Il mito di Babbo Natale secondo Lévi-Strauss

A cura di Angela Peduto
L’articolo di Claude Lévi-Strauss fu pubblicato col titolo di Le père Noel supplicié nella rivista Les Temps Modernes (n°77, 1952, p. 1572-1590, Paris, Gallimard).
Il testo in francese si può leggere all’indirizzo
https://classiques.uqam.ca/classiques/levi_strauss_claude/pere_noel_supplicie/pere_noel_supplicie_texte.html
La traduzione italiana è stata pubblicata, col titolo di Babbo Natale giustiziato, da Sellerio editore nel 1995 e nel 2024. Contiene una lunga nota di Antonino Buttitta dal titolo “Ritorno dei morti e rifondazione della vita”.
È il pomeriggio de 23 dicembre 1951: sul sagrato della cattedrale di Digione, alla presenza di una folta schiera di bambini, Babbo Natale viene dapprima impiccato e poi bruciato. L’accusa? È reo di paganizzare una festa religiosa.
Da mesi le autorità cattoliche denunciano la deriva commerciale e pagana che trasforma una celebrazione cristiana in vacuo folklore privo di ogni valore spirituale. Di tutto ciò Babbo Natale è il colpevole ambasciatore. La polemica culmina il giorno prima della vigilia, con la solenne impiccagione e il rogo.
Il 24 dicembre un giornalista di France-Soir racconta questa “spettacolare esecuzione”: È stata decisa col consenso del clero, che ha condannato Babbo Natale come eretico e usurpatore, accusato di paganizzare la festa di Natale e di essersi installato come un cuculo, occupando uno spazio sempre maggiore […] Domenica, alle tre del pomeriggio, lo sventurato buon uomo dalla barba bianca ha pagato, come molti innocenti, per una colpa di cui si erano resi colpevoli coloro che applaudiranno alla sua esecuzione. Il fuoco ne ha incendiato la barba ed egli è svanito nel fumo.
I giustizieri, in un comunicato pubblico reso dopo i fatti, dichiarano: “Si è trattato di un gesto simbolico. Babbo Natale è stato sacrificato in olocausto.”
I giornali francesi si infiammano, la polemica si diffonde, i partigiani dei due fronti difendono le rispettive tesi. Due scrittori vengono chiamati a dibattere sul settimanale Carrefour. Il cattolico Gilbert Cesbron prende la parola: il bambino è “vittima innocente” della menzogna dei genitori. “Nascondere Dio” con “uomini sudati nei loro abiti imbottiti” che recitano la commedia nei grandi magazzini, è inaccettabile: questa bugia merita che si “assassini Babbo Natale”!
Di tutt’altro avviso René Barjavel, l'avvocato di Babbo Natale. Anch’egli invoca l'innocenza infantile:
"[Babbo Natale] è miracolosamente difeso dai bambini più piccoli, quelli che non si stupiscono della televisione ma sanno perfettamente che il vecchio coperchio di una scatola di lucido da scarpe è una grande nave che trasporta mille passeggeri [...] e che sotto il tavolo c'è un palazzo. E sono i bambini che vedono chiaramente. In questo mondo che gli uomini si impegnano ogni giorno a rendere più triste, più ragionevole, più sanguinoso, e dove anche i ricordi sono orribili, rimane una piccola luce, quella delle candele dell'albero di Natale che brillano sulla barba di cotone di Babbo Natale. Illumina tutta la nostra infanzia.”
La faccenda attrae l’attenzione del celebre antropologo Claude Lévi-Strauss, che fa dell’episodio di Digione il punto di partenza per un luminoso testo diventato un classico: Le père Noel supplicié, pubblicato l’anno seguente nella rivista Les temps modernes: da dove sorge Babbo Natale? da dove origina una credenza difesa con tale passione e sfociata a Digione in tanta animosità? perché gli adulti hanno inventato questa figura? perché è così universalmente popolare?

