Sarajevo, centro del mondo

5 luglio 2025
Wolfgang Letti, Irpin giorno 13, 1980

Introduzione e cura di Angela Peduto

Il centro del mondo (Dnevnik Selidbe, 1993) è il titolo che Dževad Karahasan, uno dei più grandi scrittori europei, originario della Bosnia-Erzegovina, diede al libro scritto nel 1993, durante l’assedio di quella città che, nel cuore dell’Europa, con la sua multiculturalità e il suo plurilinguismo, incarnava i valori più alti del nostro continente. 

Sarajevo: metafora del mondo, “luogo in cui i diversi volti del mondo si sono raccolti in un punto come in un prisma si concentrano i raggi di luce dispersi”. Il centro del mondo è la testimonianza di un assedio inaudito ed è il tentativo di comprenderne le ragioni. Sarajevo: luogo dove vissero insieme le tre religioni del Libro – come a Gerusalemme e a Toledo -, ma sotto forma di quattro culture, cattolica, ortodossa, ebrea, musulmana, lungo cinque secoli di pluralismo creatore e fecondo. E poi la guerra spezzetta e profana questo luogo, costringendolo a migrare in un’altra realta: “è il diario di un trasloco forzato. Il mio stesso trasloco, che mi ha costretto a lasciare le mie penne stilografiche, i tappeti, la scrivania, la libreria. E poi, più doloroso ancora, è quello della città, Sarajevo, che deve abbandonare la realtà materiale per una realtà ideale, lasciare la sua valle circondata da colline per rifugiarsi nella memoria”. 

Profondamente ancorato ai valori che Sarajevo racchiude e rappresenta, lo scrittore sente che la sofferenza spirituale è una minaccia più grande di quella materiale. In occasione della visita di un intellettuale francese (Karahasan rivelerà in seguito che si tratta di Bernard-Henri Lévy. Cfr. Nota) che si mostra sconvolto dalle sue penose condizioni di vita, egli osserva: “Il mio ospite mi ha domandato come faccio a vivere senza acqua, io ho risposto che qualche volta l’acqua c’è e che quando piove si raccoglie dalla grondaia molta acqua piovana. Poi ho cercato di spiegare che era più importante salvare Sarajevo e la possibilità che qui convivano quattro nazioni e quattro religioni, piuttosto che occuparsi dei miei problemi con l’acqua”.

Nel 1993, mentre il conflitto nei Balcani infuria e prosegue la sistematica distruzione di Sarajevo – stragi di civili, orrori impensabili, accanimento contro i simboli, i monumenti storici, le istituzioni culturali -, viene lanciata in Francia una campagna perché si nomini Sarajevo capitale culturale dell’Europa, un riconoscimento prestigioso e simbolico che ne consacri la piena appartenenza europea. Il filosofo Jean-Luc Nancy redige il testo di apertura del dossier di candidatura:

“Dobbiamo esigere l’investitura ufficiale di Sarajevo come “capitale culturale d'Europa” per una ragione principale: Sarajevo è già, di fatto, la capitale culturale d'Europa. Non lo è per la ricchezza del suo passato, nemmeno lo è per le forze creative che eroicamente sopravvivono, come testimonia la chiamata al Festival d'Inverno. Essa lo è in modo molto più radicale, per la desolazione che regna in questa città. Perché questa ci costringe a dare alla parola “cultura” un senso o una carica che forse è appena in grado di sostenere. Davanti a Sarajevo, l'ozio frivolo degli “affari culturali” è insopportabile. Da questo momento, la parola “cultura” è investita di tutt’altra esigenza: deve designare ciò che dà all'esistenza una forma diversa da quella, informe, dell’annientamento.

Sarajevo è oggi, per l'Europa, la capitale di questa esigenza assoluta. L'investitura ufficiale ha senso solo se designa questo. È in questo senso che occorre chiederla ed è in questo senso che si dovrà farne uso”.

Il faut exiger l’investiture officielle de Sarajevo comme « capitale culturelle de l’Europe » pour une raison principale : Sarajevo est déjà, de fait, la capitale culturelle de l’Europe. Elle ne l’est pas au titre de la richesse de son passé ; elle ne l’est pas non plus au titre des forces créatrices qui y subsistent de manière héroïque, et dont témoigne à l’appel du Festival d’hiver. Elle l’est de manière beaucoup plus radicale, au titre de la désolation qui règne dans cette ville. Car celle-ci nous force à donner au mot de « culture » un sens ou une charge qu’il est peut-être à peine capable de soutenir. Devant Sarajevo, l’oisiveté frivole des « affaires culturelles » est insupportable. Dès lors, le mot de « culture » est investi d’une tout autre exigence : il doit désigner ce qui donne à l’existence une autre forme que celle, informe, de l’écrasement.
Sarajevo est aujourd’hui, pour l’Europe, la capitale de cette exigence absolue. L’investiture officielle n’a de sens que si elle désigne cela. C’est en ce sens qu’il faut la demander, et c’est dans ce sens qu’il faudra en faire usage.

