(In)attualità del Pensiero Critico
2015-2017

Michel Foucault

Indagatore lucido e critico, capace di passare dalla filosofia alla storia, dalla psicoanalisi alla politica, dalla psichiatria alla giustizia, il pensiero di Foucault non si è mai lasciato chiudere dentro ambiti circoscritti e non ha mai cessato di evolvere. Si è fondato sempre su una passione irresistibile e mai placata: cercare da dove vengono e come si formano i nostri discorsi. Rivelare instancabilmente la trama dei rapporti di potere che in essi si disegna. Scavare da archeologo, strato dopo strato. Da un’epoca all’altra. Da un sapere all’altro. Rivendicando la sua non appartenenza né al campo dei filosofi né a quello degli storici, Foucault dichiarò in un’intervista: “Io sono un artificiere. Fabbrico qualcosa che alla fin fine serve a un assedio, a una guerra, a una distruzione. Io non sono per la distruzione, ma sono a favore del fatto che si possa passare, che si possa avanzare, che si possano abbattere i muri.”

Il Seminario Permanente consacrato a Foucault si è sviluppato tra il 2015 e il 2018. Si è avviato dal campo della malattia mentale, della salute e della follia, del corpo e della sessualità ma, rifiutando di chiudersi nel tempo e negli obiettivi limitati e prefigurati di un “corso” o di una conferenza, si è alimentato della varietà e della eterogeneità dei sentieri incessantemente tracciati da questa opera immensa. Hanno partecipato filosofi specialisti di Foucault, giovani studiosi, studenti, psicoanalisti.

Ci sostiene l’audacia di pensare che i semi sparsi si siano profondamente depositati in un terreno avido di riflessione critica e reso propizio proprio dall’aridità del periodo storico.

Michel Foucault, The lost interview

Ho fatto studi di filosofia, in seguito studi di psicologia e di psicopatologia.

Una cosa mi aveva colpito e intrigato: la civiltà occidentale ha avuto da molto tempo, fin dai Greci, una familiarità con i fenomeni della follia. I folli sono presenti nelle opere teatrali, nella letteratura; se ne parla. Dobbiamo aspettare il XIX secolo perché la follia diventi un oggetto di scienza. Ora, a partire dal XVII secolo, il folle è stato messo da parte, è stato isolato. La mia Storia della Follia può essere illustrata da uno dei più famosi quadri della pittura olandese, Le Reggenti dell'ospizio, di Frans Hals: cinque donne che stanno attorno a un tavolo e la cui professione consiste nel tenere - nel dirigere -, una casa di reclusione.

Nel XVII e poi nel XVIII secolo venivano recluse tutte le inutilità sociali, tutti i perturbatori sociali. Queste donne sono effettivamente l'espressione di quella razionalizzazione della nostra società che ha messo da parte la follia. In qualche modo è da lì in poi che la scienza della follia ha potuto svilupparsi: dal momento in cui si rompe con la vecchia familiarità che un tempo si intratteneva con la follia.

A partire dallo studio puramente storico che ho fatto, mi sono chiesto se noi occidentali non ci facciamo grandi illusioni su noi stessi. Immaginiamo volentieri di essere una civiltà tollerante, di aver accettato tutte le forme sorpassate, tutte le forme culturali diverse dalla nostra, di accogliere tutte le deviazioni, quelle del comportamento, del linguaggio, della sessualità. Mi sono chiesto se questa non sia un'illusione. Come dire: ogni potere, per conoscere la follia, ha dovuto escluderla. Forse, per così dire, per conoscere le altre culture, quelle non occidentali, quelle cosiddette primitive - americana, africana, cinese -, per conoscere queste culture è stato necessario non solo escluderle, non solo disprezzarle, ma sfruttarle, conquistarle. E in qualche modo, attraverso la violenza, farle tacere. È stata messa a tacere la follia per poi conoscerla. Sono state messe a tacere le culture straniere per poi conoscerle. E forse è stato necessario il grande puritanesimo del XIX secolo per far tacere la sessualità e conoscerla poi nella psicoanalisi, nella psicologia, nella psicopatologia.

La mia ipotesi è questa: l'universalità del nostro sapere è stata acquisita al prezzo di esclusioni, di divieti, di rifiuti, al prezzo di una specie di crudeltà nei confronti di tutta la realtà.

Allora ho provato a vedere se non fosse possibile, attraverso altre forme di sapere, cercare in quale maniera si fosse costituito [il sapere], quali ne fossero le radici inconsce, quali le forme implicite, non esattamente presenti nella coscienza degli scienziati in una certa epoca. È grosso modo quello che chiamo [archeologia del sapere].

Così ne Le parole e le cose ho cercato di confrontare un certo numero di differenti campi del sapere - la biologia, l'economia, la linguistica -, dal XVII al XIX secolo. Ho cercato di vedere come questi campi del sapere, del tutto differenti tra loro, obbediscano tuttavia a un certo numero di leggi comuni, di regole comuni, regole che sono necessariamente inconsce, nella misura in cui fanno comunicare tra loro i campi del sapere senza che gli specialisti di ciascun campo le conoscano.

Supponete un'immagine fotografica che rappresenta un viso. Se la fate passare dal positivo al negativo, nello stesso senso, tutti i punti saranno modificati: tutti i punti che erano bianchi diventeranno neri e viceversa. Nessun punto, nessun elemento resta identico. E tuttavia voi riconoscete il viso: il viso resta lo stesso, benché sia passato dal positivo al negativo. Voi potete dire che resta lo stesso, e infatti lo riconoscete, perché le relazioni tra i diversi elementi sono rimaste le stesse. Le relazioni di prossimità sono rimaste le stesse. Le relazioni di contrasto e di opposizione tra il bianco e il nero sono rimaste le stesse, benché ciascun punto che era bianco sia diventato nero e ciascun punto che era nero sia diventato bianco. In fondo, intendendo lo strutturalismo in senso molto largo, si può dire che è un metodo di analisi che consiste nel liberare relazioni costanti a partire da elementi che, in sé stessi, nella loro qualità propria, possono cambiare. Gli strutturalisti sono uomini per i quali contano essenzialmente i sistemi di relazione e non l'esperienza individuale vissuta dalle persone. Ciò che io faccio appartiene in fondo, come lo strutturalismo, a questa grande rimessa in questione della sovranità del soggetto.

In fondo cos'è l'esperienza della droga se non questo? Cancellare i limiti, respingere gli spartiacque, mettere fuori circuito tutte le esclusioni.

E a questo punto ho posto la domanda: cosa ne è del sapere?
Sappiamo qualcosa che è del tutto [altro]? Si può ancora sapere ciò che si sapeva prima dell'esperienza della droga? Questo sapere di prima dell'esperienza della droga è un sapere ancora valido? O è un nuovo sapere? O cosa? È un problema. E in questo senso penso che l'esperienza della droga non sia marginale nella nostra società, non è una specie di piccola devianza … ma, se è là, è al cuore dei problemi che la società nella quale viviamo, la società capitalista, ci pone.

Mi sembra che, ugualmente, il maoismo (in tutt'altro modo e con tutt'altra ampiezza dal punto di vista storico) rappresenti un certo modo di ritrovare questi problemi. Cioè, a partire dal momento in cui l'uomo sarà liberato da tutti i sistemi di costrizione, non solo quelli economici, ma anche quelli politici, morali, culturali, che da secoli il capitalismo fa pesare su di lui, a partire dal momento in cui questa liberazione venisse acquisita, allora quale sapere sarebbe possibile? Si dice abitualmente che l'espressione dell'individualità o l'esaltazione dell'individualità è una delle forme della liberazione dell'uomo. Ma mi chiedo se non sia il contrario. Ho cercato di mostrare come l'umanesimo sia stato una specie di forma di fabbricazione dell'essere umano secondo un certo modello e che non funziona affatto come liberazione dell'uomo. Funziona, al contrario, come imprigionamento dell'uomo all'interno di un certo tipo di forma che la sovranità del soggetto esige e controlla. Nella misura in cui mi si pone, in modo forse un po' ossessivo, questo problema della limitazione, dell'esclusione, dell'assoggettamento, del rapporto di forza e di subordinazione, è evidente che il problema della giustizia, della legge, della pena, della polizia, della prigione, sono per me problemi molto importanti. E con un gruppo di persone molto diverse le une dalle altre abbiamo formato quello che si chiama [Gruppo di Informazione sulle Prigioni]. È, in fondo, un gruppo non di analisi teorica ma di attacco contro il sistema repressivo così come funziona in Francia, ma verosimilmente anche in altri paesi. Attacco centrato su ciò che ci circonda, e che ci circonda immediatamente, cioè il sistema giustizia-polizia che mantiene, riconduce, prolunga l'insieme degli imperativi e l'insieme delle limitazioni morali, sociali, giuridiche, della nostra società.

Aggiungerò che io non dico le cose perché le penso. Io dico le cose per non pensarle più. Io non credo alle virtù dell'espressione di sé. Il linguaggio che mi interessa è quello che può distruggere tutte le forme circolari, chiuse, narcisistiche, del soggetto e di sé stessi. E ciò che io intendo per sparizione dell'uomo è, in fondo, la sparizione di tutte quelle forme dell'individualità, della soggettività, della coscienza, dell'io, sulle quali si è costruito e a partire dalle quali si è fondato il sapere. Una delle forme di questa limitazione, di questa esclusione, è il rifiuto di cui ho parlato prima. L'Occidente ha cercato in questo modo di edificare la figura dell'uomo. E questa figura è in via di sparizione. Ripeto: io non dico le cose perché le penso. Le dico, in fondo, con una finalità di autodistruzione, per non pensare più, per essere sicuro che ormai, fuori di me, esse possano vivere una vita e morire una morte dove io non debba riconoscermi.

(The lost Interview trad. dal francese di Angela Peduto)

Foucault di moda?

Valerio Romitelli

Se posso rivendicare di essermi da sempre interessato di Foucault, sul quale mi è capitato di scrivere da più di vent'anni fa (1), debbo riconoscere anche che nella prefazione di Gianfranco Borelli al mio ultimo libro (2) mi viene opportunamente rivolta la critica di non essermi confrontato con l'opera dello stesso Foucault, pur avendo trattato di argomenti ad essa contigui. In effetti, anche se non sono né un seguace, né un esperto di questo autore, lo considero uno dei massimi intellettuali del secolo scorso, dal quale c'è sempre infinitamente da imparare. Colgo dunque l'occasione anche per provare a ridurre le colpe attribuite alla mia ultima fatica.

Comincio allora con una tesi che riguarda direttamente la questione dell'(in) attualità del pensiero di Foucault (3).  Detto in poche parole ciò di cui voglio discutere qui è un enunciato assai semplice, ma assai problematico: che Foucault oggi è di moda e che, se ciò è utile alla opportuna diffusione del suo pensiero (4), nondimeno rischia di banalizzarlo, di inflazionarlo, di far trascurare le sue questioni più profonde.

A suffragare la constatazione di questa "moda" non sono in grado di presentare alcuna statistica su quanti libri, traduzioni, citazioni, gruppi di studio oggi nel mondo intero chiamino in causa Foucault, ma una cosa mi pare evidente. Che ai tempi in cui questo autore è stato produttivo, cioè tra la fine degli anni '50 e i primi anni '80, esso non solo era spesso accostato ad altri diciamo concorrenti, ma subiva anche costanti e innumerevoli polemiche. Mentre attualmente c'è una sorta di unanime consenso a suo riguardo, accompagnato da una fama che nelle cosiddette scienze umane ha pochi eguali (forse Gramsci, se mi si consente una battuta un po' brutale). Volendo scadere nell'aneddotica più banale, ad esempio, un'amica mi ha raccontato che nel corso di teoria yoga che sta seguendo si leggono citazioni di Foucault sull'autogoverno del sé. Ma basta anche aprire il n. 29 della rivista on line Leap, The international art magazine of contemporary China, di questo mese, per vedere in prima pagina la celebrazione del trentennale della morte di Foucault. 

A parte tali annotazioni colorite, quel che qui mi preme mostrare è che c'è un altro Foucault, non riducibile in pillole, più difficile, ma più profondo e stimolante. A questo scopo ho scelto di concentrarmi su un periodo della produzione di questo autore, quello di cui La storia della follia nell'età classica del '61 è testo maggiore, assieme ad altri tra i quali Le parole e le cose del '66. Si tratta dunque del periodo iniziale della sua opera che, come ben noto, sarà in seguito enormemente prolifica oltre che grandemente diversificata, fino al'84, quando si concluderà per la morte, a 57 anni, dell'autore.

Ora, un tratto caratteristico di questo periodo "iniziale" è che può essere etichettato come periodo "strutturalista". In effetti, Foucault in questo tempo si trovava a condividere un'attenzione singolare per qualcosa di fondamentale assieme a tanti altri ricercatori di straordinario valore intellettuale, tutti francesi (quali Althusser, Canguilhem, Lacan, Lévi- Strauss, Dumézil, Barthes e altri) e pur operanti nei più svariati campi dello scibile (quali, ad esempio e semplificando: marxismo, biologia, psicoanalisi, antropologia, mitologia, linguistica) (5). Questo qualcosa è stato appunto chiamato "strutturalismo", categoria che gli stessi autori da essa chiamati in causa non hanno mai del tutto né accettato, né rifiutato. Per ognuno di essi "struttura" significava infatti qualcosa di diverso, attinente al proprio campo di ricerca, e tutti respingevano l'idea di essere seguaci di una stessa dottrina, teoria generale o filosofia unificante. Sta di fatto che col senno di poi si può riconoscere che questa stagione intellettuale francese ha rappresentato una sorta di ultima diga al dilagare di quell'americanismo fatto di pragmatismo, neoliberismo, cognitivismo, democratismo, che è corrente onnipresente oggi nelle scienze, ma anche nell'opinione, e a livello planetario. Il "primo" Foucault dunque era tra i protagonisti di questa stagione ed è interessante capire cosa allora egli intendesse per "struttura". Ma prima va notata un'altra categoria che si associava a quella di "strutturalismo": l'"antiumanismo", questo più direttamente rivendicato dallo stesso Foucault oltre che da altri etichettati come strutturalisti, Althusser in testa.
Ecco perché dunque mi interessa parlare di questo periodo: perché, mentre "strutturalismo" può apparire ancora oggi un tema più o meno interessante, comunque datato, la rivendicazione di '"antiumanismo", che a tale tema si associava, non può che far scandalo. Insomma, il fatto che Foucault sia stato dichiaratamente antiumanista credo sia qualcosa che può mettere opportunamente in crisi l'immagine più banale attualmente dominante di Foucault. Qualcosa di profondamente indigesto alla sua versione edulcorata e di facile consumo. Ben scarse sono infatti oggi le voci che si levano contro l'umanismo: l'umanismo dei diritti umani, l'umanismo che elegge la persona a centro del mondo, l'umanismo con cui si fregiano a volte i bombardamenti finalizzati ad "esportare la democrazia" e così via. Da questo punto di vista, il Foucault antiumanista è quindi quanto mai inattuale. Di un'inattualità che stride con l'attualità del suo enorme successo contemporaneo.         

Per attenuare lo scandalo e riprendere a digerire questo autore senza troppi rovelli intellettuali, il lettore contemporaneo può però ricorrere ad un sicuro antidoto. Basta che egli relativizzi l'antiumanismo di Foucault in riferimento al tempo nel quale egli lo rivendicava. Si potrà così sostenere che l'umanismo in voga negli anni '50 e '60 era anche e soprattutto un umanismo ideologico, totalitario, avente a riferimento un sapere astratto, se non addirittura assoluto sulla scia della filosofia hegeliana. Tra gli umanisti infatti allora a volersi in prima fila c'erano infatti i comunisti: tutti gli stati, tutti i partiti, tutte le organizzazioni che rifacevano al comunismo, assieme a  tutti i loro enormi seguiti a quel tempo in un'espansione senza precedenti nel mondo intero. Mentre, a tutti gli altri umanisti, gli anticomunisti più o meno "viscerali"- come si diceva allora-, non restava che difendere le loro ideologie o antideologie più o meno antitotalitarie (liberali, cristiane o dichiaratamente di destra), sullo stesso terreno dell'umanismo comunista montante.

Ci si può dunque rasserenare e sminuire la portata dell'antiumanismo di Foucault come un effetto contingente, dovuto ad un clima culturale saturo di polemiche da guerra fredda, tra ideologia e antideologia, tra totalitarismo comunista avanzante e antitotalitarismi tutto sommato sulla difensiva. Ci si può convincere che dirsi antiumanista allora significava anzitutto chiamarsi fuori da simili polemiche, cercare altri orizzonti per la ricerca storica ed epistemologica. A conferma di ciò si potrebbe citare anche la vicenda della breve adesione, tra il '50 e il '52, di Foucault al Partito Comunista, allora più che mai umanista, da lui in seguito sempre criticato.

Per completare l'assoluzione di Foucault dal peccato giovanile di antiumanismo il lettore contemporaneo potrebbe anche evocare i nuovi significati che ha oggi assunto l'umanismo. In effetti, in suo nome non sono più promosse ideologie totalitarie come il comunismo, né si dà credito ad un sapere astratto, come il general intellect di Marx, o il sapere assoluto di Hegel. Oggi, come sentiamo ovunque ripetere, la quinta essenza dell'umanità, dell'essere umano tra gli umani non sta forse in cose come privilegiare le persone, anzitutto la propria, il dover essere pragmatici, comunicativi, interdisciplinari, capaci di autogovernarsi ossia di fare i manager di se stessi?  al centro di tutto ciò non si suppone forse un sapere che non deve più funzionare come il sapere tradizionale, esplicito, formalizzato, ma deve imporsi come saper fare, informale, corporale, come capacità del sapersi rinnovare costantemente? e a tal scopo non sono forse giustificate persino rivolte, riforme o rivoluzioni "colorate" (purché non di rosso) quando il potere risulti governato diversamente da tale supposta sensibilità umana?

Ecco che in questa luce Foucault appare quanto mai attuale, quanto mai conforme all'umanismo oggi dominante, all'umanità così come l'opinione a livello mondiale la percepisce. Anzi, ne può risultare persino un maestro. Sapere, potere, governabilità non sono forse stati i suoi grandi temi di studi critici, archeologici e genealogici? in positivo cosa egli ha cercato, se non di far affiorare a livello della conoscenza le pratiche di rivolta, resistenza o autogoverno di corpi oppressi e desiderosi di libertà? ed egli stesso non si è voluto in continuo rinnovamento di se stesso, sempre a cavallo di più discipline? contro tutte le critiche non ha forse difeso le sue scelte metodologiche e tematiche altrimenti che come scelte essenzialmente personali? 

Si risponda affermativamente a tutte queste domande ed ecco che si avrà l'immagine standard di Foucault, quella che oggi furoreggia, quella che lo fa leggere, tradurre e citare ovunque. Un'immagine non del tutto falsa, senza dubbio. E pur tuttavia unilaterale, semplificatrice, banalizzante. Che oscura il meglio di Foucault, per dirla corta. 

Ora, questo" meglio" non è certo univocamente identificabile, ma si può dire sia variamente rintracciabile in ogni suo testo. Uno dei più grandi meriti generali di tutta la sua opera infatti sta proprio nell' essere riuscita a mostrare con ineguagliabile meticolosità, di frammento in frammento, l'infinita molteplicità del sapere, la sua irriducibilità a qualche origine, principio o fondamento unico. Tuttavia, se qui ho scelto di parlare del primo Foucault "strutturalista" e dichiaratamente antiumanista, è perché questo suo "meglio", ossia la sua profondità problematica non riducibile alle trivialità correnti, può essere forse più semplicemente illustrabile, proprio grazie alla categoria quanto mai schematica di "struttura".  

Leggiamo allora un passaggio della prima prefazione de La follia..., datata 2 febbraio 1960, poi abolita dallo stesso autore nella riedizione del '72, nella quale egli spiega che "fare una storia della follia vorrà dunque dire: condurre uno studio strutturale dell'insieme storico - nozioni, istituzioni, misure giuridiche e poliziesche, concetti scientifici - che tiene prigioniera una follia..." A fermarsi qui ciò parrebbe confermare l'immagine più scontata di Foucault come studioso delle implicazioni assoggettanti, alienanti, disumanizzanti, del sapere e del connesso potere. Ma le cose si complicano se si termina la lettura di questo passaggio, il quale prosegue: "il cui (della follia n.d.r) stato selvaggio non può essere recuperato in sé stesso"(6). Il che significa: sotto la struttura assoggettante, non c'è alcun soggetto dato da "disalienare"(7) o liberare, perché esiste solo un irredimibile "stato selvaggio". Ma significa anche che la stessa struttura assoggettante la follia è a sua volta assoggettata dal suo rifiuto della follia, cosicché anche al di sopra di tale struttura, "a capo" di essa, non c'è alcun soggetto eventualmente capace di ravvedersi, di divenire più umano, meno coercitivo. Così si potrebbe dire che il senso del conoscere e del governare la follia si trova indissolubilmente intricato col non senso (8) della follia governata. La ricerca di Foucault si situa dunque né in un "al di dentro", né in un "al di fuori", ma alla frontiera tra normalità e follia. Una frontiera che egli considera rischiarata principalmente solo da quei poeti, come Hölderlin, o filosofi, come Nietzsche, i quali (assieme a tanti altri, come Nerval, Van Gogh, Raymond Roussel, Artaud insistentemente citati in Storia della follia) l'hanno sperimentata direttamente e attestata nelle loro opere. Prima che indicare delle soluzioni, a Foucault preme, secondo un'espressione da lui stesso utilizzata, "cambiare i dati del problema". Anche a prezzo di un effetto soggettivamente paralizzante. 