Babbo Natale è vestito di scarlatto: è un re. la sua barba bianca, le sue pellicce e i suoi stivali, la slitta sulla quale viaggia evocano l’inverno. Lo si chiama “Babbo” ed è un vecchio: quindi incarna l’aspetto benevolo dell’autorità degli anziani. Tutto questo è abbastanza chiaro. Ma in quale categoria bisogna collocarlo dal punto di vista della tipologia religiosa? Non è un essere mitico, poiché non c’è un mito che renda conto della sua origine e delle sue funzioni; e non è nemmeno un personaggio di leggenda, poiché non è collegato a nessun racconto semistorico. In realtà, questo essere soprannaturale e immutabile, eternamente fissato nella sua forma e definito in base a una funzione esclusiva e a un ritorno periodico, appartiene piuttosto alla famiglia delle divinità: d’altronde riceve la venerazione da parte dei bambini, in alcuni periodi dell’anno, sotto forma di lettere e di preghiere; egli ricompensa i buoni e priva dei regali i cattivi. È la divinità di una sola fascia di età della nostra società (fascia di età che la credenza in Babbo Natale basta del resto a caratterizzare), e la sola differenza tra Babbo Natale e una vera divinità è che gli adulti non credono in lui, benché incoraggino i propri figli a crederci e alimentino tale credenza mediante un gran numero di mistificazioni.
Babbo Natale esprime così, innanzitutto, l’esistenza di uno statuto differenziale tra iniziati e non-iniziati: da un lato gli adulti, i quali sanno che Babbo Natale non esiste, dall’altro i bambini, che non conoscono la verità. In molti gruppi umani i bambini sono esclusi dalla società degli uomini perché ignorano certi misteri o credono in certe illusioni che gli adulti sveleranno al momento opportuno, permettendo loro di entrare nell’età matura. Queste pratiche, ampiamente studiate dagli etnologi, vanno sotto il nome di riti di passaggio e di iniziazione. Essi hanno, nelle società umane, “una funzione pratica”: permettono di esercitare un potere sui non iniziati, mantenendoli nell’ordine e nell’obbedienza.
Nel corso dell’anno noi invochiamo la visita di Babbo Natale per ricordare ai nostri bambini che la sua generosità sarà proporzionale alla loro bontà; il carattere periodico della distribuzione dei doni serve proficuamente a disciplinare le richieste infantili, a ridurre a un breve periodo il momento in cui hanno veramente diritto a esigere dei regali.
Ma da dove deriva questo diritto dei bambini? perché tale diritto si impone così imperiosamente? perché gli adulti devono inventare una mitologia e un rituale, oltretutto costoso e complicato, per contenerlo e limitarlo? Cominciamo a intuire quanto, dietro la favola giocosa e l’incantesimo della grande notte invernale col suo bonario personaggio carico di doni, si nasconda un nucleo più sotterraneo e complesso.
Si comprende subito che la credenza in Babbo Natale non è solo una mistificazione scherzosamente inflitta dagli adulti ai bambini; è anche, in larga misura, il risultato di una transazione molto gravosa tra le due generazioni.

A partire dalla distinzione tra iniziati e non-iniziati si presenta allo sguardo dell’etnologo un più profondo significato del rito natalizio di offerta dei doni ai bambini. La trama delle connessioni attraversa il tempo e lo spazio per afferrare la parentela che lega Babbo Natale ai katchina. Per gli Indiani Pueblo i katchina incarnano dèi e antenati; travestiti e mascherati, si presentano periodicamente nei villaggi per punire o premiare i bambini, i quali ne ignorano la natura umana.
Il mito d’origine di queste popolazioni vuole che siano le anime dei primi bambini indigeni, drammaticamente annegati in un fiume all’epoca delle migrazioni ancestrali: dunque, “prova della morte e testimonianza della vita dopo la morte”. Dopo che gli antenati degli Indiani attuali si furono stabiliti nei loro villaggi, ogni anno i katchina si recavano a visitarli, ma nell’andarsene portavano con sé i bambini. Si giunse infine a un compromesso: i katchina sarebbero rimasti nell’aldilà e in cambio ogni anno sarebbero stati rappresentati con maschere e danze rituali. Ecco cosa si nasconde in questo rito: i katchina, i morti, sono i bambini.
