Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (1915) Seconda parte

Sigmund Freud

Introduzione

È il 23 settembre 1939. Max Schur, il medico personale di Freud, si ritira con Marta e Anna in una stanza al primo piano della casa londinese di Maresfield Garden. Esse sanno già quanto sta per comunicare.

Il cancro alla mascella di Freud era stato diagnosticato dallo stesso Schur nel 1923. Da allora innumerevoli e dolorose operazioni avevano accompagnato il corso della vita e dell’opera. Fin dal primo momento aveva chiesto a Schur di addormentarlo con un’iniezione di morfina, una volta che il dolore avesse superato le sue possibilità di sopportazione. Quel momento era venuto.  

Nei giorni precedenti aveva letto La pelle di zigrino, di Balzac, il cui protagonista lotta contro la morte cercando di annientare - inutilmente – i desideri e l’amore. Negli ultimi tempi riapriva le pagine dell’amato Shakespeare.

Ora toccava al suo devoto amico e medico.

“Cominciò a diventare sempre più arduo alimentarlo. La sua sofferenza si fece più grave e le notti divennero penose. Poteva lasciare a malapena il letto e a poco a poco cadeva in condizioni di cachessia. Anna e io ci davamo il turno nel fargli le applicazioni di ortoformio, che ormai non avevano più nessun effetto sedativo. Per me era un tormento non poter alleviare il suo dolore, ma sapevo che dovevo aspettare finché non me l’avesse chiesto. […] Il 21 settembre, mentre sedevo al suo capezzale, Freud mi toccò la mano e mi disse: ‘Caro Schur, Lei si ricorda certo del nostro primo colloquio. Allora mi promise che non sarebbe venuto meno quando fosse stato il momento. Ormai è solo tormento e non ha più senso’.

Gli feci cenno che non avevo dimenticato la mia promessa. Egli mi guardò sollevato, mi trattenne la mano per un istante e disse: ‘La ringrazio’; poi, dopo un momento di esitazione, aggiunse: ‘Lo dica ad Anna’. Tutto questo fu detto senza traccia di commozione o di autocommiserazione e con piena coscienza della realtà.

Come Freud aveva chiesto, informai Anna di quanto mi aveva detto. Allorché ricadde negli spasimi dell’agonia gli iniettai due centigrammi di morfina. Ne fu immediatamente sollevato e cadde in un sonno tranquillo. L’espressione di dolore e di sofferenza era scomparsa. Ripetei l’iniezione dopo circa dodici ore. Freud era chiaramente prossimo alla fine delle sue risorse: cadde in coma e non si risvegliò più. Morì alle tre di notte del 23 settembre 1939 [1]”.

Nel 1913, due anni prima delle Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, Freud pubblica sul secondo numero di Imago un testo breve e affascinante, Il motivo della scelta dei tre scrigni [2]. Due opere di Shakespeare, Il mercante di Venezia e Re Lear, hanno attratto la sua attenzione, due tasselli di un enigma che si propone di risolvere. Nel Mercante di Venezia la giovane Porzia deve prendere marito: non potendo lei stessa sceglierlo a causa dell’interdetto paterno, sarà il pretendente che fra tre scrigni - d’oro, d’argento, di piombo - sceglierà quello giusto ad averla in sposa. Interpretando il materiale come farebbe con un sogno, Freud legge dietro la scelta degli scrigni la scelta fra tre donne.  

Lo stesso tema compare nel Re Lear: il vecchio re decide, prima di morire, di dividere il regno fra le tre figlie in ragione dell’amore che esse gli manifestano; mentre le prime due si effondono in lusinghe e adulazioni, la terza, Cordelia, tace. Il padre offeso la respinge e divide il regno fra le altre due. Ecco di nuovo l’enigma: chi sono le tre donne tra cui si deve scegliere? E perché la scelta cade sulla terza?

Certi tratti caratterizzano la terza fanciulla: la ritrosia, il silenzio, il pallore.  “Se ci decidiamo a riconoscere che le peculiarità della terza si concentrano nel suo ‘mutismo’, la psicoanalisi ci può dare una spiegazione: il mutismo nel sogno è un modo consueto di raffigurare la morte”.