Ecco: "struttura", così come è utilizzata ne La storia della follia, si può dire sia il nome di tutto questo.  Tale categoria, più che prendere il posto di "umanità", lo svuota, perché annulla ogni sua fondamentale distinzione con l'"inumano" della follia. "Umanità" e "inumanità" appaiono così come due facce della stessa medaglia e il problema cruciale diventa quello del conio.

Tra le principali fonti indicate del suo strutturalismo Foucault nella già citata prefazione de La storia della follia cita anzitutto Nietzsche, un Nietzsche paradossalmente solare - "Lo studio che segue non sarà che la prima tappa [...] di questa lunga inchiesta che, sotto il sole della grande ricerca nietzschiana, dovrebbe confrontare le dialettiche della storia con le immobili strutture del tragico". Al filosofo tedesco viene infatti riconosciuto il merito di aver "mostrato che la struttura tragica a partire dalla quale si forma la storia del mondo occidentale non è altro che il rifiuto, l'oblio e la ricaduta della tragedia" (9). La " struttura", dunque, come struttura di una separazione che, ripetendosi identica a se stessa, intensifica i suoi effetti sul divenire storico. Se nel XVI secolo, sostiene Foucault, la follia era ancora riconosciuta, anche da Erasmo, come una sorta paradossale di sapere, col XVII secolo ciò non avverrà più, anche quando, durante la Rivoluzione Francese, si libereranno i pazzi internati nell'orrore del famigerato Bicêtre.

Questo testo a sua epoca fece scandalo. Ma ciò che gli veniva imputato era più o meno condiviso da tutto il cosiddetto strutturalismo, di cui Foucault aveva saputo illustrare magistralmente le massime ambizioni: riconoscere fino alle più estreme conseguenze che la "morte di Dio" era anche "morte dell'Uomo", come dice la dottrina cristiana, "fatto a sua immagine"; dunque contestare ad entrambe queste figure del Soggetto ogni capacità creatrice per ridurle a semplici prodotti culturali, in altri tempi al centro di più strutture del sapere, ma oramai obsoleti. "Struttura" era quindi anche il tema che permetteva di intravedere possibilità fino a quel punto impensabili di un al di là di Dio e dell'Uomo. Ma nella Francia tra gli anni '50 e '60 i suoi protagonisti intellettuali si curavano anzitutto di sbarazzarsi di qualsiasi fardello umanista e quindi di ogni precedente teoria del soggetto (10).  

Lo preciserà lo stesso Foucault, più tardi, nel 1978, in un'intensissima intervista rilasciata a Trombadori, allora tra i massimi responsabili della cultura del Pci. Qui l'autore della Storia della Follia, oramai abbandonata ogni prospettiva strutturalista, menzionerà tra le fonti di tale prospettiva anche un altro cruciale ambito di ricerche. Quello degli studi su miti e folklore, nonché sul formalismo linguistico, emersi in contemporaneità con la Rivoluzione d'Ottobre nell' Europa dell'Est e lì proliferati fino poi a disperdersi "sotto il rullo compressore staliniano" (11). 

In effetti, per comprendere la portata del termine struttura negli ambienti intellettuali francesi tra gli anni '50 e '60 è essenziale il riferimento alla linguistica, specialmente a De Saussure e al circolo di Praga. Nota è, ad esempio, la formula di Lacan coniata in questi tempi secondo la quale "l'inconscio è strutturato come linguaggio", come pure è nota l'influenza esercitata sulla sua opera da parte di Jacobson. Di là da venire allora era l'ondata cognitivista americana che al nostro tempo impone ovunque la sua egemonia: il linguaggio a quel tempo non era affatto concepito come strumento di comunicazione, ponte tra natura e cultura, ma come qualcosa ad un tempo artificiale ed essenzialmente involontario, né natura, né cultura: una "struttura", appunto, che selezionando le condizioni dell'una e dell'altra disperde ogni supposta consistenza dell'umanità intesa come totalità univocamente motivata.

Tutto ciò dovrebbe bastare a convincersi che quanto è noto come "strutturalismo francese", con le sue implicazioni antiumaniste e di cui Foucault è stato figura di spicco , rientri a pieno titolo in quella tensione prometeica che tanto ha caratterizzato il XX secolo. E a maggior ragione dovrebbe giustificare il giudizio, comunque oggi quanto mai impopolare, secondo il quale l'umanismo contemporaneo, all'americana, quello che promuove il primato della persona, del pragmatismo comunicativo, del sapere fare, del dover essere tutti manager di se stessi, non sia altro che una seconda grande restaurazione (12). 

Tra le possibili obiezioni a tale convinzione e a tale giudizio ce n'è una particolarmente insidiosa. Essa consiste nel ritorcere contro questa grande stagione intellettuale dello “strutturalismo francese” la fine quasi repentina e l'oblio che ne è seguito. In effetti, col '68 e le sue conseguenze su “struttura” e “strutturalismo” comincia a scendere un silenzio interrotto solo da qualche sporadica recriminazione retrospettiva. 

Non è troppo difficile spiegarne il perché. In parole semplici: se in nome della struttura si cercava di individuare nei più disparati ambiti culturali ciò che si ripete, ciò che condiziona, al di là dei mutamenti, col '68 invece ciò che invade la scena è l'urgenza di cambiare tutto da capo e piedi, e subito. Ci si potrebbe anche convincere allora che gli "strutturalisti" non siano stati che intellettuali sorpassati, ingessati nelle loro elucubrazioni teoriche, persi nel sottrarre il loro pensiero da ideologie che i fatti dimostravano oramai obsolete, comunque incapaci nel prevedere quello scoppio di rivolte che li avrebbero rapidamente archiviati. 

Da un simile ragionamento resta però inesplicato un fatto cruciale. Che tra i protagonisti del '68 francese ci sia stato anche un gran numero di allievi dei cosiddetti strutturalisti e che nessuno di questi ultimi, o quasi, abbia preso posizione né contro le rivolte di quell'anno né contro quanto ne doveva seguire in termini di nuove mobilitazioni e organizzazioni politiche. Si sono visti così fenomeni curiosi come dei lacaniani convertiti al maoismo. Infatuazioni del momento senza rapporto con quanto precedeva? Un rapporto invece lo si può trovare. Si tratta del fatto che uno degli insegnamenti più radicali dell'antiumanismo strutturalista stava nel non dare per buona alcuna opinione, tema, nozione o problematica culturale disponibile, solo perché disponibile a livello di opinione comune. Anzi, nel diffidare di essa in quanto assai probabilmente retaggio del detestato umanismo. Per la generazione cresciuta alla scuola di gente come Lacan, Althusser, Canguilhem, Lévi-Strauss e altri di analogo orientamento, in particolare, andava da sé astenersi dal consenso per quanto in politica veniva proposto dal partito comunista, per non parlare degli altri partiti.  Ecco perché, quando circostanze che esulavano dalla dimensione della ricerca intellettuale resero possibile i tumulti del maggio '68 e tutto quanto ne doveva seguire, buona parte di questa generazione se ne trovò coinvolta. L'idea ribelle che tutto nella società e nella cultura andasse rifatto le era già famigliare, anche se solo a livello di studi.

Qualsiasi critica si possa e si voglia fare all'antiumanismo strutturalista resta che le sue ricerche hanno aperto un molteplice orizzonte oramai lontano, ma ancora da riprendere e esplorare di nuovo. Le piste aperte da Foucault dopo gli anni '60 lo confermano, ma solo in parte: non esauriscono certo la vastissima questione.

A conclusione, qualche considerazione su un aspetto che più mi interessa. Il rapporto tra pensiero e politica, ma in riferimento prevalente non più al "primo", bensì all'"ultimo" Foucault.

Prima però è opportuno è ricordare qualche episodio maggiore del suo "engagement". In effetti, il suo '68 egli lo ha fatto a Tunisi, immischiandosi in un'esperienza di una intensità tale da fargli guardare dall'alto al basso quella del maggio francese. E ricordiamo pure che in seguito ha partecipato anch'egli al fenomeno delle organizzazioni politiche extrapartitiche (il Groupe d'information sur les prisons). Altro momento biografico importante sotto questo profilo è quello tra il '78 e il '79, quando Foucault andò a seguire sul posto, infatuandosene, la rivoluzione iraniana - lo si ricordi, religiosa solo nella sua imprevedibile conclusione. La politica, insomma, non gli è mai stata indifferente. L'"esserci", nel presente, non solo come studioso e docente, è sempre stata una sua preoccupazione maggiore.

Su questo tema del presente egli è tornato con un'attenzione e una precisione quanto mai concentrate, e più volte rielaborate, in uno dei suoi ultimi testi Che cos'è l'Illuminismo (13). È di qualche passo di questo testo che ora voglio trattare.

Che vi dice dunque Foucault? Anticipando le conclusioni di questi miei commenti dico subito che tutto il sorprendente argomentare di Foucault qui finisce per ruotare attorno ad una parola chiave, un semplice "anche", un "aussi", su cui mi soffermerò. Qui trovo stia il centro problematico del presente per Foucault. Il che non indica affatto una via da seguire, ma un percorso ancora da aprire.  Mi spiego saltando tutte le considerazioni contenute in questo testo su Kant e l'Illuminismo, per arrivare alla parte conclusiva nella quale egli definisce il suo modo di intendere il suo approccio critico genealogico:  

 " [...] cette critique sera généalogique en ce sens qu'elle ne déduira pas de la forme de ce que nous sommes, ce qu'il nous est impossible de faire ou de connaître; mais elle dégagera de la contingence qui nous a fait être ce que nous somme,  la possibilité de ne plus être, faire ou penser ce que nous sommes, faisons ou pensons (neretto mio)."

La "forma", metafisica, trascendentale, diciamo astratta, si trova dunque congedata per far spazio alla "contingenza", come presente: un presente diciamo concreto, fatto non solo di teorie, ma di realtà vissute. É qui, dice Foucault, che la critica genealogica può trovare le problematiche esistenziali ("su quel che si è, su quel che non si è, su quel che si può, su quel che non si può") delle quali fare la genealogia, ossia capire come e perché si siano costituite e in seguito modificate fino al nostro tempo.

Ma se ci si ferma a questo punto, il lettore d'oggi, pragmatico e umanista, che dà priorità alla persona, e anzitutto alla sua, può trovarsi del tutto soddisfatto e aderire senza riserve a questo approccio genealogico. Seguendolo, egli può apprendere infatti come fare fronte a qualsiasi problema opprimente la sua libertà. Anziché ostinarsi a cercarvi soluzioni immediate, egli si dovrà impegnare a cercare come tale problema è formato e come si modificato nel tempo fino ad arrivare a disturbarlo personalmente. Così potrà provare a cambiare i dati stessi del problema e ritrovare almeno in parte la sua libertà. Conferma di una simile conclusione può venire anche dalla frase successiva al passo citato

" […] elle [la critique] cherche à relancer aussi loin et aussi largement que possible le travail indéfini de la liberté". 

Ma Foucault anche negli ultimi tempi della sua vita non ha dimenticato l'antiumanismo delle origini. Così ci tiene a ribadire di non voler comunque rievocare il "rêve vide de la liberté", né tanto meno di voler dar adito a simili vecchie fantasie metafisiche che distolgono dal pensare il presente come unico orizzonte reale.  Onde contenere qualsiasi fraintendimento a questo proposito egli aggiunge: 

"Cette attitude historico-critique doit être aussi une attitude expérimentale. Je veux dire que ce travail fait aux limites de nous-mêmes doit d'un côté ouvrir un domaine d'enquêtes historiques et de l'autre se mettre à l'épreuve de la réalité et de l'actualité, à la fois pour saisir les points où le changement est possible et souhaitable et pour déterminer la forme précise à donner à ce changement (neretto mio)".

Genealogie, da una parte, dunque, e, dall'altra, sperimentazione sulla realtà attuale. Ma come intendere questa sperimentazione che ci deve mettere alla prova sul presente, nel presente?  A questo proposito, egli parla di ensembles pratiques", sarebbe a dire "non pas les représentations que les hommes se donnent d'eux-mêmes, non pas les conditions qui les déterminent sans qu'ils le sachent. Mais ce qu'ils font et la façon dont ils le font. C'est-à-dire les formes de rationalité qui organisent les manières de faire [..]" in rapporto "alle cose, agli altri e a sé stessi"- viene precisato altrove.

Sembra di sentire parlare un antropologo, o forse meglio un etnografo. Di sicuro, si tratta comunque di una frontiera di ricerche mai fino ad allora perlustrata, in prima persona, dallo stesso Foucault, se non forse negli sporadici momenti di militanza o come diretto osservatore politico. Siamo dunque di fronte ad un nuovo orizzonte problematico, che Foucault riassume nella formula singolare dell'"ontologia di noi stessi". In tale orizzonte, le ricerche critiche storiche ovvero genealogiche si dovrebbero dunque accompagnare ad un altro tipo di ricerche, sperimentali, cioè più prossime alle inchieste antropologiche e etnografiche, da svolgersi diciamo tra la gente qualunque, per cogliere quale razionalità essi adottano nel corso delle loro pratiche in rapporto alla realtà, agli altri e a se stessi.   

Il tutto nella prospettiva chiaramente politica di cercare come disconnettere la razionalità delle pratiche (in rapporto alla realtà, agli altri e a sé stessi) dalle relazioni di potere, malgrado il loro intensificarsi (14). Diciamo, semplificando, come promuovere ciò che i governati sono, fanno e pensano senza subire o seguire le logiche sempre più invasive dei governanti.

Si tratta dunque di un vero e proprio progetto volto a reimpostare il rapporto tra pensiero e politica al di fuori di ogni logica di intensificazione del potere, dunque anche al di fuori di qualsiasi logica di partito. In Foucault troviamo infatti anche la messa in guardia contro le tentazioni di ripercorrerne involontariamente le vie già usurate: egli ammette che la sua proposta è praticabile solo a livello locale e frammentario, ma sostiene anche che solo così si possono evitare quei programmi di mutamenti generali, a pretesa immediatamente universalistica che sono possibili, solo se dedotti da idee metafisiche o dall'esigenza di accrescere quote di potere già detenute. I dettagli del come mettere in opera un simile nuovo progetto non sono ovviamente precisati da Foucault, ma la sua impostazione è di una rara chiarezza, piena di altri passaggi illuminanti su cui qui non posso soffermarmi. 

Ma insorge allora una domanda: dopo tanto successo del Foucault archeologo critico del sapere, del potere e dell'"aleturgia", cultore dell'etica dell’autogoverno e della "parresia", non sarebbe il caso di provare a promuovere anche questo Foucault, più marcatamente politico, per una politica tutta incentrata sul presente? L'"ontologia di noi stessi" non può forse essere intesa come premessa per un profondo rinnovamento della politica? 

Ciò implicherebbe un ripensamento di tutta la sua opera, al di là delle riprese di questa o quella sua parte come oggi è di moda. A far ostacolo a questo ripensamento c'è però quell'"anche" che limita il problema della connessione tra l'attitude historico-critique e l'attitude expérimentale come se si trattasse solo di un'aggiunta. Con la conseguenza maggiore, di stabilire un'inevitabile priorità della prima sulla seconda, e quindi di affrontare le problematiche del presente privilegiando il loro passato. Detto altrimenti, l'"atteggiamento sperimentale", che Foucault introduce come condizione obbligatoria per pensare il presente come realtà, non implica forse che sia proprio esso a dovere far scegliere quali ricerche storiche sul passato meritino la priorità su altre - e non viceversa? Se si risponde positivamente a questa domanda, allora appare in nuova luce anche il problema maggiore di chi e come, quale agente o "soggetto", possa essere in grado di articolare tra loro attitude expérimentale e attitude historico-critique. Dal momento che si tratterebbe di connettere attività intellettuali tra loro così tra loro disomogenee come le inchieste sul presente e lo studio sul passato di tale presente, dovrebbe apparire chiaro che nessun singolo ricercatore, pur eticamente ben orientato, potrebbe tener testa al compito. Occorrerebbe allora discutere dell'organizzazione più consona allo scopo. Lo stesso Foucault ha ininterrottamente proposto e praticato gruppi di studio, ma inevitabilmente ogni loro organizzazione dipendeva dal prestigio del proponente, prestigio, il quale a sua volta dipendeva dai suoi magistrali studi di tipo storico. Se si desse invece la priorità che merita all'attitude expérimentale non si dovrebbe allora pensare piuttosto ad un'organizzazione più propriamente politica - ferme restando le sue indicazioni a non dovere mai volere giungere programmi generali, immediatamente universalistici, da partito? E ancora: una volta ammesso che è la conoscenza della realtà presente a dovere orientare la conoscenza del passato, non si dovrebbe anche ripensare anche lo stesso metodo genealogico? Non si dovrebbe forse ammettere che non basta pensare il passato di questa o quella problematica come discontinuità? Non si dovrà forse azzardare l'ipotesi che il passato non esiste neanche come discontinuità, perché esiste sempre solo il passato di un presente?   







Note:

[1] Razionalismo e politica, dopo Foucault, in Scienza e politica. Per una storia delle dottrine,  vol. 5, n. 9, 1993 (http://scienzaepolitica.unibo.it/)

[2] L'amore della politica. Pensiero, passioni e corpi nel disordine mondiale, Mucchi, Modena, 2014

[3] Titolo dell'incontro organizzato a Bologna in ottobre 2014 da OfficinaMentis dove ho presentato una relazione di cui il presente testo è versione ampiamente rielaborata.

[4] Tra i più recenti effetti positivi di questa moda, a solo titolo di esempio tra i tanti, segnalo i libri di chiara ascendenza foucaultiana quali quelli di Valeria Pinto, Valutare e punire, 2012 e Eleonora De Conciliis, Cosa significa insegnare, 2014, entrambi editi a Napoli, presso Cronopio, unitamente al saggio di Armando Cutolo e Richard Banégas, Parlements de la rue, pratiques oratoires et subjectivation politique en Cote d'Ivôire in Politique africaine, Karthala, Paris, 2012. Temi così disparati che dimostrano l'estrema polivalenza delle ispirazioni derivabili dall'opera di questo intellettuale.

[5] Jean Claude Milner, Périple structurale. Figure et paradigme, Paris, Verdier, 2008.

[6] MichelFoucault, Storia della follia nell'età classica (traduzione di Franco Ferrucci e cura di Mario Galzigna), Rizzoli, Milano, 1973, p.48

[7] espressione utilizzata dallo Foucault sei anni prima, nel 1954: vedi Dits et écrtits, Paris, Gallimard, 1994, vol. IV, testo n. 287.

[8] Storia della follia..., cit., p.47

[9] ibi, pp.45-46

[10] vale la pena qui ricordare la famosa e controversa formula estrema di Althusser in favore di una "storia senza soggetto, né fine(i)".

[11] Dits et écrits, cit. vol IV,  testo n. 281

[12] Alain Badiou, Le siècle, Paris,Seuil, 2005

[13] Qu'est-ce que les Lumières? in Dits et écrits, Vol IV, cit., pp.562-578

[14] L'enjeu est donc: comment déconnecter la croissance des capacités et l'intensification des relations de pouvoir? (neretto mio)

(IN)ATTUALITA’ DEL PENSIERO CRITICO 2015-2017

MATERIALI FOUCAULTIANI. PRIMA PARTE

PREMESSA

I materiali che pubblichiamo provengono da un seminario durato tre anni che tenemmo a Bologna dal 2015 al 2017. Cercammo di costruire uno spazio - mentale e fisico – che fosse aperto al solo “piacere” di conoscere ed esplorare, che permettesse di estraniarsi spazialmente e simbolicamente da logiche celebrative o accademiche, coerente con la nostra volontà di far circolare un pensiero che, pur nella sua bruciante e scomoda attualità - e forse proprio per questo - rischia sempre di scivolare nella galassia opaca dell’inattualità, al pari di altri grandi pensieri che la modernità avrebbe ormai “superato” e reso desueti. 

