Editoriale Giugno 2025

Angela Peduto

Gaza: "Restiamo umani"

“Restiamo umani”: così terminava le sue corrispondenze da Gaza l’attivista e reporter Vittorio Arrigoni tra la fine del 2008 e gli inizi del 2009, mentre infuriava l’operazione 'Piombo fuso'.  È il solo monito da raccogliere, il solo impegno da assolvere.


La scrittrice libanese Dominique Eddé ha scritto: “En dehors d’une utopie, il n’y a pas de solution possible.”

“Al di fuori di un’utopia, non c’è soluzione possibile.” 

Noi, che abbiamo fondato OfficinaMentis e ostinatamente crediamo nei valori pacifisti e umanisti, osiamo l’utopia della pace.

In nome di questi valori e di questa utopia condanniamo come intollerabile il massacro che da venti mesi viene sistematicamente portato avanti a Gaza in risposta all’orrore, altrettanto indicibile e intollerabile, del 7 ottobre. 

Se la risposta diventa vendetta, se la violenza si scatena senza freni e senza limiti, cinicamente asservita al calcolo politico e a un disegno, espresso senza ambiguità, di cancellazione di un popolo, allora, ovunque e in qualunque tempo questo accada, è l’idea stessa di umanità che muore. 

A questo ci opponiamo con forza.

Chiediamo che questo scempio di vite umane venga fermato, chiediamo che il governo di Israele venga fermato, chiediamo che finisca l'incubo degli ostaggi rimasti vivi e ci uniamo a tutte le voci di protesta che si levano dalla società civile.
Il Comitato Direttivo di OfficinaMentis
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“Niente mi preparava a ciò che ho visto e vissuto a Gaza”: chi scrive è Jean-Pierre Filiu, storico francese, specialista del Medio Oriente, professore a Sciences-Po, Paris; profondo conoscitore di queste terre e di questi popoli, egli ha lungamente e regolarmente soggiornato a Gaza e Israele a partire dagli anni ’80. La conoscenza della lingua araba e del dialetto palestinese gli ha permesso di raccogliere le testimonianze sul campo, senza intermediari. 

Dal 19 dicembre 2024 al 21 gennaio 2025 ha passato un mese nell’enclave insieme a un’équipe di Medecins sans Frontières. Ha vissuto nella zona umanitaria di Mawassi, sul litorale, non lontano dalla città meridionale di Khan Younès, dove è ammassato un milione di disperati.

Il frutto di questa esperienza è un libro appena uscito in Francia, Un historien à Gaza (Ed. Les Arènes) che riteniamo importante segnalare e di cui riportiamo alcuni passaggi affidandoci all’anteprima che ne ha dato Le Monde il 25 maggio: racconto sconvolgente dell’inferno che questo osservatore d’eccezione ha potuto vedere da vicino e testimonianza tanto più preziosa in quanto, come sappiamo, ai giornalisti stranieri è vietato entrare nella striscia. Gli estratti pubblicati da Le Monde saranno a breve disponibili in traduzione italiana su Internazionale.

**********

Il bus proveniente da Amman, in Giordania, porta a bordo una ventina di operatori umanitari, destinati a raggiungere i blindati dell’ONU. I militari israeliani controllano minuziosamente il passaggio. Rafah, o meglio lo spettro di Rafah, appare nella notte. 

“Niente mi preparava a ciò che ho visto e vissuto a Gaza”: nonostante le informazioni e la documentazione di cui disponeva, nonostante tutti i ricordi, “non potevo immaginare la vastità di questa catastrofe”.

Riscoprire Gaza nella notte della guerra è già di per sé sconvolgente. Ma sono zone devastate che emergono dall'oscurità mentre il convoglio avanza. Un paesaggio dantesco, in cui si intravedono solo bagliori subito inghiottiti dal buio. Una litania di rovine, più o meno ammassate, più o meno crollate, che si susseguono fino ad assumere la consistenza di una sequenza continua di orrore. Qui un traliccio caduto con rami contorti, là una casa sventrata, più avanti un edificio crollato. Il convoglio procede alla massima velocità che la strada dissestata consente. [...] Le radio trasmettono crepitando messaggi rassicuranti da una jeep all’altra. Finora tutto bene, si trasmettono in eco. L’invisibile linea del fronte è stata superata, affermano. Anche la zona d’attacco dei predoni è stata ormai superata, comunicano senza nascondere il sollievo.