Ebbene, prosegue Freud, se la terza sorella è “una morta”, “essa può anche essere qualcos’altro e cioè la Morte in persona, la Dea della Morte […] Ma se la terza è la Dea della Morte, possiamo dire di conoscere le tre sorelle. Esse sono i simboli del Destino, le Moire o Parche o Norne, la terza delle quali ha nome Atropo: l’Inesorabile”.

Ecco l’enigma farsi intellegibile: dietro la scelta c’è l’appuntamento con la morte. Con un’operazione di rovesciamento, l’uomo diventa, nelle narrazioni mitiche, leggendarie o letterarie, colui che sceglie la propria morte anziché subirla: la libertà della scelta sostituisce l’ineluttabilità del destino. Il vecchio Re Lear, ancora sedotto dal desiderio dell’amore, sa tuttavia che è la morte a venirgli incontro.

Si pensi ora alla straziante scena finale, ove il senso tragico raggiunge uno dei culmini della letteratura drammatica moderna: la scena di Lear che porta sul palcoscenico il corpo esanime di Cordelia. Cordelia è la Morte. Se si capovolge la situazione, la cosa ci appare comprensibile e familiare. È la Dea della Morte la quale porta via dal campo di battaglia l’eroe caduto, come la Valchiria nella mitologia germanica. La saggezza eterna, rivestita dei panni di un mito antichissimo, consiglia al vecchio di dire no all’amore, di scegliere la morte, di familiarizzarsi con la necessità del morire.

Al lavoro del sogno, al lavoro del lutto, occorrerebbe aggiungere il lavoro della morte?  Come accettare la più insopportabile delle separazioni, quella da noi stessi?

Per alcuni destini la creazione – quale che sia la sua forma - aiuta a morire. E anche a lottare contro la morte: è la questione che Freud non ha mai smesso di porre a sé stesso, dalla Traumdeutung, scritta dopo la morte del padre, fino al grandioso affresco del Mosé, terminato un anno prima di morire, nel lungo percorso di una vita che si disegna sul cupo sfondo delle catastrofi del Novecento.

Angela Peduto

Sigmund Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (1915)

Arnold Böcklin, Autoritratto con la morte che suona il violino, 1872

2. Il nostro modo di considerare la morte

Il secondo fattore per cui secondo me oggi ci sentiamo così stranieri in questo mondo che un tempo è stato così bello e rassicurante, è il turbamento determinatosi nel nostro modo, fino ad ora ben fermo, di considerare la morte.

Questo atteggiamento non era sincero. A sentir noi, eravamo naturalmente pronti a sostenere che la morte costituisce l'esito necessario di ogni forma di vita, che ognuno di noi ha verso la natura questo debito [1] e deve essere preparato a saldarlo, e che dunque la morte è un fatto naturale, incontestabile, inevitabile. In realtà però eravamo abituati a comportarci in tutt'altro modo. C'era in noi l'inequivocabile tendenza a scartare la morte, a eliminarla dalla vita. Abbiamo cercato di mettere a tacere il pensiero della morte e c'è in tedesco, a tal proposito, persino un modo di dire: "pensare a una cosa come alla morte"; alla propria naturalmente [2]. In verità è impossibile per noi raffigurarci la nostra stessa morte, e ogni volta che cerchiamo di farlo possiamo costatare che in effetti continuiamo ad essere ancora presenti come spettatori. Perciò la scuola psicoanalitica ha potuto anche affermare che non c'è nessuno che in fondo creda alla propria morte, o, detto in altre parole, che nel suo inconscio ognuno di noi è con-vinto della propria immortalità.