La cancellazione può seguire molte vie, da quelle più grossolane della semplice espulsione a quelle più insidiose dell’integrazione e dell’addomesticamento. Indagatore lucido e critico, capace di passare dalla filosofia alla storia, dalla psicoanalisi alla politica, dalla psichiatria alla giustizia, il pensiero di Foucault non si è mai lasciato chiudere dentro ambiti circoscritti e non ha mai cessato di evolvere. Si è fondato sempre su una passione irresistibile e mai placata: cercare da dove vengono e come si formano i nostri discorsi. Rivelare instancabilmente la trama dei rapporti di potere che in essi si nasconde. Scavare da archeologo, strato dopo strato. Da un’epoca all’altra. Da un sapere all’altro. Rivendicando la sua non appartenenza né al campo dei filosofi né a quello degli storici, Foucault dichiarò in un’intervista: “Io sono un artificiere. Fabbrico qualcosa che alla fin fine serve a un assedio, a una guerra, a una distruzione. Io non sono per la distruzione, ma sono a favore del fatto che si possa passare, che si possa avanzare, che si possano abbattere i muri”. Ha ancora qualcosa da dirci questo pensiero turbolento? È ancora pertinente? Che ne è oggi di Foucault e della sua capacità di erodere le nostre certezze?

I materiali che rimettiamo in circolo attraverso le pagine del sito toccano il campo della malattia mentale, della salute e della follia, del corpo e della sessualità ma, poiché il seminario da cui provengono e di cui testimoniano rifiutò di chiudersi nel tempo e negli obiettivi limitati e prefigurati di un “corso”, si alimentano della varietà e della eterogeneità dei sentieri incessantemente e talora inaspettatamente aperti da questa opera immensa. 

Foucault tra il sé e il noi. Come lasciarlo alla sua irrequietezza

Stefano Catucci

https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003137750

16 Novembre 2008

Nella sempre più ampia quantità, di studi dedicati a Michel Foucault alcune immagini e alcune citazioni ricorrono e mostrano l'urgenza di un problema: come leggere i suoi scritti e come usare le sue indicazioni di ricerca senza annettere un pensiero così irrequieto agli imperturbabili classici d'accademia? Per un verso si tratta di un destino inevitabile giacché ogni esperienza filosofica, a mano a mano che si storicizza, tende a fissarsi nei testi che la esprimono e diviene perciò oggetto di analisi letterali, se non proprio di una pratica filologica. Ma per un altro verso è un paradosso, dato che Foucault ha contestato con forza, e costantemente, il predominio della «cultura del commento» e denunciato la piccola pedagogia spicciola nascosta nell'idea che una filosofia sia interamente compresa nei suoi testi. Quella della «cassetta degli attrezzi» è l'immagine che Foucault metteva a disposizione per chi volesse incamminarsi sulle piste di ricerca da lui avviate, una immagine che viene spesso utilizzata per sottolineare la priorità dell'uso di un pensiero rispetto alla fedeltà di un'interpretazione. E vi andrebbe aggiunta una citazione, quella secondo cui «il solo segno di riconoscimento che si possa testimoniare a un pensiero consiste nell'utilizzarlo, nel deformarlo, nel farlo stridere e gridare» senza accordare alcun tipo di interesse al criterio della «fedeltà» a un dettato: viene impiegata per rafforzare l'idea che la sua opera sia refrattaria a quei processi di acquisizione i quali, trasformandola in un classico, la normalizzano privandola del suo carattere più esplosivo, del suo essere un esempio di pratica critica e non un corpo di dottrine da applicare.
Un pensiero enigmatico
È significativo che quell'immagine e quella citazione compaiano in diversi contributi del volume Foucault, oggi, curato da Mario Galzigna (Feltrinelli, 2008, pp. 308). Pur nella discontinuità tipica dei libri collettanei, tanto più forte se - come in questo caso - nascono come raccolta degli atti di un convegno, gli interventi ruotano essenzialmente intorno all'interrogativo posto da Alessandro Fontana nel saggio di apertura: come leggere Foucault oggi. Fontana appartiene alla generazione degli allievi diretti di Foucault ed è tra coloro che portano il maggior merito dell'impresa che ha condotto alla pubblicazione delle sbobinature dei corsi tenuti al Collège de France. La sua, tuttavia, non è una voce che riporta all'insegnamento vivo di Foucault giudicando quanto vi si sia rimasti «fedeli». Offre piuttosto indicazioni di metodo che vengono incontro anche alla frequente delusione di chi, confidando fin troppo nell'immagine della «cassetta degli attrezzi», cerca di applicare al presente le intuizioni di Foucault nella speranza di trovarvi indicazioni concrete sulle pratiche di resistenza e di militanza, dunque su una prassi politica che, essendo tutta da reinventare, troverebbe nei suoi scritti un suo primo, foss'anche provvisorio abbecedario. Foucault però, osserva Fontana, non ha «prodotto 'saperi'», non ha elaborato concetti universali, «categorie astratte e forme trascendenti o trascendentali» da applicare. Il suo, semmai, è un pensiero «enigmatico» e «ambiguo», che non si lascia ricondurre a precetti generali ma obbedisce a una forza dispersiva irriducibile a un catalogo ordinato di strumenti.
La via da lui indicata è quella della sfida critica nei confronti dei saperi consolidati. Lasciate perdere perciò, consiglia Fontana, «esegesi e commenti», e «fate funzionare le macchine analitiche nel reale» senza trasformare l'esempio delle sue ricerche in un corpus di dottrine. Solo così, avverte ancora, si può intendere la relazione viva che intercorre tra i libri di Foucault, i suoi corsi, le interviste e gli interventi sparsi che Deleuze definiva «linee di attualizzazione» della sua filosofia. La tentazione ermeneutica che mira a intendere anche la lezione orale di Foucault come un testo scritto, insomma, dovrebbe essere rovesciata fino a leggere anche nei suoi libri non la fissazione di un programma, ma una prestazione critica in atto.
Le parole di Fontana spingono lo sguardo sul ruolo che Foucault assegnava alla storia come cardine del suo progetto di filosofia critica. È questo, sia pure in una modulazione differente, ciò che preoccupa anche Paul Veyne nel libro Foucault. Sa pensée, sa personne, pubblicato di recente in Francia dall'editore Albin Michel (pp. 216). Veyne, che di Foucault è stato collega al Collège de France, amico e «consulente» per i problemi riguardanti la storia antica al centro degli ultimi scritti foucaultiani - ma idee e analisi, scrive, erano come l'arco di Ulisse «che lui solo aveva la forza di tendere», mentre «il mio ruolo» si riduceva «a confermare le sue informazioni e a dargli conforto» -, vede appunto nella forza esplicativa attribuita al gioco delle singolarità storiche e nel rifiuto di sottometterle a principi generali la novità rivoluzionaria del pensiero di Foucault. Tramite l'ancoraggio ai temi concreti della ricerca egli metteva in questione i presupposti più radicati della metodologia storica, in primo luogo il totem della relazione causa-effetto, e contemporaneamente strappava ai filosofi la maschera di protezione formata dal ricorso a categorie universali. La storia si presentava così, agli occhi di Foucault, come un crogiuolo di differenze e la filosofia come un'esperienza del dettaglio il cui empirismo radicale, sostiene Veyne, sfiora lo scetticismo senza però scivolare nel nichilismo. A trattenerlo su questa soglia è la constatazione dell'esistenza della libertà: libertà di avere convinzioni, speranze, indignazioni, libertà di ribellarsi. Neppure l'esercizio della libertà, però, doveva essere ricondotto a principi generali: «non utilizzate il pensiero per dare valore di verità a una pratica politica», aveva scritto nel 1977. Compito di uno «storico foucaultiano», oggi, è dunque per Veyne riconoscere il peso delle singolarità al di sotto dei tessuti unitari che continuiamo a stendere su di esse, rintracciare discontinuità e differenze laddove tendiamo a vedere continuità e somiglianze. Il Foucault raccontato da Veyne è dunque un «antropologo empirico» più vicino a Montaigne e a Nietzsche che a Heidegger, un «antropologo» per il quale ogni storia realmente critica, e ogni filosofia ancorata sulla storia, dovrà infine essere una «storia della verità», ovvero dei modi in cui ogni epoca ha prodotto i propri parametri di verità senza cessare di variarli: «ontologicamente parlando», conclude Veyne, «non esistono che variazioni», mentre la dimensione metastorica «non è che un nome privo di senso».
Sarebbe difficile ad ogni modo, e non solo per uno spirito sofistico, negare che le indicazioni di Foucault sul modo di intendere una filosofia, usandola più che interpretandola, o sulla maniera di fare storia, indagando le singolarità e le variazioni piuttosto che le continuità, non siano filosofemi di carattere generale e non sottintendano in alcun modo una dottrina. Certo, come ha riconosciuto Daniel Defert, Foucault ha esplicitato raramente i grandi temi della sua filosofia, lasciando di fatto ai suoi commentatori quello che Veyne definisce un «temibile compito». Fra la prosecuzione delle sue ricerche sul terreno concreto delle analisi storiche e l'interpretazione dei suoi scritti non c'è, allora, solo quella profonda distanza che appariva a prima vista, ma anche un rapporto di complementarità. E che le interviste, le conferenze e le lezioni di Foucault vengano trattate, oggi, a tutti gli effetti come «testi» dipende in gran parte proprio dal fatto che in esse egli ha evocato i principi della sua filosofia più spesso, e più esplicitamente, di quanto non abbia fatto nei libri pubblicati. Un esempio del rapporto complementare fra uso e interpretazione del dettato foucaultiano viene da quei contributi che, nel volume Foucault, oggi, prendono in considerazione il tema della biopolitica, l'attrezzo senza dubbio più diffuso, riprodotto e imitato fra quelli che riempiono la famosa cassetta. Dai saggi di Roberto Esposito, Ottavio Marzocca e Judith Revel emerge come una corretta ricostruzione del pensiero di Foucault serva non tanto a definire un gradiente di fedeltà letterale, quanto piuttosto a delineare un orientamento politico. Particolarmente chiare, in questo senso, le puntualizzazioni di Revel: la dimensione biopolitica non funziona per Foucault come una chiave universale per comprendere l'attualità e non indica neppure uno strato di roccia comune a tutti, la vita biologica della specie, sul quale edificare il proprio sé, la propria singolarità. Ciò che è comune, semmai, dev'essere costruito per Foucault a partire dalla proliferazione delle differenze che si oppongono al riduzionismo biologista: è la costruzione di una pluralità di «modi di vita», intesi come nuclei di resistenza alle forme di assoggettamento dei dispositivi biopolitici, a rappresentare per Foucault la posta in gioco politica di quella che, soprattutto negli ultimi scritti, egli ha insistentemente definito un'«etica». Questa non lascia intravedere il movimento di un ritiro verso la cerchia delle relazioni private, come pure viene spesso sostenuto, ma la produzione di uno spazio comune a partire da un soggetto non invischiato nelle definizioni identitarie, bensì concepito come «forza creatrice».
Un interrogativo sulla democrazia.
La dimensione del «noi», scriveva Foucault, non è qualcosa che ci sia stato assegnato preliminarmente, per natura, ma un obiettivo da problematizzare di continuo per renderne possibile la «futura costruzione». E la biopolitica non è il margine entro cui sono confinate le nostre pratiche politiche, ma il limite che occorre oltrepassare per assumere, nei confronti del potere, un atteggiamento «affermativo» e non solo «difensivo».
Il rapporto fra la costruzione del «sé» e del «noi», fra la costituzione autonoma della propria soggettività e la relazione con l'altro, è al centro anche del volume che Vincenzo Sorrentino ha intitolato Il pensiero politico di Foucault (Meltemi, pp. 309) e che ricostruisce un intero percorso filosofico a partire dai suoi esiti finali. Un lavoro di interpretazione, quello di Sorrentino, ma guidato da una interrogazione sulla democrazia che negli scritti di Foucault assegna esemplarità etica anche a figure antiche, come quella greca della parresia: il «parlar franco» del filosofo di fronte al potere, il coraggio della verità che a rischio della vita afferma il diritto della critica come principio di una pratica di libertà. Di qui, secondo Sorrentino, è possibile delineare la visione che l'ultimo Foucault profila dell'individualità, assai diversa da quella atomistica della cultura dominante, e sciogliere dalle ambiguità per quanto possibile la sua filosofia politica, aprendola a usi e prosecuzioni non impugnabili a piacere da ogni parte.

2015: sintesi degli incontri

Malattia mentale e psicologia, di M. Foucault 

Daniela Iotti e Angela Peduto

9 Febbraio 2015

È presentato e discusso il primo libro scritto da Michel Foucault, Malattia mentale e psicologia, con particolare attenzione all'Introduzione (pp. 1-2) e alla seconda parte del libro (Follia e cultura, pp. 69-101).

È un libro dalla genesi travagliata.  Esce nel 1962 per le Presses Universitaires de France. È la seconda edizione. La prima, commissionata a Foucault da Louis Althusser, era uscita nel 1954 col titolo di Maladie mentale et personnalité. Il manoscritto era stato completato nell’inverno 1952-53, verosimilmente poco prima dell'introduzione alla versione francese, uscita nel 1954, di Traum und existenz di Binswanger, introduzione considerata il solo testo fenomenologico che Foucault abbia scritto. Questa prima edizione sarà da Foucault sconfessata e comunque completamente rimaneggiata dopo l'uscita di Storia della follia nel 1961, portando così alla versione definitiva del 1962.

Scompare in questa versione ogni riferimento a Pavlov (presente nella prima), scompare l'orizzonte hegelo-marxista e la parola "personalità" presente nel titolo è sostituita dalla parola "psicologia". Infatti ora, dopo l'impresa di Storia della follia, è tra la malattia mentale e la psicologia che si gioca la partita. La parola "personalità" rinviava all'individuo nella sua costituzione e nella sua storicizzazione personale. La parola "psicologia" rinvia all'esercizio della conoscenza, al costruirsi di un sapere intorno all'uomo e dunque al rapporto tra ragione e sragione, tra psicologia e follia. 

Questa prima opera foucaultiana, spesso dimenticata dai critici, verrà ricordata da Jacques Derrida nel libro Essere giusti con Freud. Storia della follia nell’età della psicoanalisi, del 1992. Derrida dirà che il padre della psicoanalisi è per Foucault come una cerniera: per quanto possa avere i suoi natali nel positivismo ottocentesco, Freud ha riaperto il dialogo con la follia e per quanto possa Foucault criticarlo, è grazie a lui che tutte le sue opere sono state possibili. (link verso i due articoli di Angela e Daniela)

Ragione/sragione: la Storia della follia nell’età classica, di M. Foucault

Raffaele Riccio

9 marzo e 13 aprile 2015 

Raffaele Riccio ci ha introdotti, con uno sguardo squisitamente storico, nel vivo della Storia della Follia (con riferimento all’ed. Rizzoli BUR, Milano 1997); il suo intervento si sofferma sui capitoli La grande paura, La nuova separazione e La nascita del manicomio

L’analisi foucaultiana del fenomeno dell’internamento, messo in atto dalle società del XVII secolo nei confronti dei folli, degli insensati, dei dementi, si svolge diacronicamente. La sua analisi della follia è una disamina storico–sociale complessa, che attraversa e lega assieme storia della medicina, definizioni filosofico–religiose, considerazioni economico–sociali. Dalla “nave dei folli”, che nel Medioevo era spettacolo del tragico e detentrice di una verità altra, si passa al Rinascimento, che ingloba la follia nella ragione. Poi Cartesio: il Cogito espelle dalla ragione la follia quale dé-raison, s-ragione, benedicendo filosoficamente l’apertura dell’Hôpital Générale nel 1656.  

Ma la follia sfugge ad ogni definizione, ad essa ci si può solo avvicinare. Solo un’interpretazione “aurorale” e non predefinita, secondo Foucault, può permettere di sondare il suo mistero, quel nesso ragione/sragione che ogni uomo deve affrontare.

Nel cuore dell’âge classique, la follia prende voce col Nipote di Rameau di Diderot e con i personaggi del marchese de Sade: ormai la follia ha forma esplicita di déraison, la cui radice non è biologica ma etica. La Rivoluzione francese entrerà negli asili con la figura ambigua di Pinel: egli scarcera i folli, è vero, ma la follia resta nel recinto della reclusione e del controllo. A questo movimento fanno da sfondo le pitture di Goya.

Una figura convocata nella Storia della follia è Georges de La Tour, pittore barocco della    prima metà del ‘600; egli è, per Foucault, profeta dell’età classica di Cartesio. Si può già scorgere quella che sarà l’egemonia del metodo scientifico nelle luci tremolanti di candele che popolano i suoi quadri, pur nell’incerto limite tra luce e buio. Ma proprio a questo buio lo scrittore francese Pascal Quignard, trent’anni dopo, in un libro dedicato al pittore, tenterà di dare voce. L’operazione di Quignard è indipendente, almeno esplicitamente, dall’analisi foucaultiana e la linea interpretativa è ad essa del tutto opposta. 

Foucault di moda? 

Valerio Romitelli

11 maggio e 15 giugno 2015

L’intervento del prof. Valerio Romitelli ha inteso sollevare critiche all’impostazione storiografica sottesa alla Storia della follia, trattando in particolare i capitoli La grande paura e Del buon uso della libertà, rispettivamente primo e terzo capitolo della terza parte.

La Storia della follia è opera quanto mai vasta, complessa, ricca di suggestioni. In essa è presupposta un'idea di storia in generale, che può essere individuata e analizzata, anche se non è mai esplicitata come tale.

Quanto essa deve all'opera di Nietzsche? Quanto alla sua polemica con la filosofia della storia universale di Hegel? Quali prossimità e distanze quest'opera di Foucault mantiene rispetto al materialismo storico?  In termini di visione della storia quali altre opzioni sono oggi disponibili?

Romitelli parla della polemica con la filosofia della storia universale di Hegel. Non più, quella di Foucault, una storia progressiva, lineare, a sviluppo positivo e che si compie con la teoria dello Stato, ma una storia regressiva. La nave dei folli medievale è vista con nostalgia, mentre di quell’evento che fu la Rivoluzione francese, incarnato dall’atto di Pinel che libera i folli, la Storia foucaultiana evidenza solo le contraddizioni: non è servito liberare i matti dalle catene, ha portato solo a qualcosa di peggio. Quanto al debito verso Nietzsche, è secondo Romitelli forte. Il cerchio antropologico, capitolo conclusivo, vuole essere un’allusione esplicita all’Uroboro dell’Eterno ritorno   nietzschiano.    Inoltre      viene ribadito, col Derrida di Essere giusti con Freud, il debito di Foucault nei confronti di Freud: senza quest’ultimo, tanto criticato, e senza la psicoanalisi, Foucault non avrebbe potuto scrivere il suo libro.

Il pensiero critico di François Jullien

Daniele Barbieri

12 ottobre e 9 novembre 2015

Come Michel Foucault usa il grimaldello della storia per analizzare da fuori un certo numero di aspetti del pensiero contemporaneo, così François Jullien, sinologo e filosofo, usa il pensiero classico cinese per permetterci di osservare quegli aspetti del nostro pensare che diventano per noi invisibili perché troppo vicini. Attraverso le sue analisi nozioni come quelle di ragione, legge, libertà, ideale, che diamo normalmente per scontate e universali, si rivelano conseguenze del pensiero di Platone, a loro volta legate alla nostra (indo-europea-semitica) specifica struttura del linguaggio, ben differente da quella cinese.

Nel corso di due incontri Daniele Barbieri sviluppa i principi generali del pensiero di Jullien, soffermandosi in particolare su due libri, di interesse per gli studi di psicoanalisi: Cinq concepts proposés à la psychanalyse (2012) e De l’intime (2013).

Nel primo incontro vengono esposte le linee generali del pensiero di Jullien, cioè come egli utilizza il pensiero classico cinese per tentare di dare una visione differente del nostro pensiero. Vengono mostrate la località e la storicità di una serie di concetti fondamentali che risalgono a Platone (cfr. L'invention de l'idéal et le destin de l'Europe, 2009) e ad Aristotele (cfr. Si parler va sans dire, 2006), in particolare concetti come essere, verità, idea e ideale, soggetto, legge, libertà... 

Il pensiero classico cinese si fonda su concetti diversi da questi, per i quali talvolta nemmeno esiste il corrispondente nella lingua cinese: più clamorosa tra tutte è l'assenza in cinese dell'essere inteso come sostantivo, concetto su cui si fonda l'intera filosofia occidentale. A un pensiero dell'essere, dell'ideale e del soggetto si contrappone un pensiero della processualità e dell'opportunità; a un pensiero della legge e della libertà si contrappone uno della ritualità e della disponibilità, in cui il valore supremo non sembra essere quello della verità (fondamento di una visione cognitiva del mondo) ma quello dell'armonia (valore cardine di una concezione interattiva dello scorrere delle cose). Non si tratta di esaltare il pensiero cinese a scapito di quello occidentale: Jullien è molto critico anche nei confronti della concezione cinese. Si tratta di usare ciascuno dei due pensieri per focalizzare i confini dell'altro, ma, poiché siamo occidentali, sono ovviamente i confini del nostro pensiero a interessarci (cfr. De l’Être au Vivre. Lexique euro-chinois de la pensée, 2015).

