriamo questo testo come un albergo spagnolo il cui merito, come si sa, è che permette di dedurre il desiderio dei viaggiatori da ciò che essi portano con sé, senza preoccuparsi delle intenzioni dell’albergatore. Alcuni pazienti, più o meno informati delle mie posizioni in materia di trasmissione della psicoanalisi, hanno manifestato un certo disappunto dopo essere venuti a parlare di uno dei loro pazienti. Si aspettavano un riconoscimento, sotto forma di qualche parola da controllore e ritengono, a torto o a ragione, che io in tali circostanze sia ancora meno prolisso del solito, molto meno ad esempio di quando parlano dei loro figli.

Quale che sia l’importanza a lungo termine dell’analisi dei transfert dello psicoanalista, mi diceva l’interlocutrice sopra menzionata, resta necessario che, in mancanza di un controllore terzo, lo psicoanalista apporti il suo contributo. Ricordava come fosse oggi di avermi più di una volta rimproverato il mio silenzio quando, un tempo, mi parlava dell’uno o dell’altro dei suoi pazienti nel corso delle sue sedute sul divano; di avermi rimproverato il mio silenzio o piuttosto la mia mancata inclinazione a interessarmi (erano le sue parole) alla “realtà del paziente” di cui lei aveva la responsabilità. Aveva l’impressione che quest’ultimo fosse dimenticato in favore invece della sua analisi personale. In seguito, tuttavia, non si era impegnata in un controllo se non dopo lunghi anni di pratica e quando, nel progredire del suo lavoro analitico, aveva abbandonato la preoccupazione di trovarvi un sostegno. Soprattutto, vi si era impegnata nelle migliori condizioni: per tentarne l’esperienza. Mi occorre aggiungere, salvo tornarvi brevemente nelle mie conclusioni, che ne aveva tratto un certo beneficio: vi aveva trovato, mi disse, l’occasione di compiere un considerevole ulteriore progresso della sua analisi nell’al di là del tempo delle sedute che aveva fatto come paziente. Quanto ai suoi pazienti, tutto lascia supporre che essi vi abbiano trovato un vantaggio che certamente non avrebbero ricevuto dal sostegno che un tempo lei aveva reclamato chiedendomi di interessarmi alla loro realtà. In un certo senso, all’epoca in cui mi rimproverava la mia mancanza di cooperazione, la mia interlocutrice era una pioniera della psicoanalisi - come lo siamo tutti quando iniziamo - e l’idea che si faceva della necessità del controllo che a suo giudizio avrei dovuto accordarle non era diversa da quella dei clinici del Policlinico di Berlino. In verità - ho avuto l’occasione di dirlo più di una volta e non sono il solo - il paziente è spossessato della sua analisi quando, nel suo interesse, si crede di doverla reificare per farne la posta in gioco di una formazione, perfino nel caso che tale formazione sia estranea ad ogni progetto di abilitazione istituzionale [8]. Questo, occorre un certo tempo per arrivare a comprenderlo. La mia interlocutrice ricordava anche che, avendomi assillato una seduta dopo l’altra per molte sedute, una volta aveva ottenuto che le fornissi una mia opinione: cosa occorreva dire a un certo paziente che minacciava di interrompere la sua analisi? Le suggerii qualcosa da dire. Lei continuò ancora dopo anni a giudicare la mia formulazione molto pertinente; il paziente tuttavia l’aveva lasciata, sebbene lei gliel’avesse fedelmente trasmessa.  Dal che possiamo trarre questa conclusione: reiterando l’affermazione che la realtà del paziente dovesse comunque essere presa in conto - affermazione che, secondo il contenuto manifesto, avrebbe dovuto essere considerata un’opinione relativa alla pratica delle cure controllate - la mia paziente puntava a rinnovare la vittoria che aveva un tempo riportato su di me a forza di insistere. “Si può, mi disse, parlare dei propri pazienti per tentare di esercitare una pressione!”. Occorre per questo consentire al tacito accordo esistente tra gli psicoanalisti che dicono “Parlare dei vostri pazienti è una resistenza” e i pazienti che - senza aver mai nemmeno sentito esplicitamente emettere una tale opinione - sono persuasi che non convenga parlarne? Io non lo penso. Mi sembra piuttosto che siano reticenze di questo tipo a sostenere la resistenza contro la psicoanalisi. Reticenze da non confondere, occorre precisarlo, con il caso in cui si è in preda al sentimento di non riuscire a parlarne. Non è vero che parlare dei propri pazienti costituisca una resistenza. È vero piuttosto che si possono sostenere le proprie resistenze parlando dei propri pazienti - occorre pure che le resistenze si sostengano con l’aiuto di qualcosa - dal che risulta che, interdicendo o interdicendosi di parlarne, esercitando questa censura deliberata, ci si priva del frutto dell’analisi di queste resistenze. (Poiché ho appena usato la parola in due accezioni differenti, conviene forse precisare che la resistenza contro la psicoanalisi è qui considerata come qualcosa che deriva da una posizione che ostacola il progresso del processo analitico in quanto interdice la manifestazione di resistenze legate alle congiunture del momento e di cui questo processo si sostiene). L’interlocutrice che un tempo aveva l’abitudine di rimproverarmi la mancanza di interesse per la realtà dei suoi pazienti mi fece osservare che, spesso, il desiderio di coloro che, sul divano, parlano delle sedute con i loro pazienti nella speranza di ricevere un’opinione, è che colui che sta dietro di loro, nella poltrona, “prenda ciò per un’altra cosa”: precisamente, mi sembra, per una cosa che presenterebbe la notevole proprietà di essere estranea all’investigazione analitica; spesso è anche in questo solo caso che essi stimano di aver diritto a una risposta. E la frustrazione che provano di non riceverne è quella di non ottenere un consenso quanto allo stabilire un settore riservato dove la resistenza contro la psicoanalisi troverebbe una protezione sicura. Altri, rinunciando a reclamare un’opinione, manifestano la stessa frustrazione attraverso il sentimento che hanno di perdere tempo.