Il loro posto [dei bambini] è con gli dèi e con i morti: con gli dèi che sono i morti. E i morti sono i bambini.
Crediamo che questa interpretazione possa essere estesa a tutti i riti di iniziazione e anche a tutte le occasioni in cui la società si divide in due gruppi. […] Il rapporto tra iniziati e non-iniziati [è] un rapporto complementare tra due gruppi: uno rappresenta i morti e l’altro i vivi.
[…] Senza approfondire oltre queste considerazioni che ci allontanerebbero dal nostro discorso, sarà sufficiente ricordarsi che i riti e le credenze legati a Babbo Natale, nella misura in cui dipendono da una sociologia iniziatica (e su questo non ci sono dubbi), mettono in evidenza, dietro la contrapposizione tra bambini e adulti, una contrapposizione più profonda tra morti e vivi.
Un’analisi diacronica conduce alla stessa conclusione: gli storici delle religioni e gli studiosi di folklore ammettono che la lontana origine di Babbo Natale sia da cercare nei Saturnali.
Queste feste, che si tenevano in onore del dio Saturno e si prolungavano tra il 17 e il 24 dicembre, segnavano la fase di passaggio tra il vecchio e il nuovo anno, tra il sole che muore e il nuovo che deve rinascere. Si organizzavano banchetti, si decoravano le case, ci si scambiavano doni: candele, piccole immagini e bambole di terracotta (sigillaria). In questo periodo l'autorità e il potere dei padroni sugli schiavi erano temporaneamente sospesi: gli schiavi venivano liberati, si scambiavano gli abiti con i signori ed eleggevano un re, detto Saturnalicius princeps, che governava la festa. Nel periodo arcaico questo re veniva sacrificato alla fine delle feste. Da questa figura, per trasformazioni successive, deriverà l’abbé de Liesse, sovrano della “festa dei folli” medievale che, attraverso ulteriori sincretismi e mescolanze, sarà uno degli antenati di Babbo Natale.

Ora, i Saturnali erano anche la festa delle larvae, cioè dei morti rimasti senza sepoltura. E Saturno era anche il dio che divorava i figli appena nati.
Se a questo punto torniamo alla corrispondenza tra Babbo Natale e i katchina, poiché non c’è nessuna possibile relazione storica tra gli Indiani Pueblo e le nostre istituzioni, dobbiamo concludere che siamo in presenza non di una semplice sopravvivenza storica, ma di qualcosa di più profondo e strutturale: qualcosa che ha a che fare con la relazione tra i vivi e i morti, nel periodo dell’anno in cui risuona l’eco arcaico della festa dei morti, legata al declinare e al rinnovarsi della luce durante il solstizio d’inverno.