Il secondo incontro si focalizza sugli aspetti del pensiero di Jullien relativi alla sfera psichica e affronta in particolare due libri: De l'intime. Loin du bruyant Amour (2013) e Cinq concepts proposés à la psychanalyse (2012). Il primo ci mostra come lo spazio dell'intimo – tanto quello personale quanto (soprattutto) quello a due - sia sostanzialmente un'invenzione della modernità, sconosciuto agli antichi (e ai cinesi), impensabile prima di Sant'Agostino e lentamente sviluppatosi nella quotidianità dell'Occidente sino alla sua definitiva affermazione con Rousseau. L'intimo è quella dimensione del rapporto con sé stessi o con l'altro (un altro, raramente più di uno) in cui la parola tiene una posizione marginale e sono altri aspetti della relazione a far sentire la profondità che lo caratterizza. Questa problematicità della dimensione verbale caratterizza anche le proposte che Jullien fa alla psicoanalisi, sotto forma di cinque concetti provenienti dal pensiero cinese: disponibilità, allusività, obliquità o influenza, de-fissazione, trasformazione silenziosa. Di nuovo, non si tratta di esaltare il pensiero cinese rispetto a quello occidentale (da cui deriva anche la psicoanalisi), ma di vedere come la psicoanalisi possa approfittare di alcuni concetti sviluppati in Cina per fondare più chiaramente la propria prassi, rispetto ad alcune aree che rimangono problematiche quando viste con il nostro, occidentale, armamentario cognitivo.

Malattia mentale e psicologia 

Una introduzione

Angela Peduto

La nave dei folli, Guerrilla Spam 2017

Il dio è giorno e notte, inverno ed estate, guerra e pace, sazietà e fame. 

E muta come il fuoco quando si mischia ai profumi odorosi, 

prendendo nome di volta in volta dal loro aroma 

Eraclito

È un piccolo libro in cui, al di là dei contenuti, il modo di procedere che apparterrà sempre a Foucault è già tutto presente: il rigore dell'analisi, la lucidità del questionare, l'articolarsi coerente e conseguente delle argomentazioni, il tutto dispiegato dentro uno stile limpido che nulla concede né all'approssimazione né all'oscurità.  Il linguaggio di Foucault è preciso, dice quello che vuole dire; ed è esigente, la necessità della ricerca non ammettendo riposo.

Una vicenda editoriale complicata

Maladie mentale et psychologie esce nel 1962 per le Presses Universitaires de France. È la seconda edizione. La prima, commissionata a Foucault da Louis Althusser, era uscita nel 1954 col titolo Maladie mentale et personnalité. Il manoscritto era stato completato nell'inverno 1952-53, verosimilmente poco prima dell'introduzione alla versione francese, uscita nel 1954, di Traum und existenz di Binswanger, introduzione considerata il solo testo fenomenologico che Foucault abbia scritto. Questa prima edizione sarà da Foucault sconfessata e comunque completamente rimaneggiata dopo l'uscita di Storia della follia nel 1961, portando così alla versione definitiva del 1962. In ogni caso Foucault considererà sempre Storia della follia il suo primo libro.

Il giovane Foucault ha ottenuto il diploma di psicopatologia a Parigi nel giugno del 1952, ha frequentato l'Ospedale Sainte-Anne, si è nutrito della lettura di Hegel, Marx, Freud, Heidegger. È influenzato dall'adesione al PCF e dal pensiero degli psicologi marxisti. Questo spiega probabilmente la presenza nella prima edizione di Maladie mentale di riferimenti a Pavlov, guardato favorevolmente dalla psicologia marxista perché forniva una base teorica al tentativo di fondare quella "scienza psicologica materialista" auspicata dal partito comunista.

Ma nell'estate del 1953 Foucault, che intanto ha abbandonato il PCF, si dedica allo studio di Nietzsche: questo modificherà radicalmente l'orientamento teorico della sua ricerca.

Cosa succede nel passaggio editoriale dal 1954 al 1962? La prima parte resta immodificata nell’impianto generale, ma Foucault apporta alcune variazioni di contenuto nella parte introduttiva di cui parleremo dopo.

La seconda parte viene invece completamente riscritta per l'edizione del 1962. Scompare ogni riferimento a Pavlov, scompare l'orizzonte hegelo-marxista e la parola "personalità" presente nel titolo è sostituita dalla parola "psicologia". Perché? Ma perché ora, dopo l'impresa di Storia della follia, è tra la malattia mentale e la psicologia che si gioca la partita. La parola "personalità" rinviava all'individuo nella sua costituzione e nella sua storicizzazione personale. La parola "psicologia" rinvia all'esercizio della conoscenza, al costruirsi di un sapere intorno all'uomo e dunque al rapporto tra ragione e sragione, tra psicologia e follia. 

Dal 1954 al 1962

Se si confrontano le versioni del 54 e del 62 si misura tutto il percorso che Foucault ha dovuto percorrere prima di inoltrarsi nella ricerca che porterà avanti per una ventina d'anni, fino alla Storia della sessualità del 1984.

Vediamo alcune variazioni importanti.

Introduzione generale

Pone la questione generale alla quale rinvieranno tutte le analisi ulteriori: in che modo si è arrivati a parlare di malattia mentale? quali discorsi sono stati sviluppati intorno alla malattia mentale? su quali presupposti si basano questi discorsi, che hanno preso la forma di saperi?

Ora, nella riscrittura del testo si annunciano due idee assenti nel ‘54, che delimiteranno tutto il campo teorico della Storia della follia. Nel ‘54 Foucault vuole confrontare la rappresentazione della malattia mentale con “una riflessione sull’uomo (in sé) stesso”. Nel ‘62 diventa “un certo rapporto, storicamente situato, dell’uomo all’uomo folle e all’uomo vero”.

Le due idee che compaiono sono dunque:

-   non c'è riflessione possibile sulla realtà umana che non sia storicamente situata, ed è solo nella storia che questa riflessione trova le sue basi effettive

-  la follia, che è qualcosa di essenzialmente differente dalla malattia mentale, intrattiene un rapporto fondamentale con la verità. Su questo punto torneremo in seguito).

Primo capitolo

Il primo capitolo riprende e sviluppa questi temi introduttivi. Spiega come il concetto di malattia mentale si sia affrancato dai presupposti validi per la medicina organica, prendendo la forma di uno studio propriamente psicologico.

1954: “La patologia mentale deve affrancarsi da tutti gli astratti postulati di una metapatologia: l’unità che quest’ultima può garantire tra le diverse forme di malattia è sempre artificiosa; è l’uomo reale che porta di fatto la loro unità”

1962: “La patologia mentale deve affrancarsi da tutti gli astratti postulati di una metapatologia: l’unità tra le diverse forme di malattia che quest’ultima può garantire è sempre e solo artificiosa; ciò significa che deriva da un fatto storico da cui ci siamo già messi al riparo”.

È evidente che la formulazione del ‘54 oppone all’essenza astratta della malattia una verità effettiva e concreta dell’uomo. Ecco perché la versione del ‘62 cambia: il soggetto della malattia mentale non è qualcosa di oggettivo o di autentico che persiste dietro le interpretazioni posticce che lo dissimulano, ma è un essere storico, la cui unità deriva da condizioni in perpetua trasformazione, che ne escludono ogni stabilità e permanenza. Per questo rendere conto della specificità della vita mentale non consiste nel "ricercare le forme concrete che essa può prendere nella vita concreta di un individuo"(‘54), come diceva la prima edizione, ma "cercare le forme concrete che la psicologia ha potuto assegnarle" (‘62).

Nella riscrittura del ‘62 la psicopatologia diventa dunque "un fatto di civiltà". Non si tratta più di spiegare, come nel ‘54, la malattia mentale per sé stessa, ma si tratta di riportare i discorsi e le pratiche di cui essa è fatta oggetto alle condizioni che li costituiscono storicamente, al di fuori di ogni determinazione reale scaturita da un significato oggettivo o positivo.

Le dimensioni psicologiche della malattia

Questa prima parte del libro espone, come dice il titolo stesso, "le dimensioni psicologiche della malattia" e mostra come i vari approcci psicologici della malattia l’abbiano di fatto staccata da una concezione essenzialista o naturalista.

La malattia mentale è stata interpretata 

-  come un fatto di evoluzione (punto di vista jacksoniano)

-  come un momento nella storia individuale (punto di vista della psicoanalisi)

- come senso offerto ad una comprensione esistenziale (punto di vista fenomenologico)

Nella seconda versione questa parte resta immodificata: Foucault continua evidentemente a pensare che la psicologia abbia permesso l'affrancamento dalla medicina organica: la psicologia ha proposto una descrizione della malattia mentale fondata non su rappresentazioni negative o su deficit, come la patologia organica, ma su conflitti tra l’esistenza passata e quella presente, tra il mondo interiore e quello esteriore dell’individuo, e in questo modo ha effettivamente offerto uno sguardo nuovo. Il limite di queste interpretazioni psicologiche è che presentano come esplicativo ciò che invece ha solo valore descrittivo e restano ancorate al presupposto di una esistenza umana presa come dato “reale” anziché “storico”. In altre parole, non riescono a collocare la malattia mentale nel sistema strutturale che ne condiziona l’emergenza, il sistema cioè delle condizioni storiche. Così nella seconda parte del libro la questione del senso e della portata di quella nozione che è la malattia mentale sarà trasportata su tutt'altro terreno. Ma questo allora vuol dire che la persistenza di questa parte è solo apparente, in quanto la caratterizzazione psicologica della malattia mentale sfocia su un ordine di problemi del tutto nuovo. 

1954: “Ma con ciò siamo forse giunti a uno dei paradossi della malattia mentale, il che ci costringe a trovare nuove forme d’analisi: se la soggettività dell’insensato è, al tempo stesso, appello e abbandono al mondo, non è forse al mondo stesso che occorre chiedere il segreto di questa soggettività enigmatica? Dopo aver esplorato le dimensioni interiori non siamo forse portati a considerare le condizioni esteriori e oggettive?”

1962: “Ma con ciò siamo forse giunti a uno dei paradossi della malattia mentale, il che ci costringe a trovare nuove forme d’analisi: se la soggettività dell’insensato è, al tempo stesso, appello e abbandono al mondo, non è forse al mondo stesso che occorre chiedere il segreto del suo enigmatico statuto? La malattia non comporta forse un nucleo di significati che deriva dall’ambito in cui si è manifestata, e in primo luogo il semplice fatto di esservi circoscritta in quanto malattia?”

Malattia mentale e personalità poteva suggerire la necessità di andare oltre le interpretazioni psicologiche, puntando verso la ricostruzione di quella realtà umana che le psicologie non afferrano fino in fondo e mantenendo dunque l’illusione che ci sia un contenuto reale dietro le formulazioni psicologiche.

Malattia mentale e psicologia sposta l’attenzione verso una questione del tutto nuova. Ed è questo il cambiamento capitale introdotto nel 1962: la nozione di malattia ha senso solo nella misura in cui essa è identificata come tale in un certo contesto storico, o all'interno di un sistema di condizioni che ne oggettiva il contenuto; tale oggettivazione non deriva quindi da un'oggettività preliminare; essa non va interrogata su un fondamento reale ma su un fondamento storico.  

Sogno e follia

Negli anni ‘50 Foucault si forma alla psicologia ed è soprattutto dal lato della fenomenologia e della psichiatria esistenziale che cerca un linguaggio e un approccio capaci di descrivere le patologie mentali, il delirio o il sogno nel loro spessore. 

Nel 1954 scrive una introduzione alla traduzione francese del libro di Binswanger Traum und existenz, Sogno ed esistenza. Questo lavoro, come è noto, rompe sia con il discorso oggettivante della psichiatria medica sia con le pretese interpretative della psicoanalisi, riconoscendo al sogno una capacità di svelare le dimensioni profonde dell'essere.

La prospettiva della lunga introduzione di Foucault è esplicitamente fenomenologica e si rifà a Husserl, con la mediazione di Heidegger e soprattutto di Merleau-Ponty. Centro di questa riflessione è l'uomo, o meglio l'essere-Uomo: si tratta di riscoprire una dimensione originaria e autentica dell'uomo, concepito come un essere-nel-mondo, cioè come una presenza costantemente proiettata fuori di sé in uno scambio interminabile col mondo. È noto che il discorso fenomenologico si pone in aperto contrasto con la scienza psicologica nelle sue varie correnti, colpevole di spogliare la soggettività del suo senso unico e autentico e di ridurre l'uomo a homo natura.  La psicoanalisi stessa farebbe dell'uomo soltanto un fascio di pulsioni orientato dal determinismo inconscio.

È questa la prospettiva dentro cui si muove Foucault in questa primissima fase del suo percorso: ripeto, una prospettiva antropologica, interamente concentrata sull'Uomo, nella sua dimensione esistenziale ed ontologica. In seguito, grazie alla lettura di Nietzsche, Foucault sposterà la sua attenzione dalla soggettività ai regimi epistemologici, cioè al problema di come si forma la conoscenza intorno all'uomo. Allora l'uomo-soggetto sarà svuotato di tutta la sua pienezza ontologica ed esistenziale e diventerà una pura costruzione culturale, un prodotto dei discorsi, delle strutture epistemiche specifiche di ogni epoca, in qualche modo analogo all'essere-gettato heideggeriano.  Già in Malattia mentale e poi nella Storia della follia è presente questa inversione di tendenza - con l'abbandono della fenomenologia che essa comporta: la soggettività dell’uomo viene completamente annullata dalle strutture epistemiche, storiche e culturali, da lui stesse create.

E tuttavia la riflessione sul sogno sembra il germe da cui scaturirà, con altro metodo e altro orizzonte concettuale, la riflessione sulla follia che si apre con Malattia mentale e prosegue poi con la Storia della follia. Il sogno è infatti "il non-senso della coscienza" ed è questa esperienza insensata, ingannevole e sfuggente, che cade nell'oblio per secoli fino a quando Freud non le restituisce assoluta centralità. Al di là della critica portata alla ratio freudiana, resta il fatto che l'incontro col sogno rappresenta per Foucault l'incontro con una dimensione originaria che precede le fratture instaurate dalla ragione, che precede le opposizioni soggetto/oggetto, anima/corpo, vero/falso, ragione/sragione e che testimonia dunque dell'unità originaria della presenza.

Con Malattia mentale si compie in quegli stessi anni il passaggio dal sogno alla follia. Cambia il terreno della ricerca. Lo sguardo di Foucault passa dal sogno alla follia come esperienza del non-senso. Sono due le osservazioni che si possono fare:

- La follia, che ha circolato tra gli uomini, cui l’arte, il teatro, le feste, hanno dato asilo, da un certo momento in poi sparisce. Su questa assenza, su questo vuoto, lo sguardo della ragione ha progressivamente edificato una presenza, un pieno, cioè la nozione di malattia mentale. Se il non senso del sogno continua ad abitare le notti degli uomini e ad assillare l’uomo col suo enigma, il non senso della follia si sposta, non gli appartiene più, si aliena. La follia è ciò che manca all'esperienza umana, è ciò che l'occidente, a partire da un certo momento, eclissa e fa tacere. Ma in entrambe, sogno e follia, parla la sragione.

- Il sogno era espressione di una totalità, germinava da un punto originario indifferente alla distinzione tra verità ed apparenza, tra oggettività ed illusione. Ma anche la follia sparita e ridotta al silenzio rinvia comunque ad una follia "essenziale", ad una verità che mantiene la sua natura originaria e che potrebbe un giorno essere studiata per tentare di recuperarne il linguaggio. "Si dovrà un giorno tentare uno studio della follia come struttura globale, della follia liberata e disalienata, restituita in un modo o nell'altro al suo linguaggio di origine". In sostanza Foucault tende verso l'idea di una verità ontologica della follia, ritrova sul suo cammino quella verità ontologica di cui il sogno era testimonianza – e che l'antropoanalisi di Binswanger aveva espresso con rara intensità - e pare muoversi quanto meno ai bordi di quel sentiero fenomenologico che sembrava sul punto di abbandonare e che di fatto abbandonerà decisamente con Le parole e le cose

Su questa idea che ci sia una follia "originaria", "essenziale", quindi qualcosa di ontologico, è interessante il discorso fatto da Pierre Macherey: 

"Mai la psicologia potrà dire la verità sulla follia, perché è la follia a detenere la verità della psicologia" scrive Foucault. È dunque l'esperienza della follia che permette di comprendere l'impresa della psicologia più di quanto la psicologia stessa non permetta di comprendere la follia. Ci si può tuttavia chiedere se non si abbozzi qui una nuova utopia, esattamente simmetrica a quella del testo del ‘54 quando evocava l'eventualità di una società disalienata perché definitivamente liberata da tutte le sue contraddizioni: quella di un altro sapere dell'uomo, sapere nudo, sapere autentico, sapere vero, sapere depsicologizzato perché depatologizzato, così come lo rivelano le grandi oscurità della tragedia. […] È il tema dell'ultimo capitolo, consacrato alla "follia, struttura globale", il cui programma è: "Si dovrà un giorno tentare uno studio della follia come struttura globale, della follia liberata e disalienata, restituita in un modo o nell'altro al suo linguaggio di origine". Ma questa evocazione, la cui linea folgorante attraversa tante pagine della Storia della follia, non si appoggia su un nuovo mito, mito talmente primordiale che non può farsi oggetto di alcun esame, di alcuna valutazione, poiché esso stesso non dipende da alcuna "condizione"? Questo mito, è quello della follia essenziale, che persiste nella sua natura originaria, al di là dei sistemi istituzionali e discorsivi che ne alterano la verità prima, o la “confiscano” […] Un simile mito prende il posto che occupava, nel testo del 1954, quello di un’essenza umana disalienata: come se il riferimento a Nietzsche e ad Heidegger, implicito lungo tutta Malattia mentale e psicologia, sostituisca il riferimento al giovane Marx, che da parte sua assillava il testo di Malattia mentale e personalità. Questa rappresentazione di un rapporto definitivo dell’uomo a sé stesso, che precede tutte le sue esperienze storiche e le relativizza rapportandole alla propria verità fondamentale, costituisce in qualche modo l’impensato teorico a partire dal quale Foucault scrive, agli inizi degli anni ‘60, la Storia della Follia. Si comprende allora in quali limiti si inscriva la rettificazione che Foucault applica nel ‘62 al suo testo del ‘54: spostando l’idea di una verità psicologica della malattia mentale verso quella di una verità ontologica della follia, lascia intatto il presupposto di una natura dell’uomo, anche se questa sorge da una evocazione poetica anziché da un sapere positivo” (P. Macherey, 2011)

Follia e cultura

Nelle pagine introduttive Foucault prende in esame le interpretazioni "sociologiche" o "culturaliste" della malattia mentale. La critica che ne fa è molto precisa: queste interpretazioni, che presentano il fatto patologico come una deviazione rispetto alla norma, danno della malattia mentale solo una caratterizzazione negativa, cioè il patologico è pensato come margine, come difetto, rispetto alla norma. Secondo la prospettiva sociologica di Durkheim e quella culturalista di Ruth Benedict, "ogni cultura si farà una immagine della malattia il cui profilo è tracciato dall'insieme delle virtualità antropologiche sottovalutate o represse". La malattia verrebbe così a collocarsi "tra quelle virtualità che costituiscono il margine della realtà culturale di un gruppo sociale". Ebbene, questo significa "mancare quanto vi è di positivo e di reale nella malattia così come essa si presenta in una società". Una simile frase, rinviando all'idea che c'è un contenuto specifico del fatto patologico, non sorprende nel testo del ‘54, attraversato da echi di una epistemologia realista. Ma stupisce nella revisione del ‘62, che sembra essersi liberata da ogni riferimento positivista. Il fatto è che nel frattempo la formula ha cambiato significato: ciò che ora essa indica è la forma di una relazione positiva tra il fatto patologico e il sistema all'interno del quale il fatto patologico viene rappresentato. "Le analisi dei nostri psicologi e dei nostri sociologi, che considerano il malato come un deviante e che cercano l'origine del patologico nell'anormale, sono innanzitutto una proiezione di temi culturali. In realtà, una società si esprime positivamente nelle malattie mentali manifestate dai suoi appartenenti, qualunque sia lo statuto che attribuisce alle forme patologiche: tanto nel caso in cui costituiscano il centro della sua vita religiosa, come spesso si verifica tra i primitivi, quanto nel caso in cui si tenti di espellerle e di collocarle all'esterno della vita sociale, come fa la nostra cultura". Dunque, non si tratta di affermare una realtà effettiva del patologico, accessibile ad una spiegazione di tipo positivo, ma si tratta di dire che l'inserimento della malattia in un contesto culturale e sociale, qualunque sia lo statuto che le viene assegnato, ne costituisce la realtà "positiva", in condizioni che evidentemente non sono più quelle di una natura ma quelle di una storia. Occorre ribaltare i termini dell'analisi sociologica e culturalista: la malattia non è riconosciuta come tale perché è scarto rispetto a una norma; essa è scarto rispetto a una norma proprio perché è identificata come una forma patologica, e le norme collettive debbono essere pensate non come cause ma come effetti, non come realtà in sé ma come fenomeni.