Per quanto riguarda la morte altrui, l'uomo civile evita accurata-mente di parlare di una tale eventualità quando l'individuo in questione è presente. Solo i bambini non si curano di tale restrizione, si lanciano senza riguardo minacce implicanti la morte, e non si peritano di dire in faccia anche a una persona amata frasi come questa: "Mamma cara, quando tu purtroppo sarai morta, io farò questo o quello." L'adulto civilizzato preferisce invece — a meno che non vi sia costretto per motivi professionali, come il medico, l'avvocato ecc. — non pensare neppure alla morte di un'altra persona: gli parrebbe altrimenti d'essere insensibile e malvagio; e soprattutto non si permetterà di farlo se la morte dell'altro può procurargli un vantaggio, in libertà, patrimonio o posizione. Naturalmente queste nostre delicatezze d'animo non possono impedire la morte; e quando essa si verifica siamo ogni volta profondamente turbati e come scossi nelle nostre aspettative. Insistiamo in genere sulla causa accidentale della morte: incidente, malattia, infezione, età avanzata, rivelando cosi la nostra aspirazione a ridurre la morte da fatto necessario a fatto casuale. L'accavallarsi dei casi di morte suscita in noi uno straordinario sgomento. Di fronte a un morto assumiamo un atteggiamento del tutto particolare, manifestandogli quasi una sorta di ammirazione, come se avesse compiuto qualche cosa di assai difficile. Ci asteniamo dal criticarlo, gli perdoniamo i suoi eventuali torti, sentenziamo: de mortuis nil nisi bene, e troviamo giusto che nell'ora-zione funebre e nell'epitaffio non si celebrino che le sue lodi. Il rispetto per i morti, di cui pure i morti non hanno più alcun bisogno, è per noi più importante del rispetto per la verità, e, per la maggior parte di noi, anche del rispetto per i vivi.

A questo atteggiamento civilmente convenzionale verso la morte fa riscontro il crollo completo da cui siamo colti quando la morte colpisce una delle persone che ci sono più prossime: genitore, coniuge, fratello, figlio, o intimo amico. Seppelliamo con lui le nostre speranze, le nostre ambizioni, le nostre gioie; nulla ci può consolare e ci rifiutiamo di sostituire nel nostro affetto la persona perduta. Ci comportiamo allora come uno di quegli Asra che seguono nella morte le persone che amano [3].

Questo nostro modo di considerare la morte ha comunque un grande effetto su tutta la nostra vita. La vita s'impoverisce, perde interesse se non è lecito rischiare quella che, nel giuoco dell'esistenza, è la massima posta, e cioè la vita stessa. Quest'ultima diventa vuota, insipida come un flirt americano, in cui si stabilisce fin da principio che nulla può accadere, a differenza di una relazione amorosa del vecchio continente, nella quale i due partner sono continuamente consapevoli delle serie conseguenze a cui vanno incontro. I nostri legami emotivi, la insopportabile intensità del dolore quando un lutto ci colpisce, ci distolgono dall'esporci a pericoli per noi stessi e per i nostri cari. Siamo restii ad avventurarci in una serie di imprese rischiose, anche se necessarie, come tentativi aviatori, esplorazioni di terre lontane, esperienze con sostanze esplosive. Ci trattiene il pensiero di chi possa, nel caso di una disgrazia, sostituire il figlio per la madre, il marito per la moglie, il padre per i figli. La tendenza a escludere la morte dal libro mastro della vita ci ha cosi imposto molte altre rinunce ed esclusioni. Pure, il motto anseatico diceva: Navigare necesse est, vivere non necesse! Navigare è necessario, vivere non lo è.

Accade allora inevitabilmente che cerchiamo un sostituto a ciò a cui nella vita dobbiamo rinunciare, che lo cerchiamo nel mondo della finzione, nella letteratura, nel teatro. Là troviamo ancora uomini che sanno morire; si, uomini anche capaci di uccidere. Là soltanto si verifica la condizione che sola potrebbe riconciliarci con la morte: e cioè la conservazione, attraverso tutte le traversie dell'esistenza, di una vita, la nostra, come tale intangibile. È troppo triste che nella vita le cose possano svolgersi come in una partita a scacchi, dove una mossa falsa può costringerci ad abbandonare il giuoco: con l'aggravante che qui non possiamo contare su una seconda partita, sulla rivincita. Nel campo della finzione troviamo invece quella pluralità di vite di cui abbiamo bisogno. Moriamo nella nostra identificazione con un eroe, ma insieme anche gli sopravviviamo e siamo pronti a morire una seconda volta, in modo altrettanto innocuo, con un altro eroe. È chiaro che la guerra è destinata a spazzar via questo modo convenzionale di considerare la morte. La morte non può più oggi esser rinnegata; siamo costretti a crederci. Gli uomini muoiono veramente; e non più uno alla volta, ma in gran numero, spesso a decine di migliaia in un giorno solo. Non è più qualche cosa di casuale ormai. Si: può ancora sembrare un caso che una pallottola colpisca uno o un altro; ma quest'altro può a sua volta essere colpito da un'altra pallottola, e la frequenza pone termine all'impressione di casualità. Naturalmente la vita è ridiventata interessante e ha ritrovato tutto il suo contenuto.

