Gruppi di supervisione

Alcune note sulla supervisione

Mariangela Pierantozzi

In una conferenza del 1968, consacrata al “settore riservato del transfert”, Conrad Stein avanzò l’idea che per essere psicoanalisti occorre essere non guariti e formati ma capaci di proseguire la propria analisi al di là del tempo delle sedute avute come paziente.

Questa affermazione fu criticata da Jean Paul Valabrega perché, secondo lui, riduceva la questione di come si diventa, o si viene consacrati psicoanalisti, all’indeterminatezza autogiustificante di un’autoanalisi “alla Freud”; ma Freud era giustificato dal fatto che non poteva avere nessun maestro.

Si celava, sotto questo dibattito, il grande problema delle “cure di controllo”, come le chiamano i francesi e che gli inglesi e le lingue assoggettate alla cultura anglofona chiamano “supervisioni”. Si entra qui nel campo dell’etica della psicoanalisi e in chiara questione di potere.

Gli Istituti, le società e le scuole di psicoanalisi hanno da sempre sostenuto che per diventare psicoanalisti, oltre alla propria analisi, fatta oltretutto da uno psicoanalista definito didatta, occorre sottoporre al controllo diversi trattamenti, affinché si possa garantire e insegnare la giusta strada e si possano correggere eventuali errori di procedura.

Conrad Stein invece ha sempre sostenuto che gli psicoanalisti “controllori” non sono pedagoghi e che i “controllati” non sono bambini da correggere; se poi a volte si comportano deplorevolmente come tali, questo è il destino di tutti noi umani e rientra caso mai nelle varie manifestazioni dell’inconscio. Inoltre noi sappiamo quanto valore egli dia al “bambino” avendo scritto un notevole libro sulla psicoanalisi dal titolo “L’enfant imaginaire” (ed. Denoël, 1971).

Non è quindi opportuno trattare i cosiddetti “controllati” come bambini, come avviene nella maggior parte dei controlli in uso da anni nelle scuole e società di psicoanalisi.
La supervisione praticata nei gruppi di OfficinaMentis nasce dalla scuola di Conrad Stein; anche Pier Francesco Galli, nostro mentore italiano, ha sempre sostenuto che uno psicoanalista si definisce tale da solo, senza alcun diploma di alcuna scuola. Sappiamo dunque per esperienza personale e professionale quanto valore si debba dare a questo “bambino sempre vivo con le sue pulsioni che, secondo Freud, l’interpretazione dei sogni permette di ritrovare in noi in quella che definiamo realtà psichica. Se noi vogliamo aiutarli [i pazienti e i controllati] a prendersi cura del bambino che in loro sopravvive, non dobbiamo persistere a schiacciarlo con correzioni pedagogiche.” (Conrad Stein, 1968)

Il disappunto di Valabrega, ma soprattutto di coloro che conducono siffatte supervisioni, nasce dalla presenza ingombrante del “fantasma di un’analisi assoluta”.
L’idea dell’autoanalisi non è quella di una posizione solipsistica, ma si incentra sul ruolo dell’essere che contiene al suo interno presenze fantasmatiche di vari interlocutori: concetto ampiamente esposto nell’ultimo capitolo intitolato “La double rencontre” del libro citato. Conrad Stein sottolinea come la psicoanalisi sia un processo senza inizio né fine, dove il tempo delle sedute fatte sul divano di uno psicanalista, cioè il tempo della cura, è solo il tempo essenziale. Se il controllo è praticato in condizioni ottimali viene ad iscriversi anch’esso nella continuazione che fa parte integrante dell’analisi. È sottinteso che la conoscenza e lo studio dei concetti metapsicologici e almeno delle opere di Freud sia doveroso e necessario; le difficoltà che si possono incontrare nel loro studio potrebbero provenire da resistenze contro la propria autoanalisi.

Valabrega, dal canto suo, definì nel 1969 la cura di controllo come “analisi quarta” (cfr. di Mariangela Pierantozzi https://www.officinamentis.com/gruppi-di-supervisione/la-supervisione-una-pratica-fondamentale-nella-formazione-alla-psicoterapia-psicoanalitica). Egli, insieme a Piera Aulagnier e François Terrier, aveva fondato l’Organisation Psychanalytique de Langue Française o Quatrième Groupe, uscendo dall’École Freudienne de Paris per sottrarsi ai dissidi del gruppo con l’IPA (International Psychoanalytic Association) e al dogmatismo lacaniano.

Conrad Stein formulò invece il suo metodo di controllo, col quale si ripropose di utilizzare il “racconto” di un caso clinico (una storia), materiale intriso di moti inconsci, e la regola fondamentale delle libere associazioni, anche qui (come nella seduta analitica) necessaria per rendere visibile l’invisibile. Lo spazio psichico del gruppo prende in carico ciò che chiamiamo “resto”, ciò che è irriducibile alla conoscenza. Riusciamo in questo modo a privilegiare l’analisi delle zone di sordità o le variazioni tendenziose, scoviamo i transfert inconsci circolanti, i punti più problematici o più discutibili di una tecnica o di uno stile si palesano, i concetti teorici sottesi ma non esplicitati emergono. All’interno di un’alta cooperazione i terapeuti arricchiscono la loro esperienza ascoltando casi diversi, condotti differentemente, ricongiungendo le grandi linee di forza del funzionamento psichico e i principali assi teorici.

Mariangela Pierantozzi, dicembre 2021

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