In effetti, se la malattia è presa in un dispositivo di esclusione, non è nel contesto della cultura o della società considerate in generale, ma in quello di un certo tipo di cultura e di società, che le assegna in tal modo la forma della sua manifestazione. È in questo senso che una società "si esprime positivamente" nelle forme patologiche che essa isola, anche se - e forse proprio perché - rifiuta di riconoscersi in esse.

L'alienazione deve essere pensata non come una causa ma come un effetto, che proviene da una "costituzione storica". Se alienazione c'è in un certo tipo di società, non è in virtù di una essenza alienata da questo tipo di società, che preesiste alle sue proprie manifestazioni e che si riproduce continuamente in esse. La materialità del fatto patologico diventa oggetto di una presa di coscienza e di una valutazione solo perché è il prodotto di un processo, le cui condizioni sono da chiarire. 

Ecco allora che si pongono le due questioni con cui Foucault ci dice che occorre misurarsi: "In che modo la nostra cultura ha finito con l'attribuire alla malattia il senso della deviazione e al malato uno statuto che lo esclude? E in che modo, malgrado questo, la nostra società si esprime in quelle forme patologiche nelle quali rifiuta di riconoscersi?".

Malattia mentale e psicologia: sintesi e commento

Daniela Iotti

L’era del cinghiale bianco, Guerrilla Spam, 2017

Medicina mentale e medicina organica

Nel primo capitolo del libro, intitolato “Medicina mentale e medicina organica”, Foucault discute l'approccio organicista alla malattia mentale tipico delle nosografie psichiatriche di fine '800 e dei primi del ' 900 (che come sappiamo non si discosta di molto da quello oggi riportato in auge dai vari DSM e dall'attuale paradigma medico-economico della psichiatria).  

Questo approccio non è secondo Foucault epistemologicamente corretto, in quanto applica alla malattia mentale e alla salute psichica gli stessi concetti della malattia somatica. Il modello organicista parte dal presupposto non dimostrato che alterazioni organiche e alterazioni della personalità abbiano una struttura dello stesso tipo e che quindi esista una modello psicopatologico generale e astratto che domina sia la patologia mentale che quella organica, sottoponendole ai medesimi concetti e ai medesimi metodi. Foucault dimostrerà che “la radice della patologia mentale” non può essere cercata in un paradigma organicistico e che neppure approcci medici più avanzati, in grado di cogliere l'unità di corpo e mente e che ricercano l'essenza del fenomeno patologico in una sorta di risposta globale dell'organismo, sono applicabili  allo studio della follia.  Infatti il tipo di astrazione con cui si passa dai dati empirici alle classificazioni patologiche e i criteri di normalità e patologia non possono essere trasferiti dal piano fisiologico a quello psicologico.

 “La patologia mentale esige metodi di analisi differenti dalla patologia organica”.

Sgombrato il campo dal riduzionismo dell'approccio organicista, Foucault passa a descrivere nella prima parte del libro le dimensioni psicologiche della malattia mentale, suddivise nei tre capitoli:

  1. La malattia e l'evoluzione
  2. La malattia e la storia individuale
  3. La malattia e l'esistenza.

La malattia e l'evoluzione

Il primo approccio psicologico, definito di tipo evolutivo, concepisce la malattia mentale come un processo in cui la trama dello sviluppo evolutivo dell'individuo si deteriora seguendo un ordine che ripercorre le stesse tappe con cui si è naturalmente sviluppato, ma in una direzione inversa.

Si deteriorano infatti prima le strutture più recenti, poi via via vengono intaccati i livelli più arcaici.  Secondo Foucault buona parte della concettualizzazione di Freud si colloca in questo ambito, soprattutto per quanto riguarda il concetto di libido, le fasi del suo sviluppo e delle successive fissazioni. Anche la psicopatologia trova in questo modello le sue radici in quanto per Freud ogni nevrosi consiste in un ritorno al suo punto di fissazione a uno stadio dell’evoluzione libidica (orale, anale, fallica). Foucault esprime una particolare critica ai “Tre saggi sulla sessualità” di Freud, le cui analisi vengono collocate nell'ambito del mito: prima di tutto il mito di una certa sostanza psicologica (la libido di Freud e la “forza psichica” di Janet) e poi quello di identità tra il malato, il primitivo e il bambino. Questo mito “rassicura la coscienza scandalizzata di fronte alla malattia mentale, e […] corrobora la coscienza chiusa nei suoi pregiudizi culturali”.

Invece secondo Foucault la regressione patologica, pur essendo un fenomeno che può essere osservato nel declinarsi della patologia, non ne è la causa, ma è soltanto uno dei fenomeni che si possono manifestare nel quadro clinico.

È dunque necessario spingere l'analisi più a fondo, verso una dimensione storica.

La malattia e la storia individuale

Il secondo approccio riguarda la storia psicologica dello stato morboso.

La psicologia dell'evoluzione, che descrive i sintomi in termini di condotte appartenenti a una fase arcaica della vita del malato (o dell'umanità), deve essere integrata da una psicologia della genesi, che descriva il senso attuale delle regressioni all'interno di una storia.

Foucault riconosce che “il colpo di genio di Freud” è stato di essere ben presto riuscito a superare l'orizzonte evoluzionistico, definito nella nozione di libido, per accedere alla dimensione storica dello psichismo umano.

La dimensione storica permette di rileggere il concetto di regressione in un modo diverso, non come “una caduta naturale nel passato, ma come una fuga intenzionale fuori dal presente”.

La regressione quindi non è un ritorno nostalgico a un passato perduto, ma una risorsa attraverso cui il malato risponde alla situazione in cui si trova ricorrendo al “passato fittizio e immaginario delle sostituzioni”. Il meccanismo patologico è quindi protezione contro un conflitto e difesa contro una contraddizione che il conflitto suscita.

Ma perché di fronte alla stessa situazione un certo individuo si imbatte in un conflitto insuperabile e un altro incontra una contraddizione nella quale si blocca in maniera patologica?  È la presenza dell'angoscia che produce la risposta patologica, ma l'angoscia che accompagna queste contraddizioni si manifesta perché in qualche modo era già presente, aveva già preceduto quegli episodi. L'angoscia diventa così il principio e il fondamento della storia dell'individuo, sin dall'inizio essa determina un certo stile di esperienza che caratterizzerà i meccanismi di difesa che verranno attivati e le forme di ripetizione. L'angoscia, elemento morboso ultimo e cuore della malattia” è una sorta di “a priori di esistenza”. Questa angoscia originaria, non può essere spiegata del tutto né dagli studi della natura, né dalla storia dell'uomo, ma dev’essere compresa nella sua necessità esistenziale.

Per fare ciò serve un metodo specifico che è quello della psicologia fenomenologica.

La malattia e l'esistenza

 Il metodo fenomenologico, attraverso l'intuizione, accede “di un balzo” nella coscienza malata, cercando di vedere l'esperienza di sé e del mondo con gli occhi del malato stesso.

La verità che si cerca non è dell'ordine dell’oggettività, ma della intersoggettività. Essa mira alla comprensione sia dell'esperienza che il soggetto fa della propria malattia (il modo in cui si vive come soggetto malato) sia alla ricostruzione del suo universo patologico (come il malato vede il mondo).  Foucault sostiene inoltre che nulla è più falso dell’idea secondo cui il folle non ha coscienza di sé. Il malato al contrario ha sempre una coscienza della propria situazione e della propria malattia, una coscienza che però è differente da quella del medico e delle persone cosiddette “normali”.

Ne deriva che il medico non detiene ogni sapere sulla malattia per il solo fatto di collocarsi sul versante della salute, e che il paziente, per il fatto di essere collocato sul versante della malattia, non ignora ogni cosa su di essa. Esiste un sapere della follia, che risulta essere coscienza di un'altra realtà, che si giustappone al mondo reale.

L'esistenza patologica intrattiene una relazione molto particolare e contraddittoria con il mondo, è insieme “un ritrarsi nella peggiore delle soggettività e una caduta nella peggiore delle oggettività”. Rifiutando i significati condivisi, il soggetto perde la possibilità di dare un senso alla propria esperienza, si abbandona agli eventi e a un mondo in cui il tempo si riduce a frammenti senza futuro e lo spazio a relazioni incoerenti.

Foucault esprime una maggiore indulgenza nei confronti della psicologia fenomenologica rispetto alla psicoanalisi in quanto ritiene che l'intuizione fenomenologica sia maggiormente in grado di comprendere il mondo patologico.

Ma non si limita a questo tipo di analisi e osserva che, se la soggettività della follia è, al tempo stesso, appello e abbandono al mondo, forse è al mondo stesso e all'ambiente in cui si è manifestata che bisogna guardare per comprendere il segreto del "suo enigmatico statuto”. E in primo luogo occorrerà indagare il semplice fatto che la follia è stata circoscritta in quanto malattia.

È con questo cambiamento di prospettiva, a partire dal quale prende forma il metodo archeologico di Foucault, che si conclude la prima parte del testo.

Follia e cultura

In questa parte Foucault si spinge oltre le concettualizzazioni allora esistenti attorno al tema della malattia mentale per inoltrarsi nell'analisi delle condizioni del suo manifestarsi.

Le varie psicologie (evoluzione organica, storia psicologica, situazione dell'uomo nel mondo) forniscono le coordinate attraverso cui localizzare e individuare le forme del fatto patologico, ma non spiegano le condizioni del suo manifestarsi.

Per esplorare le condizioni del manifestarsi della malattia mentale bisogna guardare al mondo e alla cultura in cui il soggetto è immerso.

 Foucault si pone due problemi:

  • in che modo la nostra cultura ha finito per attribuire alla malattia il senso della deviazione e al malato uno statuto che lo esclude.
  • in che modo, malgrado questo, la nostra società si esprime in quelle forme patologiche nelle quali rifiuta di riconoscersi.

La costituzione storica della malattia mentale

Qui si mette all’opera il metodo archeologico, che sarà poi sviluppato in Storia della Follia e nei testi successivi, con il quale viene criticata e fatta cadere l'oggettività dello sguardo medico. Uno sguardo che non si limita a scoprire ciò che è nella natura (là dove gli sguardi precedenti decifravano invece perversioni ed eventi soprannaturali), ma che costruisce il proprio oggetto di analisi attraverso i parametri entro cui lo colloca.

La concezione psicologica della follia come oggi la conosciamo - e che ci appare come un dato oggettivo - nasce dalla presa di distanza dell'uomo dalla Sragione, da quel lato oscuro della propria struttura globale, che rappresenta “la via di accesso alla verità naturale dell'uomo”.

L'intera struttura epistemologica della psicologia contemporanea si radica in questo evento.

La follia, struttura globale

Quanto appena sostenuto non vuole essere una critica a priori di tutti i tentativi di definire i fenomeni di follia e delle tecniche di guarigione. Foucault intende più che altro mostrare come tra la psicologia e la follia esista un rapporto tale da rendere fallimentare ogni tentativo da parte della psicologia di comprendere la follia. Infatti la stessa nozione di “malattia mentale” nasce da una esclusione della follia. Potremmo dire che questa nozione (che rende possibile la psicologia in quanto disciplina che studia la malattia mentale) non è altro che un modo di riempire il vuoto lasciato dall'alienazione della follia: la psicologia nasce là dove la follia viene alienata.

Tutte le culture si sono occupate dei fenomeni di condotta e di linguaggio che hanno a che fare con la Sragione, ciò che varia è l'atteggiamento che una società assume di fronte a questi fenomeni e a coloro che ne sono portatori. Una certa cultura può trattare queste persone come malati o come criminali, come stregoni o come guaritori o come gente comune. Comunque sia, in questi uomini c'è qualcosa che “parla della differenza ed evoca la differenziazione”.

Non pensiamo che queste concezioni, ancora oscure e confuse, rappresentino una prima consapevolezza che ci porterà in seguito verso il raggiungimento di una visione scientifica, in grado di riconoscerli come “malattia mentale”: “È soltanto il vuoto che accoglierà al proprio interno l'esperienza della follia”.  

A partire dal Rinascimento si instaura un rapporto positivo con la follia, cioè un tentativo di definirla per contrastare il pericolo di una invasione dell'Insensato, un insensato proveniente dall'interno, da “una fessura segreta della terra”. Questa invasione pone questioni inquietanti:

Quale rapporto intrattiene il mondo della follia con il nostro?

E ...  “se il segreto del nostro mondo - non fosse di essere da sempre, e senza che lo avessimo saputo, l'altro?”

Questa esperienza che “ospita l'estraneo nel cuore stesso del familiare”, e che Freud chiamerebbe “perturbante”, assume il carattere del visibile nei quadri di Hieronymus Bosch.  Nel Giardino delle delizie - osserva Foucault - non siamo di fronte alla rappresentazione della follia, né alla proiezione di una immaginazione delirante, ma alla “percezione di un mondo sufficientemente vicino e lontano da sé per aprirsi all'assoluta differenza dell'Insensato”. La cultura del Rinascimento non si sottrae a misurarsi con questa differenza - con la sragione - e gioca la sua partita. Il secolo XVI riconosce e valorizza positivamente quella Sragione che il secolo XVII disconoscerà, rifiuterà e ridurrà al silenzio.  

La follia si situa dunque proprio nel  punto in cui i fenomeni culturali si orientano verso una svalorizzazione di ciò che all'origine era percepito come il Differente, l'Insensato, la Sragione.

Lì la società organizza le difese, investe significati morali, erige barriere e attiva rituali di esclusione (che variano a seconda delle culture).

Definire cosa sia follia e poter dire “questo è un folle” non è un atto semplice e immediato, ma si basa su una serie di operazioni teoriche e di pratiche, oltre che sulla segmentazione dello spazio sociale.

La soglia a partire dalla quale il medico “crede di poter diagnosticare la follia in quanto fenomeno di natura, di giudicarla appunto come follia” non è né naturale, né oggettiva.

Ogni cultura ha la propria soglia particolare, che si modifica sulla base delle configurazioni assunte da che quella certa cultura.

Nella seconda metà del XIX sec., nella nostra società “la soglia di sensibilità alla follia si è considerevolmente abbassata; lo attesta l'esistenza della psicoanalisi, nella misura in cui ne è tanto l'effetto quanto la causa”.

L' organizzazione teorica della malattia mentale oggi presuppone tutta una serie di operazioni che: a) permettano la suddivisione tra patologia organica e malattie mentali; b) definiscano una “metapsicologia comune” ai due ambiti che permetta di controllare i fenomeni; c) si colleghino a un intero sistema di pratiche (l'organizzazione dei medici, i sistemi di ricerca e cura, le forme di assistenza, i criteri di diagnosi e guarigione, la definizione della invalidità civile del malato, la sua irresponsabilità penale ecc.) che determina la vita effettiva del folle.

È così che la presa di distanza dalla Sragione e dall'Insensato diventa prima follia, poi malattia e infine malattia mentale.

Tuttavia la follia, per quanto rigettata e ridotta al silenzio, ha un valore di linguaggio, i cui contenuti si definiscono a partire da quei dispositivi che la respingono in quanto follia.

La comprensione della origine della malattia mentale e delle sue forme va ricercata nel conflitto reale delle condizioni di esistenza, il quale serve da modello strutturale alla patologia mentale.

Le dimensioni psicologiche della malattia mentale non sono dunque autonome.  Ad esempio, porre all'origine dei conflitti e dell'angoscia la lotta tra istinto di vita e di morte (come fa Freud), significa porre come soluzione ciò che fa parte del problema. Le condotte contraddittorie e la conflittualità dell'uomo derivano piuttosto dal fatto che “l'uomo fa una esperienza contraddittoria dell'uomo” in quanto i rapporti sociali sono improntati sulla base della concorrenza, dello sfruttamento, della rivalità tra gruppi, ecc.

Così anche il complesso di Edipo non è interno al mondo del bambino come fosse un istinto, ma il bambino ne fa esperienza attraverso il mondo degli adulti. Ciò che è considerato innato e costitutivo dell'umano è invece correlato e prodotto dalla realtà sociale.

Per lo schizofrenico l'abbandono a un mondo delirante non è dovuto alla proiezione di un proprio universo immaginario in cui si perde, ma è il solo modo che trova per sottrarsi alla coercizione di un mondo reale, che spesso assume l'aspetto di un mondo in cui la razionalità meccanicistica esclude la possibilità della spontaneità della vita affettiva.

“Quando l'uomo rimane estraneo a ciò che passa nel suo linguaggio, quando non può riconoscere significati umani e vitali nelle produzioni della sua attività, quando si ritrova costretto entro le determinazioni economiche e sociali senza poter sentire questo mondo come una patria, allora sta vivendo in una cultura che consente il prodursi di una forma patologica come la schizofrenia; estraneo in un mondo reale, è risospinto in un 'mondo privato' che nessuna oggettività può più garantire”. 

Una psicologia della follia deve necessariamente dirigersi verso l'essenziale, verso le regioni in cui l'uomo ha un rapporto con sé stesso e in cui prendono consistenza le sue possibilità.

Ma in cosa consiste questo rapporto essenziale con sé stessi? È un ritorno all'ontologia come sostiene Macherey?

In una conversazione del 1981 con il regista tedesco Werner Schroeter (“Conversation avec Werner Schroeter”, in Dits et écrits, IV, cit p. 256), Foucault sosteneva che:

“Il faut revenir à ce que vous disiez tout à l’heure sur la créativité. On est perdu dans sa vie, dans ce qu’on écrit, dans un film que l’on fait lorsque, précisément, on veut s’interroger sur la nature de l’identité de quelque chose. Alors là, c’est «loupé», car on entre dans les classifications. Le problème, c’est de créer justement quelque chose qui se passe entre les idées et auquel il faut faire en sorte qu’il soit impossible de donner un nom et c’est donc, à chaque instant, d’essayer de lui donner une coloration, une forme et une intensité qui ne dit jamais ce qu’elle est. C’est ça l’art de vivre! L’art de vivre, c’est de tuer la psychologie, de créer avec soi–même et avec les autres des individualités, des êtres, des relations, des qualités qui soient innomées. Si on ne peut pas arriver à faire ça dans sa vie, elle ne mérite pas d’être vécu”.

“Si è perduti nella propria vita, in ciò che si scrive, in un film che si fa quando, precisamente, ci si vuole interrogare sulla natura dell'identità di qualcosa. Allora là “si manca il colpo” perché si entra nelle classificazioni. Il problema, è appunto di creare qualcosa che passi in mezzo alle idee e a cui bisogna fare in modo che sia impossibile dare un nome e si tratta dunque, ad ogni istante, di cercare di darle una colorazione, una forma, un'intensità, che non dica mai ciò che essa è. Questa è l'arte di vivere! L'arte di vivere è uccidere la psicologia, creare con sé stessi e con gli altri delle individualità, degli esseri, delle relazioni, delle qualità che siano innominate. Se non si arriva a fare questo nella propria vita, essa non merita di essere vissuta”.

Questo rapporto essenziale dell'uomo con sé stesso, che la psicologia contribuisce ad alienare, è presente e visibile “nei lampi e negli urli” di Hölderlin, di Nerval, di Nietzsche, di Artaud (liberarsi dalla psicologia per prepararsi al grande scontro tragico con la follia). È prestando orecchio alle voci soffocate dei folli ed è a partire dalle voci di coloro che hanno rotto il silenzio sulla follia, che prende l'avvio l'opera di Foucault.

Ora, è lecito chiedersi “Freud appartiene o no a queste voci?”

Essere giusti con Freud 

In un testo di Jaques Derrida - “Essere giusti con Freud” - (testo che fu presentato nel corso di un convegno del 1991 e pubblicato nel volume “Pensare la Follia” nel 1992 e il cui titolo riprende una frase scritta da Foucault in Storia della Follia) -   viene affrontata la complessa questione del rapporto tra Foucault e la psicoanalisi.

L'atteggiamento di Foucault verso Freud tende a essere incerto e ambivalente.

Freud è complice di un discorso che ha ridotto la Sragione a oggetto e al silenzio o è tra coloro che hanno contribuito a ricostituire l'esperienza della follia e il suo linguaggio? 

In molti luoghi Foucault tende ad assimilare la psicoanalisi alla psicologia e a vederne quindi la funzione repressiva (ritiene che non ci fa capire come funziona il potere, né ci fa capire come funziona il piacere).

Ma Freud, afferma Derrida, non può essere ridotto al luogo che Foucault guarda e analizza (l'oggetto della sua analisi), perché occupa anche il luogo dal quale Foucault stesso guarda e da cui prende le mosse (e noi con lui) per porgere orecchio alle voci dei folli. 

Il progetto di Foucault sarebbe stato possibile senza la psicoanalisi di cui è contemporaneo e di cui parla in genere poco e in modo piuttosto equivoco e ambivalente? Le deve qualcosa? E cosa?