Quelli che parlano dei loro pazienti dal momento che vi pensano condividono la stessa speranza, mentre altri, meglio avvisati in siffatta materia, barricandosi nella reticenza, non riconoscono come propria questa speranza, pretendendo che, per principio, il divano non sia il luogo dove converrebbe evocare ciò che si è inteso stando nella poltrona.  Sdoppiamento che sarebbe come credere che il soggetto dell’analisi sia il soggetto dell’enunciato, qualunque sia la persona, mentre non può essere che quello dell’enunciazione. In altri termini, che io dica “io” o che io dica “egli” o “ella” (che ha detto io o tu o egli o ella), l’analisi è sempre di colui che dice – e che in ogni caso si rivolge al suo psicoanalista, cioè a me, nel caso citato. (Le condizioni di un possibile malinteso sono particolarmente interessanti quando io dico “tu”, ma questa eventualità non è presa in conto nel presente contesto).

“Analisi quarta”: un’esigenza che compromette i fini che si propone

In fin dei conti, mi accorderete che forse per uno psicoanalista che effettua una cura come paziente il divano è un luogo privilegiato dove parlare dei propri pazienti, nella cornice creata dalla sequenza delle sedute e con lo scopo di proseguire il lavoro della sua analisi. Ma ecco qualcosa che non ci aiuta a comprendere il nostro interrogativo iniziale, relativo alla fondatezza del preconcetto secondo il quale la pratica delle cure controllate sarebbe una condizione necessaria alla trasmissione della psicoanalisi. A conti fatti, non essendo in questione il vantaggio che si può trarre a impegnarsi in una serie di incontri con un collega reputato esperto allo scopo di prenderlo a testimone della propria maniera di ascoltare i pazienti, ma essendo piuttosto in questione il carattere indispensabile di una tale condotta, il nostro interrogativo può apparire vano al punto in cui siamo. E resterebbe senza oggetto se Jean Paul Valabrega non avesse elaborato una teoria del controllo - da lui chiamata “analisi quarta” - fondata su considerazioni di ordine autenticamente psicoanalitico.

Nella mia conferenza del 1968, dedicata al “Settore riservato del transfert” [9], ho avanzato l’idea che per essere psicoanalista occorre non tanto essere guarito e formato, quanto piuttosto capace  - come direi oggi, avendo rinunciato all’uso della parola “autoanalisi” - di proseguire la propria analisi oltre il tempo delle sedute effettuate come paziente. E ho concluso che, in queste condizioni, “basta abbastanza poco per essere psicoanalista”. Di ciò Valabrega mi ha rimproverato sostenendo che “questo abbastanza - un po’ troppo discreto - può essere una complice cortina e tende a eludere il dettaglio che è precisamente la totalità del problema” [10]. La polemica nel corso della quale Valabrega mi ha molto elegantemente rinviato quello che io avevo attribuito a lui, un fantasma di analisi assoluta – è proprio vero che ciascuno negozia la propria megalomania a modo suo - mi pare oggi superata. Devo semmai tentare di far emergere il più rapidamente possibile in che cosa il rimprovero di Valabrega è mal fondato relativamente alla sostanza del mio testo, senza tuttavia mancare di pertinenza per quanto riguarda ciò che vi manca. Detto altrimenti, voglio precisare il punto sul quale le nostre divergenze mi sembrano derivare da un malinteso, allo scopo di distinguere meglio il punto sul quale le nostre visioni sono veramente opposte.