Conviene qui distinguere due gruppi: quelli che rischiano essi stessi la vita in battaglia, e coloro che sono rimasti a casa, ad attendere di ricevere la notizia che uno dei loro cari è morto, per una ferita, una malattia o un'infezione. Certo sarebbe molto interessante studiare le modificazioni psicologiche dei combattenti, ma io so troppo poco in proposito. Dobbiamo limitarci al secondo gruppo a cui noi stessi apparteniamo. Ho già detto che lo smarrimento e la paralisi di cui soffrono le nostre facoltà, dipendono in gran parte dal fatto che non possiamo più attenerci al nostro vecchio modo di considerare la morte, pur non avendone ancora trovato uno nuovo. Forse può essere utile per ciò estendere la nostra indagine psicologica a due diverse maniere di trattare la morte: quella che si può attribuire all'uomo delle origini, all'uomo preistorico, e l'altra, che è ancor viva in ciascuno di noi, ma che non appare alla nostra coscienza, giacché si trova nascosta nei recessi più profondi della nostra vita psichica. Per quanto riguarda l'uomo vissuto in epoca primordiale, possiamo naturalmente conoscere il suo atteggiamento verso la morte solo per via di induzioni e ricostruzioni; penso però che i risultati ottenuti con questi mezzi siano abbastanza attendibili.

L'uomo delle origini aveva un atteggiamento molto strano verso la morte: per nulla coerente, anzi decisamente contraddittorio. Da un lato egli prendeva la morte sul serio, la considerava la fine della vita e in questo senso se ne serviva; dall'altro però disconosceva la morte annullandone il significato. La contraddizione era possibile per il fatto ch'egli assumeva una posizione radicalmente diversa per la morte altrui, dell'estraneo, del nemico, dall'atteggiamento che aveva nei confronti della propria stessa morte. La morte altrui gli stava bene, costituiva la distruzione dell'individuo odiato, e l'uomo primitivo non aveva alcuno scrupolo a provocarla. Era certo un essere molto passionale, più crudele e malvagio degli altri animali. Ammazzava volentieri, come se fosse una cosa ovvia. Non abbiamo alcun motivo per attribuirgli l'istinto che si dice trattenga gli altri animali dall'uccidere e dal divorare individui appartenenti alla loro stessa specie.

La storia primordiale dell'umanità è infatti piena di assassinii. Ancor oggi quella che i nostri figli imparano a scuola come storia universale non è in realtà altro che una lunga serie di uccisioni fra i popoli. L'oscuro senso di colpa che domina l'umanità fin dai più antichi tempi, e che in varie religioni si è condensato nell'idea di una colpa primordiale, di un peccato originale, è probabilmente la manifestazione di un delitto di sangue, di cui l'umanità primitiva si rese colpevole. Nel mio libro Totem e tabù (1912-13) ho cercato, seguendo indicazioni di W. Robertson Smith, di Atkinson e di Charles Darwin, di stabilire la natura di questa antica colpa, e penso che ancor oggi la dottrina cristiana può aiutarci a risalire ad essa. Se il Figlio di Dio ha dovuto offrire in sacrificio la propria vita per liberare l'umanità dal peccato originale, questo peccato, secondo la legge del taglione, e cioè dell'espiazione mediante una pena eguale alla colpa, deve essere stato un'uccisione, un crimine di morte. E se il peccato originale fu una colpa contro Dio padre, il più antico delitto dell'umanità deve esser stato un parricidio, l'uccisione di quel padre primordiale della primitiva orda umana la cui immagine mnestica è stata successivamente trasfigurata in Divinità [4].