E inoltre: È possibile avere testimonianza della follia? Chi la può testimoniare e renderne ragione?

Ogni volta che qualcuno ha preso davvero la parola sulla Follia (come hanno fatto Freud e Foucault) ha dovuto stabilire una specie di patto con il diavolo, aprire un varco alla sragione, all'interno di un delicato gioco tra sragione e ragione.

La figura che Derrida evoca per rendere pensabile la posizione della psicoanalisi è quella della “cerniera” (charnière)

La cerniera è un dispositivo assiale intorno al quale si assicura una rotazione, un'alternanza di apertura e chiusura, in cui avviene un doppio movimento, non separabile, in cui l'aporia non è più soltanto qualcosa di ambivalente, paradossale e inesprimibile, ma ha la forma di un'oscillazione, di un movimento abissale, in cui si introduce ogni volta qualcosa di ulteriore.

Freud è sia dentro sia fuori dalla scena, come se la psicoanalisi avesse due luoghi, come se non potessimo arrestarci né sulla vita né sulla morte, né sulla ragione né sulla sragione, perché ognuno apre la porta all'altro, squalificandolo e squalificandosi come principio.

Per essere giusti con Freud dovremmo collocarci in questo pendolo.

Michel Foucault 1954-1961

Erika Panaccione

Francisco Goya, El aquelarre, 1797-98

Lungo i sentieri del sogno e della follia

Il dio è giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace, sazietà e fame.
E muta come il fuoco quando si mischia ai profumi odorosi,
prendendo nome di volta in volta dal loro aroma.
(Eraclito)

Da tempi remoti, quindi, è innato negli uomini il reciproco amore
che li riconduce alle origini e che di due esseri cerca di farne uno solo
risanando, così, l’umana natura.
(Platone)

Il sogno e l’esistenza

"L’antica nostra natura non era la medesima di oggi" riferisce Platone nel Simposio (189 d-193 d). In principio gli uomini erano l’uno e l’altro, la loro forma era circolare, il loro aspetto intero e rotondo, "non generavano per reciproca unione, ma per unione con la terra".

Un giorno "Zeus, volendo castigare l’uomo senza distruggerlo, lo tagliò in due". Da allora "ciascuno di noi è il simbolo di un uomo, la metà che cerca l’altra metà, il simbolo corrispondente". Nell’antica Grecia (...) era diffusa la consuetudine di tagliare in due un anello, una moneta o qualsiasi oggetto, e darne una metà a un amico o a un’ospite. Queste metà, conservate dall’una e dall’altra parte, di generazione in generazione, consentivano ai discendenti dei due amici di riconoscersi. Questo segno di riconoscimento si chiamava simbolo. Tale è il senso originario della parola (1). 

Il primo scritto di Foucault risale al 1954 ed è una lunga introduzione alla traduzione francese di un testo di psicologia del 1930, Traum und Existenz di Ludwig Binswanger, psichiatra svizzero considerato il massimo esponente della corrente di psicologia e di psichiatria nota sotto il nome di Daseinsanalyse o analisi esistenziale. Centro di questa riflessione è - come ci dice Foucault stesso - "l’uomo, o meglio l’Essere-uomo, il Menschsein"(2), in una prospettiva antropologica esplicita, che si rifà all’analisi fenomenologica inaugurata da Husserl, attraverso la mediazione soprattutto di Heidegger e Merleau-Ponty. Questo orizzonte antropologico si propone di riscoprire una dimensione originaria ed autentica dell’uomo, concepito come una presenza al mondo dinamica, un essere-nel-mondo nel senso di abitarlo e proiettarsi continuamente verso di esso e verso le sue possibilità. Si tratta di riscoprire il contenuto esistenziale della presenza al mondo, di ritrovare una soggettività piena e integrale, che non si situa né dalla parte dell’io trascendentale, della coscienza pura, dell’intelletto razionale o della psiche (il cogito), né dalla parte dell’homo-natura che le scienze positive delineano. L’antropologia recupera una soggettività che si rivela irriducibile a tutte quelle categorizzazioni che ne riducono la portata ad un contenuto astratto, che delimitano il suo essere ad un solo aspetto, lacerandone la pienezza. L’uomo è una coscienza intenzionale situata e incarnata, dunque immanente, ma allo stesso tempo trascendente, perché si proietta sempre fuori di sé in uno scambio interminabile col mondo.

Su questo terreno si colloca anche il problema epistemologico relativo alla scienza: crollato ormai il castello metafisico che rinchiude l’uomo nella pura coscienza universale ed astratta dell’Io trascendentale, rimane da valutare la prospettiva opposta ma speculare delle scienze dell’uomo, che ne fanno un oggetto fra oggetti. 

In quegli anni, l’interesse di Foucault si concentra soprattutto sulla scienza psicologica (3) - nelle sue molteplici correnti - che si inserisce nel grande solco del Positivismo. Anche la psicoanalisi finisce per spogliare la soggettività della sua unicità e del suo senso autentico, esaurendo il contenuto significativo dell’uomo nel concetto riduttivo di homo natura: l’individuo freudiano è prima di tutto istintualità; l’inconscio come serbatoio pulsionale costituisce l’unica vera e autentica realtà della natura umana, tutte le altre manifestazioni assumono l’aspetto di un suo epifenomeno.

Ma allora ha ragione Jaspers là dove dice che "Freud fraintende sé stesso" perché la sua teoria, creata per l’interpretazione del singolo, finisce in realtà con lo "spiegare gli ipotetici riflessi delle singole modalità operative dell’apparato mentale", per cui non fonda come vorrebbe una psicologia che tenga conto della soggettività individuale, ma, "come nelle scienze naturali, cerca, mediante l’osservazione, la sperimentazione e la raccolta di molti dati, le relazioni di causalità che permettono di trovare le regole dell’evento"(4).

I fatti psicologici allora non sono più espressione di una visione del mondo (Weltanschaung) individuale, modalità della presenza (Dasein) dell’uomo nel mondo, ma diventano processi energetico-pulsionali, sintomi, al pari dei fatti meramente fisiologici della medicina somatica, indici di misurazione oggettivi regolati da relazioni di causalità. Le strutture d’espressione della soggettività vengono così ridotte al determinismo delle pulsioni inconsce ma allo stesso tempo, paradossalmente, spiegate sulla base degli schemi della coscienza vigile, della razionalità.

Già da queste prime osservazioni, ci accorgiamo che la prospettiva teorica da cui si muove Foucault, in questa primissima fase del suo percorso di ricerca, è una prospettiva antropologica, interamente concentrata sull’Uomo, nella sua dimensione esistenziale ed ontologica. Successivamente la lettura di Nietzsche e di Heidegger e l’influenza delle correnti strutturaliste lo porteranno ad allontanarsi sempre più da questa prima posizione così vicina alla fenomenologia. Attraverso la filosofia di Heidegger soprattutto (5), Foucault supererà il discorso fenomenologico di Husserl, ma anche quello di Merleau-Ponty, poiché sposterà l’attenzione - e lo farà in maniera sempre più radicale - dalla soggettività ai regimi epistemologici; l’Uomo-soggetto verrà svuotato di tutta la sua pienezza ontologica ed esistenziale, diventerà una pura costruzione culturale, un prodotto dei discorsi, di quelle strutture epistemiche - del tutto impersonali e dotate di una sorta di onnipotenza rispetto all’individuo - che troveranno la loro piena elaborazione in Les mots et les choses e nell’Archéologie du Savoir. L’essere di Heidegger infatti - che supera l’individuo in quanto c’è già prima ancora che questo parli o conosca - è in qualche modo analogo ai regimi epistemici del Foucault successivo. L’essere sempre già gettato dell’uomo in una situazione storico-culturale, l’essere sempre necessariamente situato fa sì che il soggetto che conosce venga ad essere prodotto dalle pratiche che si propone di analizzare, dal linguaggio che egli utilizza; si trova sempre su di uno sfondo che lo precede. Già in Folie et Déraison è presente questa inversione di tendenza e l’eliminazione di ogni ricorso alla fenomenologia, che comunque giungerà al suo apice nella fase più "strutturalista", quella appunto di Les mots et les choses (6). 

In questo scritto introduttivo al testo di Binswanger, e in sintonia con questi, Foucault individua nell’esperienza onirica uno dei "luoghi" privilegiati in cui le strutture dell’esistenza si rivelano nella loro forma più autentica. È Foucault stesso a sottolineare il carattere solo apparentemente paradossale di questa posizione (7): un paradosso che consiste nel voler descrivere l’esistenza, nel suo spessore positivo e più significativo, proprio laddove essa sembra essere più dissimulata, più ingannevole e sfuggente. L’opinione comune - ma anche e soprattutto quella di una certa scienza - considera infatti la dimensione onirica - e con essa quella dell’immaginazione - come uno dei modi di esistenza meno inseriti nel mondo, meno significativi. 

Spetta proprio a Freud - nonostante le critiche che gli vengono mosse dallo stesso Foucault - il merito di aver riportato il sogno nella sfera del senso e dei significati umani, e avergli attribuito un’importanza fondamentale, che solo una certa letteratura, una certa mistica religiosa e soprattutto una certa parte della cultura classica greco-romana gli aveva riconosciuto. 

Prima della psicoanalisi freudiana, il sogno era il non-senso della coscienza (8), poi esso ricompare, dopo secoli di oblio, al centro dell’analisi dei significati antropologici, ma soltanto in quanto manifestazione dell’inconscio, della libido, del rimosso. A Freud il sogno interessa solo per questi suoi rimandi semantici e non per il suo essere una forma piena ed autonoma di esistenza, di conoscenza e di esperienza. Il simbolismo del sogno pare essere per Freud solo materiale di traduzione, che riporta un contenuto latente il quale, per sfuggire ai meccanismi censori messi in atto dalla coscienza, si manifesta soltanto attraverso immagini camuffate. Il sogno sarebbe soddisfazione del desiderio in forma allucinatoria, sarebbe segno, più che simbolo, proposizione significativa sotto l’istanza assoluta del Desiderio. 

In realtà - ammette Foucault - Freud si era accorto del fatto che il sogno racchiudeva in sé una sovradeterminazione di senso, una polisemia che supera la "traduzione" che l’analisi ricostruttiva ne fa; tuttavia finisce poi per trattarlo come materiale da tradurre in un passato che continuamente ritorna, in una monotona ripetizione, in una temporalità bloccata, fossilizzata nel trauma di questo passato, incapace di superarsi e di proiettarsi nel presente.

In questa prospettiva il sogno - e con esso la follia e l’immaginario - vengono misconosciuti, guardati solo attraverso il linguaggio monovalente dell’istanza raziocinante, resi oggetti inequivocabilmente interpretabili secondo le leggi della causalità. Il sogno è però inaccessibile alle regole ermeneutiche normalmente impiegate per interpretare i segni; la sua dimensione è quella del simbolico e non quella del segnico; i simboli non sono affatto "immagini" che "stanno per" qualcos’altro, sono al contrario densità incontrollate di senso, polivalenza ed eccesso di significati (9).

Il termine "simbolo" deriva dal greco sýmbolon, composto da sým e bállo che significa io getto, metto insieme. Originariamente designava le due metà di un oggetto spezzato, che fungeva da segno di riconoscimento attraverso la ricomposizione delle due metà. Successivamente esso ha assunto sempre più una funzione rappresentativa ("stare in luogo di") simile al segno. In realtà esiste una differenza costitutiva tra simbolo e segno: il segno rappresenta un contenuto del tutto diverso da quello che ha in sé, cioè tra il segno e ciò che esso rappresenta vi è un rapporto convenzionale, formale e astratto; il simbolo invece è più o meno il contenuto che esso esprime come simbolo. Nel simbolo quindi il significato vi è già contenuto nella sua immediatezza, non è qualcosa di separato dal primo, ma di contemporaneo e costitutivamente affine (10). 

Per Foucault, il sogno appartiene all’ordine del simbolico perché è pre-categoriale e pre-riflessivo, vive cioè in quella dimensione originaria che precede le fratture che la ragione ha instaurato, quelle opposizioni disgiuntive soggetto-oggetto, anima-corpo, significato-significante, vero-falso, ragione-follia, ecc., che separano e frammentano l’unità originaria della presenza. L’universo onirico è l’universo dell’indifferenziato, perché in esso si dischiude l’indifferenza tra mondo vero e mondo apparente, tra oggettività e illusione, tra essere e linguaggio; qui non ci sono ancora differenze istituite, ma lo spazio originario del vissuto in cui si ritrova l’unità dell’esserci - corpo, sensi, desiderio, spirito, psiche, passato, futuro, presente, intenzionalità, ecc. - in una trama comune. Entro questa prospettiva che rintraccia un’unità simbolico-espressiva originaria, cui il sogno appartiene, Foucault stabilisce un parallelo interessante tra il sogno e la poesia - riprendendo in questo la tradizione romantica e surrealista - che testimonia l’irriducibilità dell’autentica dimensione esistenziale. La poesia - Foucault cita esplicitamente Herder e Novalis, ma si potrebbe aggiungere Vico - è concepita come la forma primitiva di linguaggio, la "lingua materna dell’uomo"(11), sul modello della primissima tradizione greca, che canta le origini del mondo, degli dei e degli uomini in forma lirica (si pensi ad Esiodo per esempio, ma anche a Omero). Nella Storia della follia Foucault riconferma più volte questo legame profondo, parlando in proposito non solo del sogno, ma anche della follia:

“Ciò che la follia dice di sé stessa è, per il pensiero e la poesia dell’inizio dell’Ottocento, ciò che dice ugualmente il sogno nel disordine delle proprie immagini: una verità dell’uomo [...]. Così, nel discorso comune al delirio e al sogno, si trovano congiunte la possibilità di un lirismo del desiderio e quella di una poesia del mondo (12)”. 

Rintracciamo qui una concezione esistenziale in qualche modo parallela a quella merleau-pontiana dell’espressione e della percezione, dove, nella dimensione del vissuto, l’individuo è un tutto incarnato e dove quindi l’universo che solitamente viene designato come psichico - tra cui anche il sogno e l’immaginario - non è il prodotto di una psiche separata dal resto dell’individuo, e dove questo individuo non è un elemento a sé stante, separato dal mondo, dalle cose e dagli altri. In questa unità sintetica - ma non per questo indifferenziata - la corporeità riveste un ruolo di prim’ordine: per Merleau-Ponty - che per molti aspetti influenza Foucault, almeno in questi primi anni della sua ricerca -, il corpo è l’apertura originaria dell’uomo al mondo, un campo primordiale in cui viene a situarsi ogni esperienza.

“Se consideriamo il corpo nella sua totalità, vedremo che esso non è altro dai cosiddetti processi psichici e che lo "spirito" è impensabile al di fuori del suo concreto radicamento corporeo. [...] La dimensione in cui si muove il soggetto percipiente è una dimensione ambigua, che non conosce ancora le distinzioni tra organico e psichico, tra res extensa e res cogitans (13)”.

Il corpo come "presenza", come apertura originaria sul mondo, è dunque anteriore ad ogni distinzione tra soggetto e oggetto, tra conscio ed inconscio, interiorità ed esteriorità, ecc., e mostra al contrario la sua coincidenza tra ciò che è e ciò che si manifesta, tra l’esistenza e il fenomeno - non in quanto mero fatto, ma in quanto evento significativo -, tra l’essere e l’apparire. La presenza incarnata, proprio per la sua unità, per il suo carattere "simbolico" (sým-bállo = mettere insieme), non viene mai compresa dalle scienze esatte, poiché queste colgono sempre un solo aspetto, riducono i fenomeni a oggetti fisici. Questo limite appartiene anche alla psicologia, sia nella sua forma organicista (per esempio quella assunta da Pavlov, che utilizza esclusivamente una spiegazione in termini di fisiologia), sia in quella più "spiritualista", proprio perché entrambe operano una frattura sull’unità costitutiva della presenza. Infatti, ci ricorda Binswanger:

“Le dottrine psicofisiche cercano di gettare un ponte tra due ambiti "cosali" che non corrispondono ad alcuna realtà umana, e in cui né l’uno né l’altro termine riesce a gettare luce rispettivamente sul primo o sul secondo, finendo anzi per occultarli entrambi (14)”. 

Entro questo orizzonte teorico, Merleau-Ponty caratterizza la percezione come analoga a quest’unione che il simbolico stabilisce, unione del soggetto e del mondo, del soggetto con tutte le sue facoltà e caratteristiche esistenziali. Per questo Merleau-Ponty può dire: “ogni percezione è una comunicazione o una comunione, [...] come un accoppiamento del nostro corpo con le cose [...] l’unione del soggetto col mondo (15)”.

E ancora: 

“il mio corpo non è solo un oggetto fra tutti gli altri oggetti, un complesso di qualità sensibili fra altre, ma un oggetto sensibile a tutti gli altri, che risuona per tutti i suoni, vibra per tutti i colori, e che fornisce alle parole il loro significato primordiale (...). Noi non riduciamo quindi il significato della parola e nemmeno il significato del percepito a una somma di "sensazioni corporee", ma diciamo che il corpo, in quanto ha dei "comportamenti" è quello strano oggetto che utilizza le sue proprie parti come simbolica generale del mondo (16) e attraverso il quale, perciò, possiamo "frequentare" questo mondo, "comprenderlo" e trovargli un significato (17)”.

Nella prospettiva esistenziale, l’interiorità e l’esteriorità non sono separabili, "il mondo è tutto dentro e io sono tutto fuori di me"; l’unità dell’io non può dissolversi in una molteplicità di atti e di elementi distinti, ma è un campo d’esperienza aperto e globale. Lo stesso Foucault ribadisce una posizione del tutto analoga a questa, rifacendosi a una tesi che Binswanger sviluppa in Traum und existenz: la psicoanalisi freudiana riduce in maniera drastica la soggettività onirica, attribuendole un’identità limitata il più delle volte al personaggio protagonista del sogno, al personaggio che dice "io"; in questo modo si ricrea quella astratta separazione tra uno spazio interiore ed uno esteriore. Il soggetto del sogno - scrive Foucault - non è affatto uno dei suoi possibili significati o dei suoi personaggi, ma è al contrario il fondamento di tutti i significati, è la totalità del sogno: 

“Il soggetto del sogno o la prima persona onirica, è il sogno stesso, è il sogno tutto intero. Nel sogno, tutto dice "io", anche gli oggetti e le bestie, anche lo spazio vuoto, anche le cose lontane e strane, che ne popolano la fantasmagoria. [...] Il sogno, è il mondo all’alba della sua prima esplosione quando esso è ancora l’esistenza stessa e non è ancora l’universo dell’oggettività (18)”.

Si tratta di una soggettività radicale e piena, che abbraccia tutta la trama esistenziale e non si lascia ridurre a segno o a oggetto di analisi, così come l’esperienza onirica non si identifica con un materiale segnico da decodificare secondo la legge del desiderio rimosso, traducibile attraverso il vocabolario psicoanalitico; e non costituisce nemmeno un’esperienza altra rispetto a quella del proprio mondo, un’esperienza della fantasia, concepita come illusione, come il negativo della realtà. Ancora una volta ci troviamo di fronte a categorie astratte, che scompongono l’esistenza in elementi oggettivabili e quindi manipolabili. Foucault sostiene invece che sognare non è un’altra maniera di fare l’esperienza di un altro mondo, è per il soggetto che sogna la maniera radicale di fare l’esperienza del proprio mondo (19). Si tratta inoltre di un’esperienza speciale, che mette in luce i significati fondamentali dell’esistenza in maniera ancora più autentica e piena delle altre forme di esperienza. È infatti un accesso privilegiato alla verità, all’unità del mondo; è una forma particolare - forse addirittura la più elevata - di conoscenza. 

Un simile valore e una simile importanza attribuita al sogno come esperienza di trascendenza sono largamente presenti nella letteratura, nella mistica cristiana, soprattutto nelle sue correnti popolari, e prima di tutto nella cultura greco-romana, nel mito e nella tragedia. Nella tragedia greca il sogno è considerato un momento supremo di conoscenza, in cui l’uomo si trova di fronte il proprio destino, il movimento originario della propria esistenza dispiegata, l’insolubile conflitto tra il destino e la propria libertà; o ancora i significati che lo legano al mondo, le sue leggi:

“Fin dall’antichità, l’uomo sa che nel sogno incontra ciò che egli è e ciò che sarà; ha scoperto quel nodo che lega la sua libertà alla necessità del mondo. Nel sogno e nel suo significato individuale, Crisippo ritrova la concatenazione universale del mondo e l’effetto di questa "sympatheia" che concorre a formare l’unità del mondo, e ad animare ogni frammento del medesimo fuoco spirituale (20)”.

Analogamente, nella tradizione mistico-cristiana, il sogno si configura come una forma concreta di rivelazione divina, il momento in cui Dio comunica con gli uomini, per far loro conoscere i suoi comandamenti e la sua verità (si pensi alle molte forme di sogno profetico presenti nei testi sacri e nella letteratura).

