Editoriale Ottobre 2022

Mariangela Pierantozzi

Giornata Mondiale della Salute Mentale, 10 Ottobre 2022

Quale formazione, quale cultura per la psichiatria?

Passato, presente, futuro

Come esprimere il nostro impegno in questi tempi oscuri in cui il futuro stesso del pianeta è in pericolo e la pace sembra essere un valore estinto sia tra i popoli sia nel cuore degli individui?

Il 10 Ottobre è la Giornata Mondiale della Salute Mentale e desideriamo in questa occasione essere presenti: come operatori sul campo, con le nostre idee e le nostre esperienze, perché, oltre che cittadini, noi operatori della salute mentale abbiamo un compito arduo da portare avanti.

A quarantaquattro anni dalla promulgazione della legge 180, che ha permesso la chiusura dei manicomi, dobbiamo continuare a lottare per una nuova cultura della psichiatria. Riteniamo urgente continuare a riflettere, discutere e attirare l’attenzione di tutti intorno a questo problema che, al pari di altri, di natura più generale, riguarda la dignità dell’individuo: lottare per il diritto a ricevere terapie e cure idonee, efficaci nel superare la segregazione e l’annientamento del soggetto, elementi che avevano caratterizzato le attività psichiatriche fino ai primi anni Settanta del secolo scorso.

Lo spirito profondo della legge Basaglia è stato la riumanizzazione della psichiatria, l’eliminazione dell’esclusione e dei metodi di contenimento dei sintomi e dei comportamenti, frutto di atteggiamenti di potere piuttosto che di cura. È stato il primo rivoluzionario passo per rifondare le basi di questo mestiere impossibile quanto necessario e affascinante.

Abbiamo pensato che la giornata mondiale per la salute mentale potesse essere lo spazio di riflessione adatto ove far confluire le riflessioni avviate negli ultimi tempi sul tema cruciale delle cure e, a monte di questo, quale suo presupposto, sulla scelta dell’approccio culturale e scientifico alle cure che si vogliono adottare nell’ambito della salute mentale. Ancor più in questo particolare momento storico, in cui il noto Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza porterà possibilità economiche importanti: per non essere ricordato come l’ennesima occasione mancata, dovremmo, in questo momento storico, rispondere alla domanda: quali sono i principi e i valori clinico-terapeutici su cui vogliamo impostare il sistema di cura?  

Molti sono gli argomenti su cui vorremmo attivare una discussione che coinvolga tutti gli operatori.

Passato e presente: quali indicazioni cogliere per il futuro / Servizi, territoriali ed ospedalieri – SPDC (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura)

All’inizio, nel 1978, ci si adoperò per creare i cosiddetti “repartini” (i nuovi SPDC) in modo che non riproducessero la vecchia logica manicomiale, cercando di evitare gli scogli di nuove logiche istituzionali: avrebbero dovuto essere dei ponti a percorso breve, solo fuggevoli tramiti tra il paziente e i servizi territoriali.

In realtà, nell’attività psichiatrica attuale, molti servizi, sia territoriali che ospedalieri, non si discostano dai vecchi manicomi: hanno apparenze meno evidenti allo sguardo ma nascondono un messaggio e un atteggiamento verso il paziente identico, se non peggiore, di quello manicomiale, perché mistificato.

Il paziente, quando non è dimenticato, appare come un oggetto da gestire, attraverso atti burocratici di sistemazione rispetto ad un luogo (reparto, comunità, famiglia, appartamento, laboratorio riabilitativo) o rispetto ai sintomi (abbatterli).

L’inserimento sociale, o meglio, la più banale collocazione, sembra la pratica più diffusa.

Compito primario dovrebbe invece essere la presa in carico, inizio di un percorso di accoglimento e conoscenza della persona, instaurando un rapporto, un ascolto attento ed empatico, fondamento dell’incontro responsabile tra medico e paziente. Nel libro Medico, paziente e malattia Michael Balint sosteneva che “il medico somministra sé stesso come farmaco” e che la relazione interpersonale è importante in qualsiasi branca della medicina, e a maggior ragione in psichiatria.

Spesso gli operatori non conoscono la storia del paziente, né quella esistenziale né quella affettiva. Ci si scontra con la difficoltà, quando si parla con colleghi di un paziente in condivisione, a tenere ferma la loro attenzione sul resoconto delle nostre informazioni ottenute in un tempo trascorso con lui.  Sconcerta professionalmente constatare che l’attenzione del clinico pare sempre più spesso orientata su un presente personalistico (ciò che accade dal momento in cui il ‘nuovo’ clinico incontra il paziente), con esclusione di altri quadri informativi che pure, non possiamo negarlo, in quel presente hanno avuto un ruolo.