Vedran Smailović nel 1992 suona il violoncello tra i ruderi della Biblioteca Nazionale di Sarajevo, semidistrutta durante l'assedio.

Un'immagine incarnerà l'idea di desolazione evocata da Jean-Luc Nancy, esprimendo insieme sia la fragilità del destino dell'Europa sia la resistenza radicale che l'arte deve opporre ad essa: l'immagine del violoncellista che suona tra le rovine della Biblioteca Nazionale di Sarajevo. Appena qualche anno prima un altro celebre violoncellista, russo, aveva suonato Bach ai piedi del muro appena caduto a Berlino: una promessa di libertà che sarà sommersa dal caos del post-comunismo.

Ciò che è accaduto nella ex Jugoslavia - l’odio etnico, il genocidio, la barbarie, la violenza ottusa e cieca del nazionalismo, la distruzione di quel mondo plurale di cui Sarajevo resta memoria e simbolo - dovrebbe essere di monito a un’Europa esitante e pavida nella difesa dei suoi valori e dei suoi ideali. La fertile convivenza di lingue e culture di cui Sarajevo fu straordinaria realizzazione oggi più che mai sta davanti a noi come utopia.

Il mondo si frattura, come si sono fratturate quelle terre e disgiunte le lingue, nel mentre viaggia a velocità impressionante verso configurazioni sempre più lontane dal cosmopolitismo dei Lumi. E tuttavia non rinunceremo a sognare Sarajevo come utopia, “centro del mondo” e cuore dell’Europa: perché se perderemo questa utopia perderemo noi stessi.

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Sarajevo: ritratto interiore della città

Da Il centro del mondo. Sarajevo, esilio di una città / Dževad Karahasan, il Saggiatore, 1995, traduzione di Nicole Janigro.

Sarajevo è la città più grande e più importante della Bosnia-Erzegovina, da tutti i punti di vista una tipica città bosniaca, fondata nel 1440 da Isa bey Ishaković. Costruita nella valle del fiume Miljacka, circondata da montagne che quasi la recingono, isolata dal mondo, difesa da tutto ciò che le è esterno e completamente ripiegata su sé stessa. Il centro commerciale della città, la Čaršija (l’equivalente della City nelle città europee di oggi) si stende sul fondo pianeggiante della conca, mentre intorno, sulle pendici delle montagne, sono cresciuti i quartieri dove la gente abita e che si chiamano mahale. In questo modo il centro è doppiamente separato dal mondo: dalle montagne che circondano la città e dalle mahale. Queste, per configurazione di territorio e come soluzione urbanistica proiettata sul centro, funzionano da armatura che protegge da tutto ciò che è esterno, così come la lumaca e la conchiglia sono protette dal loro guscio.

Forse perché questa duplice recinzione la costringe a «guardarsi dentro», a rivolgersi tutta verso la propria interiorità, oppure per chissà cos’altro, Sarajevo è diventata ben presto metafora del mondo. Il luogo in cui differenti volti del mondo si sono raccolti in un punto come nel prisma si concentrano i raggi di luce dispersi. Un centinaio di anni dopo la fondazione, la Città ha raccolto uomini di tutte le religioni monoteistiche e delle culture da queste derivate, innumerevoli lingue diverse e forme di vita che queste lingue contengono in sé. È diventata un microcosmo, centro del mondo che, come ogni centro secondo l’insegnamento degli esoterici, contiene tutto il mondo. […]

 Come la sfera di cristallo dell’indovina contiene tutti gli avvenimenti, tutto quello che a uno qualunque degli uomini può capitare, tutte le cose e tutti i fenomeni del mondo; come l’Aleph di Borges mostra in sé tutto quello che è stato, tutto quel che sarà e tutto quello che potrebbe accadere, Sarajevo porta in sé tutto ciò di cui è costituito il mondo a occidente dell’India. Forse perché Sarajevo, come le altre città bosniache, è cosi nettamente delimitata dal mondo esterno e quindi volta verso sé sola, forse è perché il mondo ha bisogno di una città che lo racchiuda idealmente come una sfera di cristallo, forse per un altro motivo ancora; non so, ma so che è così.