Foucault riprende questa modalità di concepire l’esperienza onirica e la applica all’analisi dei sogni, avanzando al tempo stesso una critica nei confronti della psicanalisi. Prende in considerazione un esempio di analisi di un sogno fatta da Binswanger (21): si tratta di una donna di 33 anni in cura per una grave depressione, crisi di collera e inibizione sessuale; a 5 anni ha subito un trauma sessuale, provocato dalle avances di un ragazzo. Il sogno che la paziente riferisce la vede sul punto di varcare un confine, quando il doganiere le fa aprire i bagagli, lei glieli porge uno dopo l’altro; per ultima estrae una coppa d’argento avvolta in carta di seta e a questo punto il doganiere le dice: "Perché mi porta per ultimo il pezzo più importante?". Inizialmente la donna non riesce a darsi delle spiegazioni riguardo al sogno, successivamente - in parte la sera stessa, in parte il giorno successivo, durante il racconto all’analista - le torna in mente la scena traumatica delle avances sessuali e il contesto in cui si svolsero: la casa di sua nonna, dove, su una vecchia credenza, stava una teiera d’argento avvolta in carta di seta. Ecco come Foucault commenta il sogno: 

“È chiaro che a livello simbolico il sogno mette in scena la malata. (...) la coppa d’argento ricolloca la malata in una fase anteriore della sua storia e la indica come in un’esistenza minore che le appartiene a stento. Ma il punto essenziale del sogno non è ciò che esso resuscita dal passato, quanto ciò che annuncia dell’avvenire. Presagisce e annuncia il momento in cui la malata infine svelerà al suo analista quel segreto che non conosce ancora e che è tuttavia il carico più pesante del suo presente; questo segreto il sogno lo indica già anche nel suo contenuto con la precisione di un’immagine particolareggiata; il sogno anticipa il momento della liberazione. E’ presagio della storia, più ancora che ripetizione obbligata del passato traumatico. Ma come tale, esso non può avere come soggetto il soggetto quasi oggettivato della storia passata, il suo momento costitutivo non può essere che questa esistenza che si fa attraverso il tempo, questa esistenza nel suo movimento verso l’avvenire (22)”.

Il tempo - così come lo spazio - si configura allora nella sua dimensione esistenziale di tempo vissuto, alla maniera di Merleau-Ponty, cioè come un movimento globale che non si frammenta in singoli istanti misurabili e quantificabili, come il tempo oggettivo, e nemmeno un tempo fossilizzato in un passato fermo e lontano, ma bensì un tempo in cui il passato è continuamente attuale, facendo parte della trama che mi costituisce ora come individuo, e un futuro verso cui continuamente mi proietto, coi miei progetti, le mie aspettative, ecc. Il sogno che Binswanger e poi Foucault hanno analizzato può così rivelare il suo significato attuale, contro il carattere regressivo che la psicanalisi attribuisce all’esperienza onirica - come ritorno ad un passato che la coscienza ha rimosso -, e anche alla malattia mentale, interpretata come un processo a ritroso, regressivo, nella sua connotazione negativa - verso stadi anteriori dello sviluppo psichico.

La malattia mentale 

In una prospettiva ancora vicina alla fenomenologia - ma solo in maniera parziale -, si colloca anche la riflessione sulla malattia mentale e sulla follia, viste entrambe come esperienze del vissuto individuale, modalità specifiche dell’esistenza, come presenza al mondo. Lo scritto a cui facciamo riferimento per quanto riguarda questa riflessione è un’opera la cui prima stesura risale al 1954, contemporanea, e forse di poco precedente, all’Introduzione scritta da Foucault all’edizione francese di Traum und Existenz di Binswanger. Tuttavia questo scritto venne più volte modificato dallo stesso Foucault - il quale si oppose perfino ad una sua ripubblicazione -, finché la versione definitiva uscì nel 1962, addirittura due anni dopo l’uscita di Folie et Déraison. Anche il titolo viene modificato: da Maladie mentale et Personnalité muta in Maladie mentale et Psychologie. Ma ciò che più interessa sono le radicali modifiche che Foucault vi apporta: elimina i numerosi riferimenti alla riflessologia biologista di Pavlov, e quindi a tutta una corrente psichiatrica e psicologica di stampo positivista, orientata verso un’interpretazione organicista della patologia mentale; inoltre riscrive interamente la seconda parte, allontanandosi non solo dalla riflessione pavloviana, ma anche dall’antropologia esistenzialista del 1954. Siamo ormai nel punto di intersezione, o meglio, di passaggio tra due periodi molto diversi del percorso di ricerca di Foucault: uno è appunto quello influenzato in maniera profonda dalla fenomenologia, soprattutto quella merleau-pontiana, l’altro è quello a partire dal quale assistiamo al superamento di questa prospettiva - attraverso Heidegger, attraverso la lettura di Nietzsche, ecc. - e all’aprirsi di quell’orizzonte così complesso, noto col nome di Strutturalismo. 

Nella prima parte di Maladie mentale et Psychologie, ritroviamo una lettura della malattia molto vicina all’interpretazione fenomenologica e alla posizione di Binswanger: la malattia va considerata all’interno dell’orizzonte esistenziale dell’individuo malato, è una forma di esistenza che non può essere definita in termini puramente negativi - cioè come deficit o come regressione -, come fanno la psichiatria e la stessa psicanalisi; non può essere compresa attraverso la distinzione rigorosa tra normale e patologico, non può essere trattata come un fenomeno fisico quantificabile e riducibile alle leggi della causalità. L’approccio scientifico alla malattia mentale finisce troppo spesso per essere o di tipo organicistico - allora la malattia è causata da una lesione o da un deficit fisico -, oppure di tipo "spiritualistico", entrambi riduttivi ed astratti perché rinnovano la scissione corpo-psiche, considerando questi aspetti come radicalmente separati. La malattia va invece compresa a partire dalla presenza globale e situata dell’individuo nel mondo, dalla storia individuale del malato, dalle sue modalità di abitare il mondo.

Sarà allora necessario comprendere, per esempio, sia l’esperienza che il malato fa della propria malattia - cioè come egli si vive in quanto malato -, sia il mondo che la malattia osserva e costituisce insieme - cioè il complesso universo patologico del malato. Questo tipo di approccio rifiuta un’analisi della malattia che si identifica con lo sguardo distaccato e speculativo del medico, con quell’osservazione dall’esterno che tratta il malato e la malattia come puri oggetti. Se il patologico è una forma particolare di esistenza - che, pur deviandole e modificandole, conserva tutte le sue strutture -, allora è possibile interpretare le sue diverse tipologie come perturbazioni del tempo vissuto, dello spazio vissuto o del corpo vissuto (23):

“Da ultimo, la malattia può colpire l’uomo nella sfera individuale, quella dell’esperienza del corpo proprio. Il corpo cessa allora di essere quel centro di riferimento intorno al quale i percorsi del mondo si aprono come altrettante possibilità. Nel contempo la presenza del corpo all’orizzonte della coscienza si altera. Talvolta si ispessisce fino ad assumere la pesantezza e l’immobilità di una cosa; si trasforma in una oggettività nella quale la coscienza non può più riconoscere il suo corpo; il soggetto si percepisce solo come cadavere o come macchina inerte, e tutti i suoi impulsi sembrano provenire da una esteriorità misteriosa. (...) Talvolta anche la piena coscienza del corpo, con la sua spazialità e densità in cui si inseriscono le esperienze propriocettive, finisce per estenuarsi fino a non essere altro che coscienza di una vita incorporea (24)”. 

In qualche modo analoga a questa posizione è quella di Binswanger che, in uno scritto del 1956 intitolato Drei Formen Missglückten Daseins (25), prende in considerazione diverse forme di malattia mentale e le interpreta appunto come modificazioni generali di alcune strutture d’esistenza, quelle stesse che cita anche Foucault: tempo, spazio, corpo proprio, ecc. Questi casi non vengono visti come minorazioni, deviazioni morbose o sintomi - secondo la concezione medico-psichiatrica del patologico -, ma vengono guardate come fenomeno antropologico. Secondo questa prospettiva, che Binswanger definisce "antropoanalitica", è possibile considerare l’individuo nella sua globale presenza al mondo ed individuare la malattia come una sorta di "fallimento" dell’esistenza nella sua autenticità più piena, come un arrestarsi, un’incagliarsi delle molteplici possibilità che l’esistenza autentica dispiega. E qui Binswanger cita esplicitamente Heidegger:

“l’esaltazione fissata, la stramberia, il manierismo, non vengono giudicati in senso medico-psichiatrico, come "minorazioni" patologiche, "deviazioni" morbose o "sintomi". Vengono bensì considerate come forme di fallimento, di mancata riuscita dell’esistenza umana. (...) L’esistenza, l’Esserci è infatti per Heidegger "la possibilità di essere liberi per il più autentico potere-essere". Invece di parlare di fallimento, di mancata riuscita, Heidegger parla delle "possibilità dell’esistenza di darsi alle sue possibilità", di "afferrarle" ma, anche di "mancarle", di deragliare e di misconoscersi (26)”.

Nel capitolo secondo di Maladie mentale et Psychologie, Foucault prende in esame quelle concezioni medico-psichiatriche (27) che considerano la malattia mentale nei termini puramente negativi di deficit, di perdita, di funzioni abolite, all’interno di un percorso evolutivo. Il fenomeno patologico sarebbe cioè una sorta di ritorno regressivo a fasi anteriori dell’evoluzione psichica, poiché le funzioni più complesse e recenti verrebbero cancellate, abolite, in un percorso a ritroso che procede sempre più verso gli stadi elementari, man mano che la malattia si aggrava. Lo svolgimento della malattia non sarebbe altro che il processo evolutivo dello stato normale, ma invertito. L’analisi di Freud segue anch’essa questa impostazione:

“Buona parte dell’opera di Freud è un commento delle forme evolutive della nevrosi. La storia della libido, del suo sviluppo, delle sue successive fissazioni è una specie di raccolta delle virtualità patologiche dell’individuo: ogni tipo di nevrosi è il ritorno a uno stadio della evoluzione libidica. E la psicoanalisi ha creduto di poter scrivere una psicologia del bambino attraverso una patologia dell’adulto (28)”.

Ogni stadio libidico sarebbe così una struttura patologica virtuale, la quale, man mano che procede, andrebbe a disfare la trama della personalità e dell’individualità del malato, in maniera del tutto lineare e standardizzata. La critica di Foucault a questa impostazione non si rivolge tanto all’idea di un processo regressivo, quanto al fatto che essa non tiene conto del carattere assolutamente originale e "creativo" della malattia, e nemmeno prende in considerazione la struttura della personalità del malato, il suo essere globale come un’unità psico-fisica in continuo scambio col mondo. Il fenomeno regressivo non può che essere solo uno dei possibili aspetti descrittivi della malattia, lungi dal costituire l’essenza stessa del patologico. Esso non ha il significato riduttivo di caduta nel passato, di monotona ripetizione di questo stesso passato che le tesi di impostazione evoluzionista gli attribuiscono. Bisogna al contrario partire dall’individuo e dal suo presente attuale: si scoprirà allora che la malattia parte da una irrealizzazione di questo presente, da una situazione di difficoltà del vissuto attuale. La regressione fa parte dei tanti meccanismi di difesa - tra cui la rimozione, l’isolamento, la proiezione e l’introiezione, ecc. - che l’individuo mette in atto per proteggersi, per reagire alle difficoltà. Il patologico ha dunque un significato attuale e difensivo, che riguarda tutto l’individuo, nel suo sforzo di adattamento ad una situazione problematica di angoscia. Non è affatto un fenomeno puramente negativo di semplice sottrazione e perdita, ma, al contrario, un’azione di difesa, di reazione, di protezione - anche se fallimentare -, e quindi una forma necessariamente positiva. 

“Con il suo taglio astratto, la psicologia del XIX secolo invitava a questa descrizione puramente negativa delle malattie, la cui semeiotica era molto facile, giacché si limitava a descrivere le attitudini scomparse (...). E’ vero, la malattia cancella; ma accentua. Abolisce da una parte per dare risalto dall’altra; l’essenza della malattia non sta soltanto nel vuoto che scava, ma anche nella pienezza positiva delle attività di sostituzione che vengono a colmarlo (29)”. 

Lo statuto della malattia va allora interamente rivisto; occorre superare le ordinarie constatazioni di ordine biologico e la caratterizzazione puramente negativa della malattia; occorre riconsiderare la più generale distinzione tra normale e patologico. E’ quello che ha fatto Georges Canguilhem, in uno studio, ormai classico, dal titolo appunto Le normal et le pathologique

La lezione di Canguilhem

Il primo studio di Canguilhem sul normale e il patologico risale al 1943, un periodo di molto precedente ai primi scritti di Foucault, il quale doveva sicuramente esserne a conoscenza all’epoca di Maladie mentale et psychologie, sia per una questione cronologica, sia per le influenze che vi si rintracciano fin da ora e che lo stesso Foucault documenterà negli anni successivi (30). L’influenza che Canguilhem esercita sul giovane Foucault si indirizza prima di tutto verso il rifiuto di un certo razionalismo scientifico, figlio della cultura positivista e, prima ancora, di quella illuminista, la quale inaugurerebbe una sorta di dogmatismo e dispotismo della ragione (31), una ragione che tende all’universale e alla propria incontrastata sovranità. Ogni fenomeno viene letto secondo strutture fisse e ricondotto a schemi quantitativi, a parametri matematici e semplificatori. Canguilhem prende per esempio in considerazione la tesi, sostenuta da A. Comte, secondo cui i fenomeni normali e quelli patologici, la salute e la malattia, si situerebbero in un rapporto di continuità caratterizzato da differenze puramente quantitative, e dunque misurabili e perfettamente trasparenti alla conoscenza. Questo ottimismo razionalista prende in considerazione soltanto l’aspetto puramente organico della malattia, la localizza in una "sede", per esempio al livello degli organi o dei tessuti, astraendo dunque degli elementi singoli dalla totalità organica di cui sono costitutivamente parte; ne fa un oggetto leggibile come qualunque altro fenomeno fisico, riduce la qualità alla quantità, nel tentativo di affermare una omogeneità quantitativamente esprimibile. Invece che essere una semplice modificazione quantitativa dello stato definito normale - un "più" o un "meno" rispetto ad una norma -, il patologico assume invece in Canguilhem l’aspetto di una struttura del tutto originale ed irriducibile alla prima: è cioè una modificazione complessiva dell’individuo - organico e psicologico -, l’istituzione di un ordine nuovo, che risponde a esigenze ambientali ed esistenziali nuove. E’ precisamente entro questa prospettiva che si situa Foucault quando critica, per esempio, la tesi psicanalitica secondo cui la malattia mentale non sarebbe altro che il processo evolutivo seguito dall’individuo sano, ma invertito, cioè in direzione regressiva (32). Il parallelo con la concezione del patologico di Canguilhem viene ancora di più in luce quando si confrontano direttamente i loro testi. Foucault scrive infatti: “bisogna ammettere la specificità della personalità morbosa; la struttura patologica dello psichismo non è originaria; è rigorosamente originale (33)”.

E Canguilhem: 

“La malattia è un’esperienza di innovazione positiva dell’essere vivente e non più soltanto un fatto diminutivo o moltiplicativo. Il contenuto dello stato patologico non può essere sottratto (...) dal contenuto della salute: la malattia non è una variazione sulla dimensione della salute, essa è una nuova dimensione della vita (34)”.

Anche Canguilhem ribadisce più volte la necessità di considerare la malattia alla luce della totalità dell’individuo, come modificazione del vissuto personale del malato. Ma l’essenziale della sua concezione del patologico risiede nel concetto di normativo, che egli spiega come la capacità di istituire delle norme di vita nuove, in relazione con l’ambiente - sia fisico che sociale. La vita - scrive Canguilhem - non è solo sottomissione ad un ambiente, ma anche istituzione del suo proprio ambiente, al fine di favorire il suo sviluppo e il suo benessere presi come norme, e di lottare contro ciò che ne ostacola la prosecuzione. La vita pone quindi essa stessa dei valori, delle preferenze, dei comportamenti o funzionamenti da evitare o da correggere; la norma è l’attività dell’organismo stesso (35), che deve rendersi malleabile, e la vita è lo sforzo spontaneo di difesa e di lotta contro tutto ciò che è di valore negativo (36). In questa prospettiva il normale e il patologico si configurano come norme di vita diverse: la sanità è la capacità di passare facilmente a nuove norme, relativamente alle fluttuazioni dell’ambiente; la malattia invece sarebbe, non mancanza di norme biologiche, ma una norma inferiore e ridotta, insufficiente rispetto all’ambiente. 

“Esser sano significa non soltanto esser normale in una situazione data, ma esser anche normativo in questa ed in altre eventuali situazioni. Quello che caratterizza la sanità è la possibilità di superare la norma che definisce il normale momentaneo, la possibilità di tollerare delle infrazioni alla norma abituale e di istituire delle norme nuove in nuove situazioni. [...] La sanità è un margine di tolleranza delle infedeltà dell’ambiente. [...] Al contrario, la peculiarità della malattia è di essere una riduzione del margine di tolleranza delle infedeltà dell’ambiente (37)”.

Nel secondo saggio contenuto in Le normale et le pathologique, Canguilhem allarga la sua analisi al campo delle scienze sociali. Se nel primo saggio la vita risultava essere "normativa", ora l’analisi della società porta Canguilhem a parlare di "normalizzazione", in termini molto simili a quelli che utilizzerà anche Foucault. 

“Il normale non è un concetto statico o pacifico, ma un concetto dinamico e polemico. Gaston Bachelard [...] ha ben capito che ogni valore deve essere guadagnato contro un antivalore. [...] Così ogni preferenza di un ordine possibile si accompagna, il più delle volte implicitamente, all’avversione dell’ordine inverso possibile. Il diverso dal preferibile, in un campo di valutazione dato, non è l’indifferente, ma ciò che respinge, o più esattamente il respinto, il detestabile. (...) In breve, sotto qualunque forma implicita o esplicita che sia, le norme riferiscono il reale a dei valori, esprimono delle discriminazioni di qualità in conformità alla opposizione polare di un positivo e di un negativo (38)”.

Nella seconda parte di Maladie mentale et Psychologie - che, come abbiamo ricordato, risale ad una fase di alcuni anni posteriore al resto dell’opera e di due anni successiva alla prima edizione della Storia della follia - troviamo un’impostazione del discorso sulla malattia mentale e sulla follia che ricalca quella dell’Histoire de la Folie, e si rifà appunto al concetto di ‘norma’ che Canguilhem ha sviluppato, oltre che alla sua metodologia di ricerca nel campo della storia delle scienze. La follia è vista come una dimensione ancora legata ad una certa qualità essenziale e ontologica, che rimane anche nell’Histoire de la Folie, ma allo stesso tempo come il prodotto di un’esclusione che la ragione, nel suo processo di autofondazione e autoaffermazione, ha operato. La ragione fonda sé stessa attraverso un atto che trasforma una differenza (l’esperienza della sragione) in un’opposizione senza rimedio e senza alcuna possibilità di dialogo, e di conseguenza sull’esclusione di quella parte di negativo che essa rigetta, che costituisce come alterità metafisicamente negativa, come limite:

“La follia è il diverso della ragione, il suo limite, ciò che si trova dove la ragione cessa, ciò che la ragione non è; accoglierla dentro la ragione vuol dire distruggere la struttura stessa della razionalità (39)”.

Comincia ad affacciarsi l’idea secondo cui la verità - in questo caso quella delle scienze esatte - non è altro che una certa distribuzione del vero e del falso, il prodotto di una serie di scarti e di selezioni di proposizioni che, di volta in volta, assumono lo statuto di verità o di falsità, di certezza o di errore, sulla base di determinate norme prestabilite da una certa situazione storico-culturale (40). 

La conoscenza nasce da un atto di crudeltà e di violenza - quella che ha operato la ragione nel suo processo di autofondazione e di esclusione di tutto ciò che essa ha respinto. In particolare, questa conoscenza sulla follia e sulla malattia nasce dalla reclusione, entro una struttura di carattere fondamentalmente punitivo, di milioni di cosiddetti folli; prende origine da un’esperienza di repressione, da un taglio operato all’interno dell’essere umano, da un’esperienza della follia come limite negativo del pensiero, da cui poi sorge questa nuova positività, quella del discorso medico, quella della psicologia. 

Non si tratta per Foucault, sulla scia di Canguilhem, di stabilire una filiazione, nei termini della continuità storica, tra le prime forme di reclusione dei folli e la moderna clinica psichiatrica; si tratta piuttosto di mettere in evidenza come il legame che intercorre tra le due sia al contrario di carattere discontinuo: quelle prime case d’internamento non erano affatto la prefigurazione delle attuali istituzioni mediche - e dei relativi saperi -, ma strutture completamente diverse, guidate da altre esigenze e motivazioni, rette da principi del tutto estranei ad esse. I movimenti che le pratiche e le teorizzazioni seguono lungo il corso della storia non si dispongono necessariamente nell’ordine della causalità diretta, come se la storia delle scienze fosse un concatenamento ordinato di teorie, che progressivamente si avvicinano alla scoperta della verità delle cose; tali movimenti sono al contrario guidati da cause molteplici e disparate, e seguono direzioni di volta in volta assai diverse tra loro. 