Se ne ricava, peraltro, l’impressione che il soggetto esista solo per il momento dell’incontro e che il perno del lavoro sia centrato solo sul tempo dell’operatore e non sul tempo del soggetto in cura. E accade così che il paziente, pur se gestito, rimanga solo con i suoi incubi e i suoi dolori.

Diagnosi e terapia: ripensare il ruolo della farmacologia

Fatta la diagnosi secondo le griglie del DMS5, stabilita una terapia farmacologica, segue l’invio del paziente in luoghi di pura stagnazione (si può rimanere anche alcuni mesi all’interno di un SPDC o dimenticati a casa).

I professionisti, già scarsi numericamente, si muovono soprattutto tra operazioni di controllo burocratico e legale, riducendo i pazienti a oggetti di una presa in carico logistica. La psiche in psichiatria non interessa più? Forse, come l’inconscio, anch’essa è scomparsa da questo campo?

La psichiatria italiana, ma non solo, è sprofondata nel positivismo organicistico in cui il cervello e le sue disfunzioni esauriscono la spiegazione del comportamento e delle emozioni umane. Le ricerche scientifiche in generale, e quelle sulla salute mentale in particolare, in questi ultimi decenni di imperante dominio del corpo, sono orientate a cercare l’evidenza materiale delle patologie. Lo strumento più diffuso è rappresentato dal farmaco, ad esso è affidata la gestione dei sintomi di cui non vengono approfondite la natura e le radici: le certezze farmacologiche sono all’ordine del giorno, mentre il dubbio, che dovrebbe guidare i nostri atti terapeutici, è scomparso.

Gli psicofarmaci sono certamente un valido aiuto nelle cure psichiatriche e va sempre valutata, rispetto alla situazione clinica, la possibilità di giovarsi del loro ausilio. Essi però devono essere sempre accompagnati dal dialogo, inseriti in una relazione terapeutica che attraverso la parola incentivi la fiducia, il rispetto e la conoscenza.

Si  dimentica che i disturbi psichici vanno studiati approfonditamente, nella unicità di ogni individuo, attraverso un rapporto profondo con lui, in un ascolto senza pregiudizi sociali e diagnostici.

Il disturbo psichico, in questo senso, richiede capacità di osservazione, di ascolto e di relazione più ampie e profonde di altre branche mediche e, pur riconoscendo che ancora molto può e deve essere indagato e scoperto, ci sono strumenti a nostra disposizione che paiono dimenticati o banditi: uno fra tutti, la psicoanalisi.

Mentre la psichiatria distingue nettamente la malattia mentale dalla normalità e, attraverso la formulazione diagnostica, crea una netta differenza tra sano e malato, la psicoanalisi ha messo tutti gli individui su un medesimo percorso, dove determinate situazioni emotive e comportamentali, andando da un minimo ad un massimo di espressione, descrivono e approfondiscono la conoscenza dell’essere umano lungo una linea di continuità. Tutti utilizziamo i medesimi funzionamenti psichici e reagiamo ai traumi optando tra i medesimi meccanismi di difesa.

La psicoanalisi ci insegna a osservare i comportamenti e ad ascoltare le emozioni per entrare nelle profondità recondite dell’inconscio. In questo senso, la psichiatria potrebbe e dovrebbe dotarsi di strumenti psicoanalitici, capaci di mitigare la diagnostica semplicistica e priva di dubbi che i manuali diagnostici nutrono.

I progressi che la psicoanalisi ha fatto nel campo delle psicosi sono enormi, ed essi hanno apportato nuove possibilità nella loro cura. Lo studio psicoanalitico delle psicosi conta una bibliografia lunghissima. Ci limiteremo a pochi testi per ragioni di spazio: S. Freud, Nevrosi e Psicosi (1923) e La perdita di realtà nelle nevrosi e nelle psicosi (1924); M. Klein, Note su alcuni meccanismi schizoidi (1946); P. Federn, Psicosi e Psicologia dell’io (1952); W.R. Bion, Criteri differenziale tra personalità psicotica e non psicotica (1957); J. C. Racamier, Il genio delle origini. Psicoanalisi e psicosi (1992); C. Stein, L’immaginario: strutture psicoanalitiche (1971); F. De Masi, Svelare l’enigma della psicosi. Fondamenti per una terapia analitica (2018); e tantissimi altri, in una sequela di studi ed esperienze che continuano a nascere ed essere pubblicati.

Un percorso altrettanto importante è quello della psichiatria fenomenologica che, come affermava L. Binswanger, doveva fondarsi su una disciplina che includesse il problema ontologico dell’essere totale dell’uomo: con piacere e nostalgia ripercorriamo i pensieri di grandi psichiatri del passato che oggi, nelle aule universitarie, non si ascoltano più.