Quanto alla propria morte, essa era certo per l'uomo primitivo altrettanto irrappresentabile e inverosimile di quanto lo è oggi per ognuno di noi. Ma vi era un caso, per lui, in cui le due opposte concezioni della morte venivano fra loro in contatto e in conflitto, e questo caso divenne sommamente importante e denso di conseguenze per l'avvenire. Ciò accadeva se l'uomo delle origini vedeva morire uno dei suoi congiunti, la sua donna, suo figlio, il suo amico, che egli certo amava in modo simile a noi, dato che l'amore non può esser molto meno antico della brama di uccidere. Allora nel suo dolore egli doveva apprendere che anche lui stesso poteva morire, e tutto il suo essere si rivoltava contro questa possibilità; infatti ognuno di questi esseri amati era pure una parte del suo stesso diletto Io. D'altra parte questa stessa morte gli stava bene, giacché ciascuna di queste persone amate gli era pure per un certo verso estranea. La legge dell'ambivalenza emotiva, che domina ancor oggi i nostri sentimenti verso le persone che amiamo di più, valeva certamente in forma anche più illimitata nei tempi primordiali. E quindi questi cari morti erano stati anche degli estranei e dei nemici, che avevano suscitato nell'uomo primitivo una certa dose di sentimenti ostili [5].

I filosofi hanno affermato che l'enigma intellettuale suscitato nell'uomo primigenio dall'immagine della morte lo costrinse a riflettere e fu il punto di partenza di ogni successiva speculazione. Mi pare che in ciò i filosofi pensino troppo ... da filosofi, e non prendano in sufficiente considerazione i motivi che agiscono in via primaria. Credo perciò di dover limitare e correggere questa affermazione: di fronte al cadavere del nemico ucciso, l'uomo primigenio provava semplicemente un senso di trionfo e non era affatto indotto a rompersi la testa col mistero della vita e della morte. Non un enigma intellettuale e una morte qualsiasi, bensì il conflitto emotivo di fronte alla morte di una persona amata e ciononostante anche estranea e odiata ha dato corso all'umana ricerca. Da questo conflitto emotivo è nata la psicologia. L'uomo non poteva più tener lontana la morte, che gli aveva recato il dolore per la scomparsa di una persona cara; ma nello stesso tempo non voleva ammetterne la realtà, poiché gli era impossibile rappresentarsi la propria morte. Così si acconciò a un compromesso: ammise anche per sé la possibilità della morte, togliendole però quel significato di annullamento della vita che prima gli appariva naturale nel caso della morte di un nemico. Di fronte al cadavere della persona amata immaginò gli spiriti; e in quanto si sentiva colpevole per il senso di soddisfazione che si mescolava al cordoglio, questi spiriti divennero tosto demoni di cui si doveva aver paura. I mutamenti prodotti dalla morte Io indussero a distinguere nell'individuo un corpo e un'anima (inizialmente più anime); in tal modo il corso del suo pensiero si svolse parallelamente al processo di decomposizione provocato dalla morte. Sulla base del persistente ricordo dei defunti egli venne così immaginando altre forme di esistenza, concepì l'idea di una vita ulteriore dopo la morte apparente.

Queste esistenze ulteriori erano all'inizio soltanto appendici di quella che la morte aveva troncato: esistenze umbratili, prive di contenuto e a cui fino a un'epoca assai tardiva venne attribuito un valore insignificante; esse conservavano dunque il carattere di miseri espedienti. Ricordiamo quel che risponde l'anima di Achille a Ulisse nell'Odissea:

"...Prima da vivo t'onoravamo come gli dèi

Noi Argivi, e adesso tu signoreggi tra i morti,

Quaggiù; perciò d'esser morto non t'affliggere, Achille."

Io dicevo cosi: e subito rispondendomi disse:

"Non lodarmi la morte, splendido Odisseo.

Vorrei esser bifolco, servire un padrone,

Un diseredato, che non avesse ricchezza,

Piuttosto che dominare su tutte l'ombre consunte [6]”.

O nella potente e amara parodia di Heine:

kleinste lebendige Philister

Zu Stuckert am Neckar

VieI gliicklicher ist er

AIs ich, der Pelide, der tote Held,

Der Schattenfiírst in der Untenvelt.