Il principale malinteso risulta forse dal fatto che Valabrega mi attribuisce una concezione solipsistica della continuazione dell’analisi dello psicoanalista al di là del tempo delle sue sedute da paziente, laddove la mia conferenza del 1967 su “L’identificazione a Freud nell’autoanalisi” era già interamente centrata sul ruolo essenziale tenuto dagli interlocutori immaginari e reali, in un processo che io continuai a designare per qualche tempo ancora col termine usuale di autoanalisi [11]. Quando io dicevo che per essere psicoanalista occorre essere “analizzato e capace di proseguire la propria autoanalisi”, non sostenevo un punto di vista che avrei rifiutato in seguito; piuttosto, lasciavo in ombra ciò che avrei precisato in seguito, quando sono arrivato a designare la psicoanalisi come un processo senza inizio né fine, dove il tempo delle sedute fatte sul divano di uno psicoanalista - il tempo cioè della cura psicoanalitica - è il tempo essenziale. Nei termini di quest’ultima formulazione, è chiaro che, praticato in condizioni favorevoli, il controllo viene a iscriversi in una continuazione che fa parte integrante della psicoanalisi dello psicoanalista. A questo proposito, mi basti rinviarvi alla testimonianza dell’interlocutrice di cui ho parlato in occasione della discussione delle idee di Vilma Kovacs. Lo stesso Valabrega non dice niente di diverso quando preconizza un metodo - quello dell’“analisi quarta” - destinato a conferire al controllo “una portata veramente analitica” [12]. È sufficiente precisare il senso delle parole. Se tutto ciò che riveste per lui una portata veramente analitica partecipa della propria psicoanalisi, Valabrega non può non accordarmi che ci vuole poco perché colui che la prosegue al di là del tempo delle sue sedute come paziente sia psicoanalista. E se si preferisce usare il termine psicoanalisi in senso restrittivo, per designare la sola cura psicoanalitica, avendo affermato che ci vuole una continuazione, io non potrei non concordare con Valabrega che la psicoanalisi così intesa non è sufficiente a fare uno psicoanalista. Quanto all’“abbastanza poco” che ci manca è chiaro che io non intendevo le esperienze che con ogni evidenza appaiono concorrere al progresso dell’analisi dello psicoanalista. Rispetto all’esercizio del mestiere, ci si può chiedere a prima vista e tra le altre cose se certe conoscenze non siano necessarie. È concepibile ad esempio che un clinico possa inscriversi nella discendenza di Freud senza conoscerne l’esistenza e senza aver acquisito una certa familiarità con la sua opera? L’esame di questa questione non può trovare spazio qui. Notiamo solo che lo studio dell’opera di Freud non è estraneo alla prosecuzione dell’analisi, nella misura in cui le difficoltà che si possono incontrarvi dipendono essenzialmente dalla resistenza contro la psicoanalisi, il che del resto non esclude affatto che questa stessa resistenza possa sostenersi su di un tale studio.

Veniamo alle esigenze formulate da Valabrega. Voi sapete che io concordo, quanto all’essenziale, con le premesse da cui secondo lui deriva la necessità di un controllo, controllo concepito come una “analisi plurireferenziale” o “analisi quarta”. Queste premesse possono riassumersi nella presa in conto dell’esistenza di un settore riservato del transfert che non mancherebbe di costituirsi in nessuna cura, e dello stabilirsi, tra il paziente e il suo psicoanalista, di un consenso relativo a certi ideali. Valabrega nota, a giusto titolo, che il settore riservato del transfert - che è veramente, egli scrive, “un residuo di inizio analisi e non di fine analisi, poiché esso è posto dall’inizio” - “partecipa direttamente del controtransfert… quando l’analizzato è egli stesso in funzione di analista” e si manifesta con una “zona di sordità”. Ed è a questo che l’analisi quarta è destinata a porre rimedio.