È quasi mezzanotte quando sento le strazianti testimonianze della tragedia che si consuma a Beit Lahya, nell'estremo nord dell'enclave, praticamente tagliata fuori dal mondo dall'inizio di ottobre 2024. Il termine “pulizia etnica” non sembra eccessivo per descrivere la metodica espulsione della popolazione, l'altrettanto metodica distruzione degli edifici e il metodico attacco a quegli ultimi luoghi di vita organizzata che sono gli ospedali. Sono appena tornato nella striscia di Gaza e sono già sopraffatto dalla tragedia di questo territorio assediato.

Lungo la strada verso Khan Younès il paesaggio è totalmente sconvolto. Le città non esistono più. Ovunque macerie, quelle che sembrano colline sono cumuli di macerie “spianate” dall’esercito israeliano. Strade devastate, distese fatte di niente, privi di qualunque prospettiva “si annega in questa distruzione.”

Da entrambi i lati, le tende si susseguono per chilometri, alcuni sfollati hanno piantato i loro rifugi di fortuna sulla spiaggia, sfidando le raffiche di vento e le onde. Insegne galleggiano sull'acqua, annunciando un parrucchiere, una caffetteria o un negozio dai nomi tanto allettanti quanto ingannevoli, poiché nascondono solo la mancanza. […] Fin dal primo contatto, i ricordi delle tante prove sopportate affiorano, dominati dal ricordo della casa perduta, là, altrove, nelle zone di combattimento e di occupazione, a nord, al centro, a sud, fino a ritrovarsi ammassati in quello che prima era solo un immenso terreno incolto. 

Il testimone raccoglie la voce dei disperati: raccontano il dolore e l’orrore, raccontano i morti, i dispersi, i cadaveri sepolti sotto le macerie, le fughe nel terrore, gli spostamenti continui seguendo come automi gli ordini di evacuazione, il folle andirivieni di sopravvivenza da un punto all’altro di questa striscia di terra che è diventata un immenso carnaio, “un’umanità abbandonata che va e viene, spesso senza altro scopo se non quello di aspettare per ore quel tanto d’acqua e di cibo che serve per arrivare a domani”.

Dietro i dati raccolti pazientemente dalle organizzazioni umanitarie c'è la realtà delle discariche a cielo aperto dove brulicano bambini scalzi. Ci sono tende di plastica che oscillano al vento e alla pioggia, con una semplice scopa per sostenere il soffitto di fortuna e riparare le continue infiltrazioni. Ci sono buche scavate nella sabbia che fanno da servizi igienici, con una parete di teloni per preservare un'illusione di intimità. Ci sono pozzi domestici scavati all'aria all'angolo della tenda. C'è la puzza delle cloache di fango stagnante cui l'umidità persistente impedisce di asciugare. [Il giorno di Natale] entro a Khan Younès passando tra l'ospedale da campo giordano e un cimitero aperto al vento. […] Ancora una curva e mi si apre davanti agli occhi il panorama di quella che era Khan Younès. E lì mi sento disorientato, alla ricerca di punti di riferimento ormai polverizzati, vacillando tra crateri spalancati e cumuli di macerie. Nonostante abbia frequentato in passato alcuni teatri di guerra, dall'Ucraina all'Afghanistan, passando per la Siria, l'Iraq e la Somalia, non ho mai, mai, vissuto nulla di simile. […] E capisco meglio perché Israele vieti alla stampa internazionale l'accesso a uno scenario così sconvolgente.