[Il filisteo più misero, vivente

A Stuckert sul Neckar, più felice

È assai di me, il Pelide, il morto eroe,

Nel sotterraneo mondo prence d'ombre] [7]

Solo più tardi le religioni giunsero a proclamare questa esistenza ulteriore la più preziosa e valida e a ridurre la vita che si conclude con la morte a una mera preparazione. Divenne allora logico prolungare la vita anche nel passato, immaginando le esistenze anteriori, la trasmigrazione delle anime e le reincarnazioni: tutto allo scopo di togliere alla morte il suo significato di annullamento della vita. Cosi ha avuto presto origine quel disconoscimento della morte che abbiamo indicato più su come una delle convenzioni della vita civile. Di fronte al cadavere della persona amata non sono nate soltanto la dottrina dell'anima, la credenza nell'immortalità e la radice prima del senso di colpa negli uomini, ma anche i primi comandamenti morali. Il primo e più importante divieto della coscienza morale che cominciava a destarsi fu: "Non ammazzare." Esso si costituì quale reazione al soddisfacimento dell'odio, occultato dal lutto, provato dinanzi al morto amato, e fu esteso progressivamente agli estranei non amati, e infine allo stesso nemico. A quest'ultimo traguardo gli uomini civili sono divenuti insensibili. Quando la lotta selvaggia di questa guerra sarà stata decisa, il combattente vittorioso tornerà felice alla sua casa, alla sua donna e ai suoi figli, in nulla trattenuto e turbato dal pensiero dei nemici da lui uccisi in corpo a corpo o con le armi a lunga gittata. È notevole che i popoli primitivi tuttora viventi sulla terra, e che certo son più di noi vicini all'uomo delle origini, si comportano diversamente sotto questo aspetto, o si son comportati diversamente fino a quando non hanno subito l'influenza della nostra civiltà. Il selvaggio — sia esso un Australiano, un Boscimano, o un Fuegino — non è affatto un omicida impenitente; quando rientra vittorioso da una spedizione di guerra, non può penetrare nel suo villaggio o toccare la sua donna prima di aver espiato con penitenze, spesso lunghe e fastidiose, le uccisioni compiute in guerra. Naturalmente ciò si può spiegare facendo ricorso alla sua superstizione: il selvaggio teme la vendetta degli spiriti di coloro che ha ucciso. Ma gli spiriti dei nemici abbattuti altro non sono che l'espressione della sua cattiva coscienza per il sangue versato; al fondo di questa superstizione sta una finezza d'animo di natura morale che in noi uomini civili è andata perduta [8]. Non mancheranno di certo anime pie le quali, preferendo considerare estraneo alla natura dell'uomo tutto ciò che è malvagio e volgare, vorranno trarre dall'antichità e imperiosità di questo divieto dell'omicidio conclusioni ottimistiche sulla forza degli impulsi etici che sarebbero in noi profondamente radicati. Ma purtroppo questo argomento prova piuttosto il contrario. Una proibizione cosi imperiosa può soltanto esser rivolta contro un impulso altrettanto forte. Ciò a cui nessun essere umano aspira, non c'è bisogno di interdirlo [9], poiché si esclude da sé. Proprio la imperiosità del comando "non uccidere" ci dà la certezza di discendere da una serie lunghissima di generazioni di assassini i quali avevano nel sangue, come forse ancora abbiamo noi stessi, la voglia di uccidere. Le aspirazioni etiche dell'umanità, la cui forza e importanza sono fuori discussione, furono acquisite nel corso della storia umana; in una misura ahimè molto variabile, sono poi divenute il patrimonio ereditario dell'umanità odierna.