Anche e soprattutto la parola, messaggero inalienabile di scambio, pare scomparsa dallo strumentario: la forma più alta della comunicazione umana non abita più i luoghi di cura. Non c’è più spazio per il dialogo.

Né possiamo tralasciare la responsabilità degli insegnamenti universitari. La farmacologia e gli studi sul cervello sono gli argomenti prevalenti eppure, da molti anni, sono state fatte ricerche a doppio cieco dai risultati sorprendenti: essi mostrano che la differenza dell’effetto degli antidepressivi e del placebo è minima. Già nel 2009 Irvin Kirchs ne dava ragione nel volume I farmaci antidepressivi. Il crollo di un mito. Proprio quest’anno una ricerca inglese riapre il dibattito sul ruolo della serotonina nei disturbi depressivi: secondo Joanna Moncrieff, dell’University College di Londra, non ci sarebbero prove coerenti dell’esistenza di una diretta associazione tra serotonina e depressione: si riaprono così molti dubbi sulla specifica utilità degli antidepressivi.

Un interessante resoconto di Ezio Sanavio ci fa edotti dei risultati di una “Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione” i cui lavori sono terminati nel 2022 e in cui si è concluso, tra l’altro, che alcune psicoterapie sono più efficaci dei farmaci.

Ricordo inoltre il “Manifesto della Salute mentale. La cura nella salute mentale come valorizzazione della persona e della difesa della democrazia”(www.dirittoallasalutementale.it) in cui Sarantis Thanopulos, presidente della SPI, ha lanciato una petizione (www.change.org/p/sergio-mattarella-la-salute-mentale-è-un-diritto-di-tutti-ripensiamo-il-ssn)

La presa in carico del paziente: l’importanza del lavoro clinico condiviso

In psichiatria non si può lavorare da soli; per questo è mia abitudine cercare altri professionisti e scambi che possano essere d’aiuto al paziente. Ho vissuto in prima persona, in varie situazioni, una distorta modalità di operare dove quella limitazione dello sguardo diagnostico e clinico al solo presente, di cui ho appena parlato, si estende al rapporto tra professionisti che condividono un paziente nelle diverse fasi della malattia.

I tempi dedicati agli scambi e confronti sono ridotti: telefonicamente sono quasi impossibili perché il personale non è rintracciabile (evidentemente e comprensibilmente occupato nelle diverse attività) e per email lo scambio si riduce ad una risposta burocratica di mera presa d’atto o, più spesso, al silenzio, che impedisce successivi contatti e tronca anche la relazione tra operatori.

Entrare nella sala d’attesa di alcuni  CSM, e trovarsi avvolti da un tempo fermo, glaciale, nebbioso; essere costretti all’attesa dal gesto aggressivo ed escludente di una porta chiusa in faccia, senza una parola di spiegazione; essere attorniati da pazienti in evidente stato di sedazione, occhi persi nel nulla e rivoli di saliva agli angoli delle bocche semiaperte, senza nessuna possibilità di scambio verbale; essere ricevuti dal collega dopo più di un’ora di attesa e avere un ascolto distratto, infastidito e senza risposte; colloqui effettuati da dietro lo schermo di un computer, ridotti a richieste di tipo anagrafico e a scarni dati anamnestici.  

Non c’è vita in quelle stanze immote, in cui nessuno entra e nessuno esce.

Negare spazio e tempo al confronto diagnostico e allo scambio sullo stato del paziente con gli altri professionisti che hanno o hanno avuto in cura il paziente dovrebbe suonare per noi come un forte campanello d’allarme rispetto alla cultura della diagnosi e della cura della salute mentale. Può apparire, a tacer d’altro, sintomo di un disinteresse per il paziente e per la sua storia, oltre che fattore di rischio elevato sul piano professionale, impedendo alla radice la raccolta di informazioni anche determinanti nella cura e gestione del paziente, soprattutto nel particolare momento del ricovero e della degenza.

Anche tra gli operatori le parole non vengono più pronunciate né ascoltate: anche i professionisti della salute mentale rimangono muti, chiusi nei loro preconcetti, senza desiderio o esigenza di uno scambio.  

Uno dei rischi del percorso terapeutico: la cronicizzazione

Infine non dimentichiamo la cronicizzazione.

Sicuramente i pazienti che si osservano nelle sale d’attesa dei servizi sono cronici, ma sono nuovi cronici, anzi cronicizzati attuali: sicuramente non hanno mai frequentato un manicomio ma, a me che ho iniziato a lavorare tra le sue mura per arrivare poi a chiuderlo, non sembrano diversi dai malati incontrati allora.