Allora preferisco aggrapparmi ai frammenti di vita che galleggiano in un tale naufragio. Bambine con lo zaino sulle spalle spuntano dal fondo di un vicolo, dove continuano a frequentare la scuola grazie al sostegno del Sultanato dell'Oman. Un sopravvissuto, con la tenda piantata in mezzo alle macerie, preserva la decenza del suo rifugio svuotando un secchio di rifiuti sulla soglia della sua “porta”. Una famiglia ha trovato rifugio al piano superiore di un edificio sfigurato, con i panni stesi ad asciugare su un balcone traballante. Le tende gettano macchie di colore verde, blu e rosso in questo ambiente di cenere. […] E se l'ospedale Dar Essalam, la “casa della pace”, si erge ancora in tutta la sua altezza, di esso non rimane che un guscio vuoto e devastato, carbonizzato dall'interno. Ecco la città di Khan Younès in questo giorno di Natale.

“La morte, a Gaza, è dappertutto”. Il ronzio dei droni è onnipresente, sorvolano il luogo incessantemente e possono lanciare missili che uccidono senza preavviso.  Le bombe arrivano dall’aria, dalla terra, dal mare. In ogni momento la morte può colpire; ogni volta, quando arriva l’ordine di evacuazione, la decisione da prendere, se andare a destra, a sinistra oppure non muoversi affatto, è una decisione di vita o di morte per sé e per i propri figli.

In questa realtà apocalittica le donne, doppiamente vittime, non solo sono le più colpite dalle infezioni e dalla degradazione dell’igiene, ma nemmeno sfuggono alle violenze sessuali, sempre più diffuse. 

Nell’ospedale di fortuna la giornata è scandita da code interminabili di bambini: ci sono quelli da vaccinare, quelli feriti o malnutriti da curare, e quelli – sempre più numerosi – che soffrono di disturbi psicologici dovuti al trauma. Le condizioni d’igiene sono disastrose, la carenza di acqua potabile si fa sentire ogni giorno di più. Le latrine sono un problema cruciale: le fosse biologiche sono colme e gli scarichi non esistono. Una parte delle tende della nostra base è circondata da liquami.

Il personale umanitario ha un’unica ossessione: riuscire a portare aiuto, malgrado tutto. Si aspetta, con ansia, una tregua.

I bambini continuano a morire. Muoiono sotto le bombe, muoiono di freddo durante l’inverno, muoiono di malattie e di fame. Se sopravvivono, sono amputati e rotti fisicamente e psichicamente. Diventano allora bambini di strada, creature erranti nella devastazione alla ricerca di cibo, acqua, oggetti utilizzabili in  qualche modo.

Un tempo, ci ricorda lo storico, Gaza fu un’oasi lussureggiante. Dal 1948 egli ha documentato quindici guerre e un controllo sempre più minuzioso e accanito, che ha ridotto via via una terra prospera a un’enclave assediata e affamata. Tuttavia, fino al 2023, Gaza viveva e resisteva. Oggi la sua distruzione ha spazzato via la classe media, gli ambienti intellettuali, universitari e artistici dove circolavano critica e contestazione nei confronti di Hamas. Oggi non c’è più una società civile in grado di opporsi al dominio di Hamas. Restano, in questa società devastata, dei fari di dignità come i sanitari e i giornalisti, regolarmente assassinati dall’armata israeliana.

Quanto ad Hamas, è stato notevolmente indebolito, ma nessun dubbio che la sete di vendetta attirerà molte nuove reclute verso le brigate Qassam. Inoltre l’eliminazione dei suoi dirigenti storici e dei suoi quadri più politici lascia un vuoto che sarà necessariamente occupato da chi fino a ieri faceva “il lavoro sporco”: “la cecità degli invasori finisce per consegnare il territorio a questi islamisti d'assalto, più inclini alle percosse che ai sermoni.”

Lo storico sa per esperienza come le opinioni si adattino progressivamente ai conflitti che si protraggono nel tempo. E tuttavia è inquietante constatare che la guerra di Gaza si è banalizzata ancora più rapidamente di quella in Ucraina. […]

Visto dalla Striscia di Gaza, è proprio sul fronte mediatico che Israele ha ottenuto la sua unica vittoria indiscutibile nel conflitto. Una vittoria tanto più facile in quanto la stampa internazionale non ha lottato molto per esercitare il proprio diritto alla libera informazione a Gaza. […] È così che le vittime di Gaza vengono uccise due volte. La prima volta quando la macchina da guerra israeliana le colpisce direttamente nella carne o le soffoca lentamente nelle tende. La seconda quando l'intensità delle sofferenze e l'entità delle perdite vengono negate dalla propaganda israeliana, quando non vengono accusate collettivamente o individualmente di essere “terroristi”.