Abbandoniamo ora l'uomo delle origini e volgiamoci all'inconscio della nostra propria vita psichica. Dobbiamo qui appoggiarci al metodo d'indagine della psicoanalisi, l'unico che arriva fino a tali profondità. Ci domandiamo: come si comporta il nostro inconscio in relazione al problema della morte? La risposta sarà: quasi esattamente come l'uomo delle origini. Sotto un tale riguardo, come sotto molti altri, l'uomo preistorico continua a vivere inalterato nel nostro inconscio. Il nostro inconscio non crede dunque alla propria morte, si comporta come se fosse immortale. Ciò che chiamiamo "inconscio" — gli strati più profondi della nostra psiche, fatti di moti pulsionali — non conosce alcunché di negativo, non conosce la negazione (gli opposti infatti in esso coincidono), e quindi neppure la propria morte, alla quale si può dare soltanto un contenuto negativo. La credenza nella morte non trova in noi alcuna rispondenza pulsionale. Forse questo è pure il segreto dell'eroismo. La interpretazione razionale dell'eroismo sostiene che vi sono determinati beni astratti e universali più preziosi della vita individuale. Ma io penso che più frequente sia l'eroismo spontaneo e istintivo, che prescinde da tale motivazione e sfida i pericoli sorretto semplicemente dall'assicurazione di Hans, lo scalpellino di Anzengruber: "Nulla ti può accadere [10]"; oppure che la motivazione razionale serva soltanto a eliminare le esitazioni che potrebbero trattenere la reazione eroica, corrispondente all'inconscio. L'angoscia di morte, da cui siamo dominati più spesso di quanto non crediamo, è invece qualche cosa di secondario e proviene perlopiù dal senso di colpa [11]. D'altra parte noi accettiamo la morte per gli estranei e i nemici e la decretiamo nei loro confronti con la stessa prontezza e mancanza di scrupoli dell'uomo primitivo. Per la verità vi è qui una differenza che dobbiamo considerare decisiva. Il nostro inconscio non attua l'uccisione, si accontenta di pensarla e di augurarla. Sarebbe tuttavia erroneo sottovalutare del tutto questa realtà psichica nei confronti della realtà fattuale. Essa è piuttosto significativa e gravida di conseguenze. Nei nostri moti inconsci noi sopprimiamo ogni giorno e ogni ora tutti coloro che ci sbarrano la via e chiunque ci abbia offeso o danneggiato. "Che il diavolo se lo porti!" ci vien fatto di dire frequentemente, volgendo in ischerzo il nostro intimo malanimo; ma ciò in realtà significa semplicemente: "Che la morte lo colga"; e si tratta, nel nostro inconscio, di un serio e intenso desiderio di morte. Già: il nostro inconscio uccide anche per piccolezze; come l'antica legislazione ateniese di Dracone, non conosce per i delitti altra pena che la morte, e questo con una certa sua consequenzialità logica, dato che ogni torto recato al nostro onnipotente e autocratico Io è in fin dei conti un crimen laesae maiestatis. Così anche noi, considerati in base ai nostri inconsci moti di desiderio, altro non siamo, come gli uomini primordiali, che una masnada di assassini. È una bella fortuna che tutti questi desideri non posseggano l'efficacia che gli uomini preistorici attribuivano loro [12], giacché altrimenti sotto il fuoco incrociato delle maledizioni reciproche l'intera umanità, compresi gli uomini più buoni e saggi e le donne più dolci e belle, sarebbe già da gran tempo andata distrutta. Perlopiù questo genere di affermazioni della psicoanalisi non trovano credito presso i profani. Vengono respinte come calunnie che non trovano riscontro nei dati sicuri della coscienza, e abilmente vengono trascurati i piccoli indizi mediante i quali l'inconscio suole farsi sentire anche nella coscienza. Non è perciò fuor di luogo ricordar qui come molti pensatori, che pure non hanno certo subito l'influenza della psicoanalisi, abbiano lamentato in modo abbastanza esplicito la prontezza con cui nell'intimità del nostro pensiero, scordando il divieto di uccidere, tendiamo a sopprimere tutti coloro che ci sbarrano il passo. Mi limiterò a citare al riguardo un unico esempio, divenuto assai celebre. Nel Père Goriot, Balzac allude a un passo di un'opera di Rousseau in cui questi chiede al lettore quel ch'egli farebbe, qualora potesse — senza lasciar Parigi e naturalmente senza venir scoperto — uccidere con un semplice atto di volontà un vecchio mandarino di Pechino, la cui dipartita dovesse procurargli un grande vantaggio. Rousseau lascia capire di non dare due soldi per la vita di questo dignitario. Dopo di allora "fuer son mandarin" [uccidere il proprio mandarino] è divenuta un'espressione proverbiale per indicare questa segreta prontezza a uccidere che si ritrova anche negli uomini dei nostri giorni [13]. Un gran numero di ciniche storielle e aneddoti parlano del resto nello stesso senso; come ad esempio questa dichiarazione attribuita a un marito: "Se uno di noi due muore, io mi trasferisco a Parigi". Queste barzellette ciniche non sarebbero possibili se non servissero a esprimere una verità, che ci sforziamo di non riconoscere e che non ci permetteremmo di ammettere qualora venisse affermata in modo serio ed esplicito. Si sa che scherzando si dice anche la verità! Come per l'uomo primitivo, cosi anche per il nostro inconscio vi è un caso in cui i due opposti atteggiamenti verso la morte — quello per cui la morte viene riconosciuta come annullamento della vita e quello che la rinnega come irreale — si scontrano e vengono a contrasto. Ed è, questo caso, come nei tempi primordiali, quello della morte, o del pericolo di morte, di un nostro caro, genitore o coniuge, fratello o figlio o amico diletto. Questi cari sono da un lato un nostro intimo possesso, un elemento del nostro proprio Io; ma d'altro lato sono anche degli estranei, o addirittura dei nemici. A eccezione di pochissime situazioni, i nostri atteggiamenti amorosi anche più teneri e intimi contengono una qualche sia pur lieve componente ostile, capace di provocare l'inconscio desiderio di morte. Tuttavia il conflitto contenuto in questa ambivalenza non dà più origine, come una volta, alla dottrina dell'anima o all'etica, bensì alla nevrosi, che ci consente di guardare in profondità anche nella vita psichica normale. I medici che praticano la psicoanalisi s'imbattono assai frequentemente nel sintomo di un eccesso di tenera preoccupazione per l'incolumità dei congiunti, o in autorimproveri del tutto ingiustificati per la morte di una persona amata. Lo studio di questi fenomeni non lascia adito ad alcun dubbio circa l'estensione e l'importanza degli inconsci desideri di morte. Il profano prova un orrore indicibile di fronte alla possibilità di tali sentimenti, e vede in questa stessa sua ripugnanza una buona ragione per non dar credito alle affermazioni della psicoanalisi. Penso però che abbia torto. Nessuno vuol deprezzare la nostra vita amorosa, né questo è il significato delle nostre conclusioni. Il nostro intelletto e la nostra sensibilità certo si ribellano contro un tale modo di colle-gare l'odio e l'amore; ma la natura servendosi di questa coppia antitetica riesce a mantenere vivo e rigoglioso l'amore, dovendo meglio garantirlo contro l'odio che dietro ad esso se ne sta in agguato. Si può dire che gli slanci più belli della nostra vita amorosa sono dovuti alla reazione contro l'impulso ostile che avvertiamo nel nostro intimo.