La discussione delle difficoltà che potrebbe sollevare l’applicazione del metodo proposto come capace di “apportare un contributo insostituibile all’analisi tout-court” troverà il suo posto nel seguito dei nostri lavori, non foss’altro, per esempio, che per quanto riguarda le sue influenze sulla psicoanalisi dello psicoanalista, poiché, aprendo “una finestra sul terzo referente, cioè sulla pratica dell’analista del candidato”, tale metodo è precisamente destinato ad avere simili influenze. È d’altronde in questo che risiede l’originalità delle vedute di Valabrega.

Per ora mi limiterò a chiedermi se si debba esigere una procedura particolare, come vuole Valabrega, cioè se il controllo, concepito come analisi quarta, possa essere considerato una condizione necessaria per la trasmissione della psicoanalisi.

Si potrebbe notare in primo luogo che la disciplina inaugurata da Freud non ha mai cessato bene o male di trasmettersi fino ad oggi, e che la preoccupazione di Valabrega è quella di apportarvi un progresso e, forse, di attenuare certe insufficienze che hanno potuto e possono ancora dar luogo ad errori deplorevoli. Io avrei piuttosto tendenza a pensare che nessuna misura può essere opposta alle deviazioni, a meno di non essere autoritaria e, per questo, di compromettere l’esistenza stessa della psicoanalisi.

Quanto alle carenze da cui nessuno psicoanalista potrebbe pretendersi indenne, è vero che spesso esse dipendono da questa sorta di trasmissione di sordità alla quale il “settore riservato del transfert” può dar luogo [13].

Occorre anche domandarsi in quale misura è ragionevole proporsi di aprire un territorio la cui chiusura deriva da un consenso al quale è probabile che noi stessi partecipiamo, dal momento che esso è ideologico. Ma è vero che Valabrega estende la nozione di “settore riservato del transfert” alle zone derivanti da fattori di ordine congiunturale, come la teoria dello psicoanalista - essendo inteso che ciascuno ha la propria -, e ciò a giusto titolo, nella misura in cui tali fattori sono rappresentativi del fattore ideologico, che è quasi strutturale. Tuttavia è vero che l’analista quarto non condividerà fino ai suoi più minuti dettagli la teoria dell’analista primo (cioè dell’analista del candidato in controllo).

Mi sono reso conto che, senza avere l’impressione di mettere in atto una procedura particolare, avevo una pratica tendente a far fronte alle esigenze che hanno condotto Valabrega a instaurare l’analisi quarta; e, in assenza di riferimenti, non saprei dire in quale misura le sue pubblicazioni possano avermi influenzato. Che la psicoanalisi sia plurireferenziale discende già, in un certo senso, dall’idea che essa è fondata su un doppio incontro, in ragione del quale è suscettibile di trasmettersi [14].

Quanto al quarto referente in posizione terza - cioè esterno alla successione delle analisi, a partire da quella di Freud – io sono stato portato a prestargli un’attenzione crescente. Molto presto mi sono accorto che la prosecuzione del lavoro dello psicoanalista, nel corso del quale il tempo limitato delle sedute che egli ha avuto col suo psicoanalista appare sempre come il riferimento iniziale, era ben lungi dall’escludere il ricorso a terzi. Resta inteso che un tale ricorso non implica necessariamente una domanda di presa in carico tale che il disvelamento del suo significato sia atteso da questi terzi. Io penso qui ai miei contatti più o meno occasionali con dei colleghi, così come ai miei rapporti più costanti con il pubblico che partecipa al mio seminario, o con i potenziali lettori ai quali io mi rivolgo quando scrivo. Di ciò, come vi ricordavo prima, io già discutevo nella mia conferenza sull’identificazione a Freud e, più incidentalmente, nel mio articolo sulla pratica delle cure controllate [15].

In un certo senso il processo analitico crea la figura dello psicoanalista quarto senza che sia necessario che qualcuno si offra esplicitamente a occuparne il posto. Ecco qualcosa che riguarda in definitiva un primo aspetto della mia esperienza di ex paziente in posizione di psicoanalista. In seguito, questa stessa esperienza, vista dall’angolo della responsabilità di colui che è chiamato ad esercitare funzione di secondo analista, mi ha condotto a prestare un’attenzione crescente alla necessità di permettere al suo partner non solo di riferire le sue sedute con i suoi pazienti, se è egli stesso psicoanalista,  alle sue sedute attuali in quanto paziente, ma anche di riferire queste ultime a quelle che egli ha avuto col suo primo psicoanalista, e questo allo scopo di chiarire per quanto è possibile tutto ciò che un tempo ha potuto esservi colpito da “non luogo  (a procedere)”. Vi rinvio a questo proposito al mio recente articolo intitolato “Responsabilità” [16].