Mi sono sembrati doppiamente umiliati, perché illusi da una ipocrisia.

Conclusioni per un confronto comune

Ho voluto evidenziare, seppure brevemente e senza alcuna aspirazione alla completezza, diverse tematiche e questioni che dovrebbero essere messe in discussione e che descrivono gli esiti di una impropria o improvvida applicazione della legge 180.

Le questioni sollevate purtroppo non sono rare, ma ubiquitarie.

Non è solo in gioco la scarsità di personale dovuta a tagli e scarse risorse finanziarie, come alcuni pensano, benché ciò rappresenti un innesco di molte problematiche; essa non deve diventare un comodo alibi per l’immobilismo e per evitare di guardare a ciò che possiamo realisticamente modificare.

In questa giornata mondiale della salute mentale, allo scopo di una riflessione comune e costruttiva sul futuro della clinica della salute mentale, vogliamo chiederci e chiedere se tale condizione sia dovuta piuttosto a una abitudine ormai diffusa, che ha escluso i saperi fenomenologici e psicoanalitici.

Non si leggono più libri come Psicopatologia Clinica o Le personalità psicopatiche di Kurt Schneider, rappresentante della scuola di Heidelberg insieme a Karl Jaspers, autore sobrio “che insegnava innanzitutto il senso del limite dell’agire medico e psicoterapeutico, la relativizzazione del senso della diagnosi nell’ambito della personalità” (Riccardo Dalle Luche, 2008).

E come non essere grati ancora una volta al Prof. Eugenio Borgna, che ha usato il tempo isolato della pandemia per scrivere un libro dal titolo audace e allarmante, L’agonia della psichiatria, in cui descrive lucidamente lo stato attuale di questa disciplina.

Sicuramente ci saranno isole felici dove operatori sensibili, dotati di pensiero critico, difendono l’umanità dei pazienti e delle relazioni all’interno dei servizi, con competenza tecnica e culturale. Siamo comunque al crepuscolo di quella idea di nuovo futuro che aveva ispirato battaglie a partire dal manicomio di Gorizia. Ci aggiriamo, all’inizio del terzo millennio, e non solo in ambito psichiatrico, tra relitti e vecchie icone malamente resuscitate.

Abbiamo bisogno di tornare a ripensarci e forse, chissà, anche a rifondarci su quei principi e criteri che hanno distinto e qualificato la psichiatria, per adattarli alle numerose difficoltà odierne, sia delle strutture sia dell’approccio clinico e di pensiero; abbiamo bisogno di ritrovare un pensiero critico, disposto ad accettare l’ambiguità del dubbio, con le sue responsabilità ma anche i suoi spazi di incontro con l’altro e con il non previsto.  (Mariangela Pierantozzi)

Bibliografia essenziale:

  1. Michael Balint, Medico, Paziente e malattia, Feltrinelli, Milano 1961, Giovanni Fioriti ed., Roma, 2014
  2. Eugenio Borgna, L’agonia della psichiatria, Feltrinelli, Milano, 2022
  3. Riccardo Dalle Luche, prefazione a K. Schneider, Le personalità psicopatiche, 2008
  4. Franco De Masi, Svelare l’enigma della psicosi. Fondamenti per una terapia analitica, Mimesis, Milano, 2018
  5. Paul Federn, Psicosi e psicologia dell’io, (1952), Boringhieri, Torino, 1976
  6. Sigmund Freud, Nevrosi e Psicosi, (1923), Opere, Boringhieri, Torino, Vol. IX
  7. Id., La perdita di realtà nella nevrosi e nella psicosi, (1924), Opere, Boringhieri, Torino, Vol. X
  8. Irvin Kirsch, I farmaci antidepressivi. Il crollo di un mito, Tecniche Nuove, Milano, 2009
  9. Melanie Klein, Note su alcuni meccanismi schizoidi, (1946), in Ead., Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino, 1979
  10. Paolo Migone, “Ansia depressione e psicofarmaci", www.doppiozero.com
  11. Joanna Moncrief, Ruth E. Cooper, Tom Stockmann, Simone Amendola, Michael P. Hengartner & Mark A. Horowitz, “The Serotonin theory of depressione: a systematic ombrella review of the evidence”, 20 July 2022, Molecular Psychiatry
  12. Ezio Sanavio, “ Una Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione”, Psicoterapia e Scienze Umane, 2022, 56, 1, Franco Angeli, Milano
  13. Kurt Schneider, Psicopatologia Clinica, (1946), Giovanni Fioriti ed., Roma, 2016
  14. Id., Le personalità psicopatiche, Giovanni Fioriti ed., Roma, 2008
  15. Conrad Stein, L’immaginario: strutture psicoanalitiche, Feltrinelli, Milano, 1972

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