Già dalla sua fondazione, la Città fu popolata da genti di tre religioni monoteistiche - islamica, cattolica e ortodossa -, e vi si parlava il turco, l’arabo e il persiano, il bosniaco, il croato e il serbo, l’ungherese, il tedesco e l’italiano. Poi, cinquanta anni dopo, quando i pii governanti Ferdinando e Isabella scacciarono dalle loro terre spagnole gli ebrei, alcuni si rifugiarono a Sarajevo, portando con sé la quarta confessione monoteistica, altre lingue e una nuova cultura, costruitasi intorno a questa religione in un errare di secoli. Sarajevo è diventata così una nuova Babele e una nuova Gerusalemme: la città di una nuova confusione linguistica dove, con un solo sguardo, è possibile abbracciare fedeli di tutte le religioni del Libro.

Questa mescolanza di lingue, fedi e popoli, destinati a vivere insieme in uno spazio così ristretto, ha prodotto una forma di cultura davvero specifica, che caratterizza la Bosnia-Erzegovina e soprattutto Sarajevo, la sua spiccata originalità. Nell’impero ottomano multinazionale e multiconfessionale c’erano naturalmente molti territori e città in cui popoli, lingue e religioni si mischiavano, ma certamente nemmeno in quell’enorme stato esisteva una città in cui così tante lingue-religioni-culture si incontrano e si mescolano in così poco spazio. […]

Il sistema culturale bosniaco, costituito nella sua forma più pura e realizzato nel modo più conseguente possibile proprio a Sarajevo, si potrebbe descrivere abbastanza precisamente con l’attributo di «drammatico», e definire in opposizione con quello che si potrebbe descrivere con l’attributo di «dialettico». I suoi principi fondamentali sono affini a quelli sui quali si costituisce il dramma e si possono capire per comparazione. Il rapporto essenziale fra gli elementi del sistema è la tensione che li oppone, questo significa che sono posti uno di fronte all’altro e che sono reciprocamente legati proprio dalla contrapposizione che li definisce l’uno rispetto all’altro. Gli elementi entrano nella composizione del sistema […] senza perdere la loro natura primordiale, mantenendo tutte le particolarità che hanno al di fuori del sistema di cui vanno a far parte: ogni tessera entra nella struttura del sistema arricchita di nuove particolarità senza abbandonare quelle che già possedeva. Ciascun elemento è anche da solo un intero complesso, composto da due parti collegate fra loro da un rapporto di opposizione.

Il segno fondamentale di un sistema culturale del genere è il pluralismo e, in questo senso, è direttamente opposto ai sistemi culturali monistici, che si potrebbero anche definire dialettici, ancora dominanti nelle grandi città occidentali dove si creano mescolanze di religioni, lingue e popoli come già accadde a Sarajevo. Se in un sistema culturale drammatico il rapporto essenziale è la tensione, nella quale ciascuno dei fattori del rapporto conferma la propria natura primaria, nel sistema dialettico il rapporto fondamentale è il divorarsi reciproco, oppure, se deve suonare meglio, l’essere ricompreso dell’inferiore nel superiore, del più debole nel più forte. A ciascun membro del sistema drammatico l’Altro è necessario come prova della propria identità, perché la propria particolarità si dimostra e articola in relazione alle particolarità dell’Altro, mentre in un sistema dialetticamente costruito l’Altro è solo apparentemente Altro, mentre in realtà è un Io mascherato, è l’Altro contenuto in me, poiché nel sistema dialettico (nel modo di pensare dialettico) i fatti contrapposti sono in realtà Uno. È questa la differenza fondamentale fra Sarajevo e le babeliche mescolanze contemporanee delle città occidentali, differenza che richiedeva una spiegazione fugace, e un po’ tecnica, dei sistemi culturali che si sono venuti formando.

Il sistema culturale drammatico è percorso - ed è una delle sue caratteristiche più marcate - da un gioco eccitante di rimandi reciproci e di contrasti, di aperto e chiuso, di esterno e interno. Gioco che determina anche l’organizzazione interna della città e la struttura di ciascuna delle sue parti e anche ogni aspetto della quotidianità, dall’abitare agli usi alimentari. Questo gioco, che si può vedere da tutti i punti di osservazione possibili della città, mostra ancora che Sarajevo è una città interiore.