“Gli analisti quarti, scrive Valabrega, hanno la funzione di aprire una finestra sulla pratica del candidato e di aiutarlo a trovare i punti di contatto e di interferenza della sua pratica con la sua propria analisi.” Il che io sottoscrivo, ma non metterei l’accento tanto sull’apertura di colui che qui è designato come candidato, quanto sull’apertura dell’analista quarto che, riguardando un altro, sarà sempre più stretta di quanto egli sia portato a credere.

“In questo modo, prosegue Valabrega, essi aprono una finestra sulla pratica dell’analista del candidato; su ciò che il candidato ha conservato di questa pratica, su ciò che egli le deve, ciò che lo rende dipendente da essa, in una parola su ciò che egli ne fa nella sua formazione.” Ancora io sottoscrivo, salvo aggiungere che ciò che lo rende dipendente, e intendo dalla pratica del suo psicoanalista, è ciò che ha colpito le sue sedute di un “non-luogo (a procedere)”, in ragione delle posizioni ideologiche, certo, ma soprattutto in ragione delle sue posizioni passionali verso di lui. In fin dei conti, non è sufficiente sostituire le parole “analista del candidato” con le parole “il primo analista del collega” per accorgersi che il secondo analista di quest’ultimo è precisamente in posizione di “psicoanalista quarto”?

Non voglio esaltare a tutti i costi la seconda analisi, ma solo constatare che essa ha spesso luogo, dal che risulta che non pare esistere alcuna procedura speciale che debba essere considerata come una condizione dell’analisi quarta e, di conseguenza, della trasmissione della psicoanalisi.

Quanto al controllo, io vi sono in posizione di analista quarto? Preferirei forse dire che io vi sono quarto nella mia qualità di psicoanalista, tanto sono diversi i mezzi, anche se il controllo fosse motivato da fini non estranei all’idea di entrare in una seconda analisi, e cioè mettersi nella condizione di poter meglio intendere i propri pazienti.

Il controllo mi pare dotato di una certa specificità. A differenza dei contatti con i colleghi di cui vi parlavo poco fa, esso implica un coinvolgimento da parte del controllore. E, a differenza della cura psicoanalitica, questo coinvolgimento non comporta, in linea di principio, lo stabilirsi di una nevrosi di transfert che è, precisamente, oggetto delle sedute di analisi. Come ho detto nel recente lavoro già citato, esso è il luogo di transferts (al plurale) caratterizzati dalla loro mobilità e la cui presa in carico permette di fare un certo lavoro psicoanalitico, e cioè di contribuire al progresso della psicoanalisi dello psicoanalista: da questo punto di vista è veramente psicoanalitico. E voglio credere che sia questo il motivo per cui la sua pratica offre sicure soddisfazioni quando è fatto in condizioni corrette. Queste condizioni non dipendono essenzialmente, come pensavo un tempo, dal carattere istituzionale o non istituzionale del processo, ma piuttosto dalla giusta valutazione da parte del controllore delle proprie implicazioni nella situazione di controllo. A questo proposito non posso fare altro che rinviarvi, sempre nell’articolo “Responsabilità”, ad alcune annotazioni relative ad un’esperienza vissuta nel corso di un controllo [17].

Per forza di cose ho già a questo punto dovuto evocare troppi temi estranei all’ordine del giorno di questa prima parte del nostro seminario dedicato all’offerta del controllo. Per il momento non andrò oltre nell’esame di tutto ciò che può riguardare le modalità effettive della pratica del controllo, la loro effettiva incidenza sull’analisi dello psicoanalista e, preoccupazione primaria, su quella del paziente.