Vediamo dunque che Canguilhem imposta una epistemologia storica che si contrappone radicalmente alla maniera tradizionale di trattare la storia delle scienze, ovvero come un percorso lineare tracciato da precursori e continuatori; questo - dice - implica una ricostruzione storica astratta, in cui si proietta nel passato un inquadramento culturale che non gli appartiene affatto. Canguilhem inoltre propone una dimensione della storicità della produzione scientifica che si configura come "discontinua", e che procede per rotture e mutazioni piuttosto che per sviluppi lineari, progressivi ed anticipatori. 

“Canguilhem insiste sul fatto che individuare le discontinuità non è per lui né un postulato né un risultato; è piuttosto un "modo di lavorare", una procedura intrinseca alla storia della scienza, giacché è richiesta dall’oggetto medesimo di cui questa deve occuparsi. La storia delle scienze non è infatti l’emergere della verità, della sua lenta epifania; essa non pretende di narrare la scoperta progressiva di una verità "iscritta da sempre nelle cose o nell’intelletto", a meno che non si voglia credere che la conoscenza attuale possieda definitivamente la verità, in una forma così completa e stabile, da poter essere adottata come misura del passato (41)”.

Una delle principali problematiche che Canguilhem ha affrontato nello studio dell’epistemologia storica - problematica ripresa successivamente da Foucault - è quella relativa alla formazione dei concetti, cioè alla formulazione dei problemi scientifici, i quali aprono poi il campo, non solo a indirizzi di ricerca diversi, ma anche a soluzioni e a oggetti diversi. I concetti non sono entità già formulate una volta per tutte e disponibili alla conoscenza; essi acquistano un’esistenza quando un certo fenomeno diventa problematico, diventa oggetto di un certo interesse, di un certo sapere e di certe pratiche. Il concetto di malattia mentale per esempio, associato al fenomeno della follia - o meglio ad una certa percezione e concettualizzazione della follia -, prende forma solo a partire dal momento in cui la malattia e la salute diventano un problema di gestione della popolazione, dal punto di vista sociale e politico (42). 

In questo senso possiamo dire che Canguilhem pone una particolare attenzione alla dimensione "materiale" della produzione ideologica, cioè alle condizioni sociali, culturali e istituzionali in cui i concetti scientifici emergono e da cui dipendono (43); è quello che ha fatto anche Foucault già in Histoire de la Folie e successivamente in Les mots et les choses, Naissance de la clinique o in Surveiller et punir

La follia

Nel percorso che Foucault traccia sulle modalità con cui quella "cosa" chiamata follia è stata di volta in volta percepita, trattata e conosciuta, ritroviamo quelle categorie e quell’approccio critico che Canguilhem ha inaugurato. Vediamo di percorrere brevemente questo insolito ed interessante itinerario. 

L’epoca classica e la modernità spogliano la follia degli attributi in qualche modo positivi, conferiti ad essa nelle epoche precedenti. Durante il Medioevo e il Rinascimento, infatti, la follia è ancora libera di circolare ed esprimersi col proprio linguaggio, è considerata all’interno della ragione e non il suo opposto irriducibile, ma una sua forma relativa e complementare, che indica una verità profonda e nascosta sotto la superficie delle cose, per esempio, nelle sue forme simboliche, la paura del nulla e della morte (44). 

Nel XVII secolo, ha luogo un mutamento profondo e una frattura insanabile: la ragione costituisce la follia come il suo dis-valore assoluto e si separa definitivamente da essa. La follia si sposta verso la regione dell’insensato, dell’errore, della parola senza significato, della parola interdetta (45). Vengono create le prime grandi case d’internamento, che raccolgono i cosiddetti folli e tutta una massa eterogenea d’individui che si collocano ai margini della società, tutti coloro che, in rapporto alla ragione e alla morale, manifestano un elemento di disordine. Manca ancora a queste strutture uno statuto medico: lo scopo non è curare, ma soccorrere e allo stesso tempo recludere e punire. In queste condizioni, la follia viene separata dal suo proprio linguaggio e circoscritta in un luogo di silenzio. 

Successivamente, l’epoca della Rivoluzione francese, l’epoca dei Lumi, attua un progetto di riforma delle case d’internamento: sotto la veste filantropica - la stessa che spingerà a rivedere l’intero sistema penale (46) - vengono liberate tutte le categorie di rinchiusi (poveri, vagabondi, libertini, mendicanti, orfani, disoccupati, criminali, ecc.), tranne i folli, i quali rimangono soggetti ad un controllo che tende ad assimilare sempre di più un’osservazione, uno studio, e un sapere (47). Le case d’internamento diventano luoghi in cui si crea attorno al malato tutta una rete di controlli, di giudizi e osservazioni perpetue, un processo di infantilizzazione e colpevolizzazione del malato; un luogo in cui si applicano sanzioni punitive per ogni minima deviazione dalla condotta voluta. Cadono le catene e le inferriate che tenevano prigionieri gli internati, ma solo per far sì che il folle venga offerto quale oggetto per il nuovo sguardo della scienza medica. Con la nascita del personaggio medico, la follia si trasforma in malattia, osservata in maniera sempre più analitica; si formano discorsi che guardano da lontano la follia, discorsi che ne parlano col solo linguaggio della ragione. La follia si incontra e si confonde con la malattia mentale, e in questo connubio essa viene inserita in una nuova dinamica di rapporti: diviene in qualche modo controllabile - guaribile - e dominabile attraverso lo sguardo della scienza positiva; perde la sua veste di animalità, di alterità senza rimedio, per tramutarsi in una forma osservata, una cosa investita dal linguaggio, comunicabile e conoscibile; diventa oggetto posto a distanza e che si lascia investire da un sapere finalmente positivo.

Pian piano, intrappolata nella rete delle scienze che si vanno formando, la follia assume uno statuto sempre più specifico: mentre prima veniva trattata come fenomeno globale che riguarda sia l’anima che il corpo - i rimedi utilizzati andavano sempre a toccare il corpo, proprio perché non era ancora nata una concezione psicologica della malattia -, ora essa comincia ad abitare sempre più solo l’interiorità dell’anima: nasce a poco a poco l’homo psycologicus:

“E fu a partire da quel momento che la follia cessò di essere considerata come un fenomeno globale che colpiva al tempo stesso, attraverso l’immaginazione e il delirio, il corpo e l’anima. Nel nuovo mondo manicomiale, in quel mondo morale del castigo, la follia diventa un fatto che concerne essenzialmente l’anima umana, la sua colpa e la sua libertà; essa si inscrive oramai nella dimensione dell’interiorità; in tal modo, per la prima volta nel mondo occidentale, la follia si ritroverà a godere di uno statuto, di una struttura e di un significato psicologici. [...] La scoperta di ciò che va sotto il nome di "psicologia" della follia non è altro che il risultato delle operazioni con cui la follia era stata investita. Senza il sadismo moralizzatore, con il quale la "filantropia" del XIX secolo ha circondato la follia sotto le ipocrite apparenze di una "liberazione", questa psicologia non esisterebbe affatto (48)”. 

Storia della follia si colloca in una vera e propria posizione di passaggio, tra un periodo ancora immerso nel fascino della fenomenologia - più che di Husserl, lo abbiamo visto, di Merleau-Ponty -, e un suo superamento definitivo. In questo scritto le strutture culturali ed epistemiche stanno per prendere il sopravvento sull’individuo: mentre prima l’attenzione era posta tutta sulla soggettività - nella sua libertà, nella sua singolarità e nella creatività e pienezza del suo vissuto -, ora questo soggetto - il folle - appare in qualche modo il prodotto di un certo sistema culturale, sociale e storico, il prodotto delle istituzioni dell’internamento. L’uomo verrà a poco a poco inghiottito dalle strutture epistemiche - lo vedremo benissimo in Les mots et les choses -, secondo una linea che congiunge Nietzsche e Heidegger, che si articola attraverso una elaborazione assai originale. Egli ci mostra così la follia nelle molteplici trasformazioni che essa di volta in volta subisce: i valori che va a ricoprire, le connotazioni e gli atteggiamenti che suscita, i modi in cui via via viene classificata e definita, gli statuti che assume, le parentele che stringe, le forme in cui viene riconosciuta. Sotto queste continue metamorfosi sembra sparire l’idea di una follia come realtà originaria, e configurarsi invece quella di una follia come prodotto, come concetto o fantasma culturale. 

Tuttavia, in Storia della follia e nella seconda parte di Maladie mentale et Psychologie - nate all’incirca nello stesso periodo - permane ancora un forte residuo di un carattere ontologico che apparterrebbe al sogno, alla follia, alla poesia, all’uomo in genere. Foucault parla ancora della follia come di un’esperienza originaria, che sarebbe stata alienata, separata dagli altri aspetti dell’esistenza umana, e con questo taglio, la nostra cultura avrebbe sottratto all’uomo una sua dimensione determinante e vera, avrebbe creato una frattura che lo porta all’alienazione della sua più autentica natura. Lo testimoniano le sue stesse parole: 

“Il termine "malattia mentale" non indica altro che la follia alienata, alienata in quella psicologia che la follia stessa ha reso possibile.

Si dovrà un giorno tentare uno studio della follia come struttura globale - della follia liberata e disalienata, restituita in un modo o nell’altro al suo linguaggio di origine (49)”.

E ancora:

“C’è una buona ragione per cui la psicologia non potrà mai dominare la follia: perché il nostro mondo ha reso possibile la psicologia solo dopo aver dominato la follia, dopo averla anzitempo esclusa dal dramma. E quando ricompare, come nei lampi e negli urli di Nerval e di Artaud, di Nietzsche o di Roussel, la psicologia tace, resta senza parole di fronte a quel linguaggio che dà alle proprie il senso di quella lacerazione tragica e di quella libertà di cui già la sola esistenza degli "psicologi" sanziona per l’uomo contemporaneo il pesante oblio (50)”.

La follia, così come essa si costituisce a partire dal XVIII secolo - a partire cioè dal periodo della riforma delle case d’internamento -, investita e ridotta dallo sguardo medico che la descrive, si vede spogliata dei suoi poteri, del suo carattere essenziale, del suo essere costitutiva del dramma umano. Essa finisce per manifestarsi ormai soltanto nel lirismo di opere come quelle di Artaud, di Nietzsche, di Nerval, ecc. Qui la follia sembra parlare proprio della verità più profonda dell’uomo, sembra dotata del potere di enunciare il suo segreto, la sua vicinanza estrema con la morte, col paradosso, con l’illogico; pare ricondurre a quell’esperienza del tragico di cui Nietzsche tanto ci ha parlato. Nell’epoca moderna assistiamo alla nascita di un processo di riassorbimento sempre più ampio di ciò che prima costituiva l’escluso, l’Altro assoluto, l’incomprensibile e l’incontrollabile, ma questo non avviene nell’ordine della riconciliazione di ciò che era stato separato, bensì nell’ordine del dominio e della vittoria di una parte sull’altra. Ora anche la follia viene fatta rientrare nello statuto dell’oggettività scientifica, e quindi non è più esclusa in quanto disordine incontenibile, ma riassorbita nelle maglie della ragione come suo oggetto, non più come suo opposto, come sua rivale e speculare nemica. Per questo Foucault potrà ipotizzare un futuro prossimo in cui la follia, nel suo essere trasgressione, essenza tragica dell’uomo, rischierà di scomparire quasi del tutto, lasciando di sé soltanto una traccia sfumata e silenziosa; assorbita nella monovalenza di una ragione ormai completamente trionfante:

“Forse, un giorno, non sapremo più esattamente che cosa ha potuto essere la follia. […] Artaud apparterrà alla base del nostro linguaggio, e non alla sua rottura; le nevrosi, alle forme costitutive (e non alle deviazioni) della nostra società. Tutto quel che noi oggi proviamo relativamente alla modalità del limite, o della estraneità, o del non sopportabile, avrà raggiunto la serenità del positivo. [...] Quale sarà il supporto tecnico di questo mutamento? La possibilità per la medicina di padroneggiare la malattia mentale come una qualsiasi affezione organica? (...) O altre modificazioni ancora, nessuna delle quali forse sopprimerà realmente la malattia mentale, ma che avranno tutte il significato di cancellare dalla nostra cultura l’immagine della follia? So bene che avanzando quest’ultima ipotesi io contesto ciò che è comunemente ammesso: che i progressi della medicina potranno far scomparire completamente la malattia mentale, come già la lebbra e la tubercolosi; ma so che una cosa sopravviverà, e cioè il rapporto tra l’uomo e i suoi fantasmi, il suo impossibile, il suo dolore senza corpo, la sua carcassa durante la notte (51)”. 

NOTE:

1 U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima, op. cit., pp. 186-187.

2 M. Foucault, Introduzione a Sogno ed esistenza (1954), SE, Milano 1993, p. 15.

3 Si ricordi che la formazione culturale di Foucault si innesta sul terreno della psicologia: si laurea in psicologia, occupa per anni il posto di assistente di psicologia e successivamente la cattedra di docente, oltre a svolgere numerose esperienze in campo psicopatologico; solo a partire dal 1966 gli viene offerta una cattedra in filosofia, e nel 1970 in storia dei sistemi di pensiero al Collège de France. In un secondo momento l’interesse di Foucault si sposterà dalla psicologia - che comunque non abbandonerà mai - alla medicina e successivamente alla stessa antropologia. 

4 L. Binswanger, Psicopatologia generale, Roma 1965, p. 327, citato in U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima, op. cit., p. 137.

5 Foucault non cita mai esplicitamente Heidegger, tranne in una preziosa intervista -l’ultima rilasciata prima della morte -, in cui dice: "Heidegger è sempre stato, per me, il filosofo fondamentale. Ho cominciato leggendo Hegel, poi Marx e mi sono messo a leggere Heidegger nel ‘51 o nel ‘52; e nel ‘53, o nel ‘52, non mi ricordo più, ho letto Nietzsche. (...) Tutto il mio divenire filosofico è stato determinato dalla lettura di Heidegger. Ma riconosco che l’ha spuntata Nietzsche. (...) Probabilmente, se non avessi letto Heidegger, non avrei letto Nietzsche. Avevo provato a leggere Nietzsche negli anni cinquanta, ma Nietzsche da solo non mi diceva nulla. Mentre Nietzsche e Heidegger insieme sono stati uno shock filosofico! Ma non ho mai scritto nulla su Heidegger e su Nietzsche ho scritto solo un breve articolo; tuttavia sono i due autori che ho letto di più". (M. Foucault, Il ritorno della morale, in Archivio Foucault I, op. cit., pp. 268-269).

6 Cfr. ivi, cap. II.

7 M. Foucault, Introduzione a Sogno ed esistenza (1954), cit.,  p. 18.

8 Ib., p. 21.

9 U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima, op. cit., p. 65.

10 Cfr. la voce "simbolo" in Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano 1991².

11 Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, citato in nota in M. Foucault, Introduzione a Sogno ed esistenza (1954), cit., , p. 47.

12 M. Foucault, Storia della follia nell’età classica(1972), Rizzoli, Milano 1996, p. 443.

13 A. Bonomi, Esistenza e struttura. Saggio su Merleau-Ponty, op. cit., pp. 34-35

14 L. Binswanger, Ausgevählte Vorträge und Aufsätze, II, Zur Problematik der psychiatrischen Forschung und zum Problem der Psychiatrie, Franke, Bern 1955, p. 267, citato in U. Galimberti, Il corpo, op. cit., p. 144.

15 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, op. cit., p. 418. 

16 Sottolineatura nostra.

17 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, op. cit., pp. 315-316.

18 M. Foucault, Introduzione a Sogno ed esistenza (1954), cit.,  p. 60.

19 Ib, pp. 60-61.

20 Ib, p. 40.

21 Si riferisce ad un’opera precedente Traum und existenz e risalente al 1928: Wandlungen in der Auffassung und Deutung des Traumes von den Griechen zur Gegenwart.

22 M. Foucault, Introduzione a Sogno ed esistenza (1954), cit.,  p. 59.

23 E qui il richiamo a Merleau-Ponty è del tutto esplicito. 

24 M. Foucault, Malattia mentale e psicologia (1962), Raffaello Cortina Editore, Milano 1997, pp. 62-63.

25 Trad. it., Tre forme di esistenza mancata. Esaltazione fissata, stramberia, manierismo, op. cit.

26 L. Binswanger, Tre forme di esistenza mancata, op. cit., pp. 12-13. Le citazioni da Heidegger sono tratte da Sein und Zeit (Essere e Tempo), p. 144.

27 Foucault cita J.H. Jackson, R. A. Spitz, G. Guex, P. Janet.

28 M. Foucault, Malattia mentale e psicologia, cit., p. 23.

29 Ib., p. 20.

30 Per esempio vedi M. Foucault, Georges Canguilhem: il filosofo dell’errore, op. cit., apparso come Prefazione all’edizione inglese della stessa opera di Canguilhem, On the normal and the pathological, del 1978, oggi anche in Archivio Foucault 3, col titolo La vita: l’esperienza e la scienza, op. cit., pp. 317-329. 

31 Ib., p. 43 .

32 Vedi sopra.

33 M. Foucault, Malattia mentale e psicologia, cit., p. 30.

34 G. Canguilhem, Il normale e il patologico, op. cit., p. 146.

35 Ib., p. 93.

36 Ib., p. 96.

37 Ib., pp. 156-158.

38 Ib., pp. 204-205. Per una trattazione più approfondita del concetto di "norma", rimandiamo alla terza sintesi, paragrafo III: Il sapere e la norma.

39 V. Cotesta, Linguaggio, potere, individuo. Saggio su M. Foucault, op. cit., p. 93.

40 Foucault, parlando proprio a proposito di Canguilhem, riprende il concetto di norma che questi ha sviluppato: " i processi di eliminazione e di selezione di proposizioni, teorie ed oggetti accadono di volta in volta in funzione di una determinata norma (...). Non è sulla base della "scienza normale", nel senso adoperato da T. S. Kuhn, che si può ritornare al passato e tracciarne correttamente la storia; bensì ridisegnando un processo "normato" in cui la conoscenza attuale è solo un momento il cui futuro non può essere previsto se non con delle profezie". M. Foucault, Georges Canguilhem: il filosofo dell’errore, op. cit., p. 46. 

41 Ib., p. 44.

42 Questo aspetto è già assai evidente in Storia della follia, ma si approfondisce ancora di più in Nascita della clinica. A questo proposito si leggano alcuni brevi saggi contenuti in Archivio Foucault 2, in particolare La politica della salute nel XVIII secolo (pp. 187-201) e La nascita della medicina sociale (pp. 220-240). 

43 Non a caso - sostiene lo stesso Foucault in Georges Canguilhem: il filosofo dell’errore, cit., pp. 43-44 - egli si è occupato principalmente di quelle scienze, come la biologia e la medicina, che sono meno formalizzate rispetto alle "scienze nobili", e quindi più legate alle condizioni esterne, culturali, istituzionali, economiche, ecc. 

44 A questo proposito Foucault fa riferimento alla letteratura, alla pittura e alla tradizione popolare e cita la Danza macabra, il Trionfo della morte, la Nave dei Folli di Bosch, Margot la Folle di Bruegel, l’Elogio della follia Di Erasmo, il Don Chisciotte di Cervantes, ecc. (Cfr. M. Foucault, Malattia mentale e psicologia, cit., p. 77 e M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, cit., cap. I)

45 "La follia non conserva con gli atti interdetti che una parentela morale (resta essenzialmente legata alle interdizioni sessuali), ma è inclusa nell’universo delle interdizioni di linguaggio; la reclusione classica racchiude, con la follia, il libertinaggio di pensiero e di parola, l’ostinazione nell’empietà e nell’eterodossia, la bestemmia, la stregoneria, l’alchimia: in breve tutto ciò che caratterizza il mondo parlato e interdetto della sragione; la follia è il linguaggio escluso: quello che contro il codice della lingua pronuncia parole senza significato (gli "insensati", gli "imbecilli", i "dementi"), o quello che pronuncia parole sacralizzate (i "violenti", i "furiosi"), o quello ancora che fa passare significati interdetti (i "libertini", i "testardi"). M. Foucault, La follia, l’assenza di opera, contenuto in appendice all’edizione italiana di HF, op. cit., p. 480.

46 Vedi il capitolo terzo, soprattutto il paragrafo II.

47 Per quanto riguarda il tema delle relazioni fra sapere e potere in Foucault, vedi il capitolo terzo, soprattutto al paragrafo III.

48 M. Foucault, Malattia mentale e psicologia, cit., pp. 84-85.

49 Ib., p. 87.

50 Ib., pp. 100-101.

51 M. Foucault, La follia, l’assenza di opera, op. cit., pp. 475-476.

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