Gruppi di supervisione

La supervisione: una pratica fondamentale nella formazione alla psicoterapia psicoanalitica

Mariangela Pierantozzi

La formazione psicoanalitica si fonda su un paradosso: la materia e le modalità di trasmissione hanno radici nell’inconscio e formare all’inconscio è un compito difficile, forse impossibile. Ci si rende conto di quanto lo scambio che avviene nella stanza d’analisi, così unico e così particolare, sfugga alla logica di una trasmissione tradizionale.
Jean Luc Donnet ci rammenta che “la risposta più convincente ad una interpretazione risiede solo nel prodursi nel paziente di nuove associazioni”. Cioè la giusta interpretazione è quella che mantiene in moto la macchina analizzante.
Allora come si riesce a divenire, essere e soprattutto restare analisti? La psicoanalisi non si insegna come un sapere qualunque; non si trasmette come un semplice insieme di enunciati, il suo oggetto di studio essendo qualcosa di enigmatico e sfuggente.
In una seduta di supervisione individuale o di gruppo il terapeuta che parla di un trattamento è obbligato a passare attraverso costruzioni di senso e le sue interpretazioni hanno lo statuto di citazioni, visto che egli le enuncia per una seconda volta e a qualcun altro. Non possiamo però rendere sterile un materiale che è intriso di moti inconsci, e la regola fondamentale delle libere associazioni è dunque qui obbligatoria, perché solo con essa si può rendere visibile l’invisibile.
Un gruppo di supervisione produce uno “spazio psichico” in cui si trovano all’appello i partecipanti e i loro analisti, il supervisore e il proprio analista; si forma un gruppo atto a prendere in carico ciò che chiamiamo “resto”, ciò che è irriducibile alla conoscenza. Il metodo di un simile gruppo, basato sulle libere associazioni, privilegia l’analisi delle zone di sordità, delle variazioni tendenziose, e giunge a scovare e situare i transfert inconsci circolanti. I punti più problematici o più discutibili di una tecnica o di uno stile si palesano, i concetti teorici sottesi ma non esplicitati emergono.
In un clima di fiducia e di cooperazione, i terapeuti arricchiscono la loro esperienza ascoltando casi diversi, condotti in modo diverso. Ricongiungono le grandi linee di forza del funzionamento psichico e i principali assi teorici. Si immergono nel campo di quella che J. Laplanche chiama “teoretica” per differenziarla dall’apprendimento della pura pratica.
E ancora: una buona distanza tra supervisore e supervisionato alleggerisce l’intensità dell’investimento transferenziale, mentre la presenza contemporanea di un rappresentante genitoriale e di una fratria favorisce la ripartizione libidica e le identificazioni speculari, smorzando così l’investimento oggettuale sul supervisore.
Conrad Stein(ha formulato una teoria della trasmissione che chiama del ”doppio incontro”. Essa si riferisce ad ogni incontro in cui il prodotto dell’associazione libera di un soggetto venga riconosciuto da un altro come frammento di un lavoro immaginario, suscitando in lui una ulteriore elaborazione associativa: siamo di fronte a un modello di incontro doppiamente auto-fecondante. Colui che “racconta il caso” fa “passare” agli altri qualcosa della propria esperienza intima, dando così un esempio di teorizzazione soggettiva.
Attraverso lo strumento delle libere associazioni e l’ascolto attento del controtransfert, si costruisce un vero “spazio analitico”. In esso prende corpo un pensare che lega la coscienza all’inconscio, le logiche primarie a quelle secondarie, sostenuto dalla regola dell’astinenza che qui più facilmente sarà appresa, vissuta, rinforzata.
Grazie a questo dispositivo, affacciati sulle profondità dell’inconscio, le associazioni di ogni partecipante producono la costruzione analitica, sia della relazione terapeuta-paziente, sia del caso clinico.


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