In definitiva, il mio disaccordo con Valabrega pare fondarsi essenzialmente sulla questione dell’offerta. Preoccupato di garantire l’autenticità della formazione sottraendola alla costrizione delle reti di potere che tendono a perpetuare il settore riservato del transfert – e in modo particolare “il transfert laterale sul medesimo” [18], in ragione del quale lo psicoanalista finisce, che lo voglia o no, per apparire come maestro, Valabrega difende un “minimo istituzionale” in nome del quale il formatore, nella sua funzione di analista quarto, si sentirebbe in dovere di esercitare il potere di abilitazione. Da qui – in una società psicoanalitica conforme ai suoi desideri - l’offerta di un metodo di formazione considerato necessario, cioè il metodo del controllo concepito come analisi quarta.  Quanto a me, considerando che nessuna procedura particolare mi pare che possa essere concepita come condizione necessaria alla trasmissione della psicoanalisi, stimando, in altre parole, che le vie della formazione sono molteplici, così come d’altronde quelle non dell’abilitazione ma del riconoscimento, sarei piuttosto portato a rimanere aperto alla domanda di controllo: il che, pur essendo una maniera di presentare un’offerta, nondimeno situa questa offerta in una prospettiva che instaura il riferimento alle sedute del paziente da parte di colui che chiede in una cornice differente da quella che determina l’offerta di Valabrega.

(traduzione di Angela Peduto)

  1. Psychanalyse en Europe, n° 20 – 21, 1983, p. 159 -67
  2. Ibid., p. 171 - 178
  3. Max Eitingon, “Rapport sur la Policlinique psychanalytique de Berlin, mars 1920 – juin 1922”, citato da Michelle Moreau in “Analyse quatrième, contròle, formation”, Topique, 18, 1977, p. 63 – 89 ; Vilma Kovacs, “Analyse didactique et analyse de contròle”, citato da Michelle Moreau, ibid. ; Jean-Paul Valabrega, La formation du psychanalyste, Paris, Belfond, 1979. Vedi, in particolare, i capitoli I, II e IV
  4. La bataille de cent ans, vol. I, Paris, Ramsay, 1982, p. 152
  5. Vedi a questo proposito Jacqueline Rousseau – Dujardin, citata nel mio articolo su “Le secteur réservé du transfert”, riprodotto in C. Stein, La mort d’Oedipe, Paris, Denoël – Gonthier, coll. Médiations, 1977, p. 211 – 231 : “Lo schema del cursus didattico …tende a riprodurre una certa idea del concepimento e della nascita di un individuo : un personaggio paterno (che rappresenta la commissione di insegnamento, la legge) mette in moto il suo destino, il suo analista lo prende in gestazione, ma è un terzo (sempre la commissione didattica) che dichiara la nascita.” Poiché l’occasione di una rilettura mi dà l’opportunità di rendere a Cesare…notiamo che la nozione di “settore riservato del transfert”, di cui parleremo più avanti, è dovuta a Jacqueline Rousseau – Dujardin, la quale prosegue osservando che, in queste condizioni, “ci sarebbe, nell’analisi didattica, un settore di proiezione transferale che resterebbe inanalizzabile e inanalizzato, tranne forse nel corso di una tranche.”
  6. Conferenza tenuta a Madrid nel 1928: Bausteine zur Psychoanalyse e Psychanalyse 4, Paris, Payot, 1982, p. 239 - 245
  7. Entretien avec Françoise Dolto, Patio, 2, 1984, p. 55 - 63
  8. Entretien avec Françoise Dolto, op. cit.
  9. Op. cit.
  10. La formation du psychanalyste, op. cit., p. 109. Valabrega precisa d’altronde che le mie affermazioni gli sembrano inesatte non nel loro contenuto, ma nell’uso che si finirebbe per farne.
  11. L’inconscient, 7, 1968, p. 99 – 114. Riprodotto col titolo “Une conférence sur l’identification à Freud” in La mort d’Oedipe, op. cit., p. 75 - 91
  12. La formation du psychanalyste, op. cit., p. 77
  13. Op. cit., p. 163
  14. Etudes freudiennes, n. 24, ott. 1984, p. 135 - 163
  15. Op. cit., in particolare p. 146 – 49 :”Souvenirs empruntés” e “La question du contròle”. Qualche tempo dopo la pubblicazione, nel 1972, dell’articolo “Sur la pratique des cures contròlées” in cui affermavo di non tenere il metodo in grande considerazione, un collega si presentò dicendo brevemente “So che lei è contro il controllo, per cui vengo a fare un controllo da lei”. Domanda irresistibile. Per qualche anno facemmo, mi sembra, un buon lavoro. Se le mie posizioni riguardo al lavoro sono cambiate forse è perché l’impetuoso collega mi aveva messo sulla via…
  16. Nel recente articolo già citato ho usato il termine “transfert laterale sul medesimo” senza riferimenti, tanto mi pareva scontato il suo uso. Rileggendo Valabrega, ho anche avuto la sensazione che egli l’avesse preso in prestito da me; tuttavia, fatta una verifica, risulta che egli ne è l’inventore.

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