[…]

Bisogna dopo questo spiegare che un’interezza così fine e così complicata come è Sarajevo, nella quale si riflette come in uno specchio l’intera Bosnia-Erzegovina, deve essere fragile? È necessario sottolineare in particolare quanto sia naturale che una forma di tale interezza attiri e streghi gli esiliati della cultura epica, allo stesso modo in cui il fiore in serra attira e incanta i selvaggi? Ma c’è una differenza essenziale: il selvaggio guarda stregato il fiore in serra, ma non romperà mai il vetro per arrivare fino al fiore, perché il selvaggio è reverente: sa che allora sparirebbero insieme l’incanto e la malia che danno a tutto questo valore; l’esiliato dalla cultura epica (una cultura la cui musica si suona su una corda sola ed è quasi tutta in essa contenuta), al contrario, fissa con gli occhi spalancati Sarajevo e ci gira intorno, mentre (la città) gli sfugge come il fiore in serra al selvaggio; a questo punto l’uomo epico manda in frantumi Sarajevo, perché, posseduto dalla natura apparente della sua formazione epica, ha perso il senso religioso e la capacità di godere dell’incanto.

Della distruzione di Sarajevo, della profanazione della magia e della perdita della capacità di godere dell’incantamento parlano le storie che seguono. Sono testi conseguenti fino all’estremo, la loro segreta intenzione sta nel dire quanto sia urtante ogni cosa quando viene presa alla lettera. Credete al loro autore, che peraltro è una persona fredda e non particolarmente sentimentale, che quel che fa più male è la stupida concretezza di un trasloco coatto. Non tanto e non solo la concretezza del proprio trasloco con il quale si lasciano le proprie penne stilografiche, i tappeti, la scrivania e la libreria; di più, molto di più, fa male l’esodo della città nella quale viviamo, Sarajevo, traslata da una realtà materiale in una ideale, dalla propria conca circondata dalle montagne nel ricordo, nella memoria, nell’ideale. Così Sarajevo, che è stata una città dell’interiorità nel significato esoterico della parola, quindi in un senso non letterale, sta diventando «interiore» in senso letterale, stupidamente letterale. E prendere le cose alla lettera fa male, credetemi”.


______________________

La memoria di Srebrenica

Trent’anni fa, l’11 luglio 1995, venne scritta una delle pagine più cupe dell’Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale: 8.372 uomini e ragazzi musulmani furono massacrati e gettati nelle fosse comuni a Srebrenica, in Bosnia-Erzegovina, ad opera di unità dell'esercito della Repubblica Serba di Bosnia. La Corte Internazionale di Giustizia e il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia hanno stabilito senza equivoci che queste atrocità sono identificabili come genocidio e nel maggio del 2024 la comunità internazionale ha deciso di commemorarlo annualmente. La decisione è stata tutt'altro che unanime tra i membri dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite: 84 Paesi membri hanno votato a favore, 19 hanno votato contro e 68 si sono astenuti. La risoluzione è stata fortemente contestata e osteggiata dalla Serbia e dal leader dei serbi di Bosnia, Milorad Dodik, che ancora rifiutano di riconoscere il genocidio.

Fissando l'11 luglio, a partire dal 2025, come giorno di commemorazione, la risoluzione è la terza del genere votata dalle Nazioni Unite, dopo la designazione della commemorazione del genocidio dei Tutsi in Ruanda, nel 2003, e della Shoah, nel 2005. Ma è l'unica a non essere stata accettata per consenso generale, nonostante nel testo si affermi esplicitamente che la risoluzione non colpisce in nessun caso i Serbi nel loro insieme.

L’11 luglio 2025, a trent’anni da Srebrenica, l’Università di Bologna organizza un momento di memoria e di riflessione:

11 luglio 2025

ore 15:00 – 16:30

Cappella Farnese, Comune di Bologna

Dialogo con Elvira Mujčić e Gigi Riva.

Moderano Rita Monticelli e Barbara Ivančić

Ore 16:30-18:00

Tavola rotonda con Stefano Bianchini, Francesco Privitera, Asim Mujkić

Modera Marco Borraccetti



Nota:

A tale proposito la poetessa Ferida Duraković non esita a scegliere parole dure in una sua poesia:

È venuto

perciò un Professore, tutto parigino:

Mes enfants,

ha cominciato, e le dita sue ripetevano:

Mes enfants, mes enfants, mes enfants, in mezzo

all’Accademia delle scienze le teste grigie pensavano

solo alla sua camicia bianca abbagliante…

Mes enfants, qui sta morendo l’Europa. Poi ha tutto

riordinato in un film, in immagini, in parole grandi, come

histoire, Europe, come responsabilité e, naturalmente,

les Bosniens. È così, ecco, che si guarda in faccia la Storia,

non come te: in rozzi irresponsabili frammenti,

il colpo del cecchino che si conficca nel cranio,

le tombe che già ricopre instancabile l’erba,

i tuoi palmi posati su

Edvard Munch, che anche lui, una volta,

ha inventato tutto, invano.

da Si paga con la vita. Sarajevo 1991-2012 (Poesie scelte), Il Ponte del Sale, 2015)

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