I media occidentali che hanno accettato di essere banditi da Gaza continuano tuttavia a professare un improbabile equilibrio tra l'invasore e le popolazioni che reprime e affama sulla loro stessa terra. 

A un simile grado di distruzione quale futuro è ancora possibile sperare? Non si può ipotizzare, scrive J.-P. Filiu, un percorso verso la soluzione a due Stati senza “riaprire Gaza al mondo e senza che il mondo torni a Gaza”, spezzando il suo isolamento e riannodando legami col resto dell’umanità. 

C’è però qualcos’altro, un pericolo più grande a cui rendersi attenti: a Gaza si gioca una partita che va al di là dell’ennesimo conflitto in Medio Oriente, per quanto feroce e spietato, qualcosa di universale, che riguarda l’avvenire stesso dell’umanità.

Gaza è “una specie di laboratorio”, il campo di prova di un mondo che cancella tutte le norme del diritto internazionale nate dagli orrori della Seconda Guerra e che, per quanto imperfette, hanno dato un ordine e istituito limiti da rispettare. Quando questo sistema di limiti viene ignorato o distrutto, allora è l’ordine mondiale ad essere minacciato. Gaza è la prova della disumanizzazione possibile, un laboratorio di mostruosità che si riprodurranno altrove. Per questo Jean-Pierre Filiu ha deciso di terminare il suo libro a Kyiv, perché qui, come a Gaza, si disegna un possibile mondo futuro: “Gaza non è più una distopia, è la realtà di ciò che potrebbe diventare il nostro mondo. Un mondo di avvoltoi, un mondo senza norma”, dove nessun ostacolo saprebbe opporsi al caos e alla sistematica disintegrazione fisica e morale, prodotti dalla volontà umana.

Gaza non è crollata solo sulle donne, gli uomini e i bambini di Gaza. Gaza è crollata sulle norme del diritto internazionale pazientemente costruito per scongiurare il ripetersi delle barbarie della seconda guerra mondiale. […] Gaza è ormai nelle mani di apprendisti stregoni del transazionale, artiglieri dell'intelligenza artificiale e avvoltoi della miseria umana. E ci lascia intravedere l'abiezione di un mondo abbandonato a Trump e Netanyahu, a Putin e Hamas, un mondo la cui fine è accelerata dall'abbandono di Gaza.

Chiudiamo questo editoriale con i versi che il grande poeta palestinese Mahmud Darwish dedicò a Edward Said:

In un mondo senza cielo, la terra si trasforma
in abisso. E la poesia è un dono del conforto
una delle qualità dei venti del nord e del sud.
Non descrivere quello che la cinepresa rivela delle tue ferite
Grida per sentire te stesso, grida per sapere
che vivi, che sei ancora vivo, che la vita
su questa terra è possibile. Inventa una speranza
per le parole. Crea un punto cardinale o un miraggio

che alimenti la speranza

e canta, perché libertà è bellezza.

Angela Peduto


Fonti:

  • Mahmud Darwish, Ka-zahr el-lawz aw ab’ad (Come il fiore di mandorlo e oltre), Beirut, Riad el-Rayyes Books, 2005, trad. it. di Francesca Maria Corrao, in Mahmud Darwish, La mia ferita è lampada ad olio, De Angelis Editore, 2006.
  • Jean-Pierre Filiu, « Je suis à peine de retour que me submerge déjà la tragédie de ce territoire assiégé » : l’historien Jean-Pierre Filiu raconte son séjour à Gaza, Le Monde, 25 mai 2025 

**Sulla storia di Gaza si può visionare un ciclo di conferenze organizzato dall’Università Paris 1 Panthéon-Sorbonne in collaborazione con Islam médiéval dell'UMR (Unité mixte de Recherche) Orient & Méditerranée 

https://sorbonne.tv/gaza-4000-ans-dhistoire

** Una presentazione del libro di Jean-Pierre Filiu si può vedere al link

https://youtu.be/W6TrnLgSLoU

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