Nel Medioevo i bambini non aspettavano in paziente attesa la discesa dal camino dei loro giocattoli. Generalmente travestiti e raggruppati in bande […] vanno di casa in casa, cantando e porgendo gli auguri, ricevendo in cambio frutta e dolci. Fatto significativo, evocano la morte per far valere la loro credenza. […]
È noto che [le questue dei bambini] non sono limitate al Natale e si susseguono per tutto il periodo critico dell’autunno, quando la notte minaccia il giorno come i morti diventano molestatori dei vivi. Le questue di Natale hanno inizio alcune settimane prima della Natività, generalmente tre, stabilendo dunque il nesso con le questue, anch’esse in costume, della festa di San Nicola che resuscitò i bambini morti; e il loro carattere è ancor più evidente nella questua iniziale della stagione, quella di Halloween – diventata vigilia di Ognissanti per decisione ecclesiastica – in cui, ancora oggi nei paesi anglosassoni, i bambini travestiti da fantasmi e da scheletri tormentano gli adulti a meno che questi non riscattino la loro tranquillità mediante piccoli doni. Il progredire dell’autunno, dal suo inizio fino al solstizio, che segna la liberazione della luce e della vita, si accompagna, dunque, sul piano rituale, a un movimento dialettico le cui tappe principali sono: il ritorno dei morti, la loro condotta minacciosa e persecutrice, la determinazione di un modus vivendi con i vivi consistente in uno scambio di servigi e di regali, infine il trionfo della vita quando, a Natale, i morti carichi di doni abbandonano i vivi per lasciarli in pace fino all’autunno successivo. […]
Ma chi può incarnare i morti in una società di vivi se non tutti coloro che, per una ragione o l’altra, sono solo parzialmente incorporati al gruppo, dunque partecipi di quella alterità che è il segno distintivo del supremo dualismo, quello fra i morti e i vivi? Non stupiamoci perciò di vedere gli stranieri, gli schiavi e i bambini come i principali beneficiari della festa.
Oggi sono i bambini che restano protagonisti indiscussi del Natale: e i doni che non hanno più bisogno di reclamare appaiono come un sacrificio offerto dagli adulti per scongiurare la morte e continuare a credere nella vita: in nome della dolcezza di vivere.
Abbiamo innumerevoli testimonianze, soprattutto per il mondo scandinavo e quello slavo, che rivelano il carattere proprio del veglione di essere un pasto offerto ai morti, in cui gli invitati rivestono il ruolo dei morti, come i bambini quello degli angeli e gli angeli, a loro volta, quello dei morti. Non sorprende, dunque, che il Natale e il Capodanno (suo doppione) siano feste basate sui regali: la festa dei morti è essenzialmente la festa degli altri, poiché il fatto di essere altro è la prima immagine ravvicinata che possiamo farci della morte.
La paura della morte si è fatta meno spaventosa: oggi, a differenza che nelle epoche passate, non c’è più bisogno di concederle un tempo di caos e di disordine per regolare i conti con essa; gli spiriti e i fantasmi non assillano più i vivi, non vengono a tormentarli e minacciarli nelle lunghe notti d’inverno. E tuttavia, non si spegne l’eco di queste lontananze e di queste paure.
La credenza che manteniamo nei nostri bambini secondo cui i loro giocattoli provengono dall’aldilà, procura un alibi all’impulso segreto che ci incita, in realtà, a offrirli all’aldilà sotto il pretesto di donarli ai bambini. Per questo motivo, i regali natalizi rimangono un sacrificio autentico alla dolcezza di vivere, la quale consiste innanzitutto nel non morire.
E così, i bambini, grazie a questo rituale che ogni anno si rinnova, ci aiutano a credere nella vita. In fin dei conti, conclude ironicamente Lévi-Strauss, la Chiesa ha ragione: Babbo Natale resta il più solido bastione e “uno dei più attivi focolai del paganesimo nell’uomo moderno”.
Concludiamo con un’ultima considerazione: il cammino che unisce il re dei Saturnali a Babbo Natale è lungo; nel corso della strada, un tratto essenziale del primo – il più arcaico, forse – sembrava essersi definitivamente perduto. Frazer ha infatti dimostrato che il re dei Saturnali è a sua volta l’erede di un prototipo antico che, dopo aver impersonato il re Saturno ed essersi, per un mese, permesso ogni eccesso, veniva solennemente sacrificato sull’altare del dio. Grazie all’autodafé di Digione, ecco dunque ricostruito l’eroe con tutti i suoi caratteri, e in questa singolare questione non è certo uno degli aspetti meno paradossali quello per cui, volendo distruggere Babbo Natale, il clero digionese non ha fatto altro che restituire alla sua interezza, dopo un’eclisse di qualche millennio, una figura rituale, facendosi così carico, con il pretesto di distruggerla, di provarne la perennità.











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