Riassumiamo dunque: il nostro inconscio possiede la stessa incapacità di rappresentarsi la propria morte dell'uomo dei tempi primitivi, prova lo stesso piacere per la morte di un estraneo, ed è egualmente duplice (ambivalente) nei confronti della persona amata. Ma quanto ci siamo allontanati da questo stato primordiale nel nostro modo convenzionale, di uomini civili, di considerare la morte!

È facile vedere come la guerra abbia agito sopra una tale duplicità. Essa elimina le successive sedimentazioni depositate in noi dalla civiltà e lascia riapparire l'uomo primitivo. Ci costringe nuovamente ad essere eroi, incapaci di credere alla nostra morte; ci addita gli stranieri come nemici, a cui siamo costretti a recare o ad augurare la morte; e ci invita a sopportare con serenità la morte di persone care. Ma essa, la guerra, non si lascia sopprimere; fintanto che le condizioni di vita dei popoli saranno tanto diverse, e l'astio fra essi tanto profondo, dovranno pur esservi guerre. Il problema che allora si impone è questo: non faremmo meglio a cedere, ad adattarci alla guerra? a riconoscere che col modo nostro, di uomini civili, di trattare la morte abbiamo vissuto al di là delle nostre possibilità psicologiche e che perciò ci conviene abbandonarlo e piegarci alla verità? Non sarebbe preferibile restituire alla morte, nella realtà e nel nostro pensiero, il posto che le compete, dando un rilievo un po' maggiore a quel nostro atteggiamento inconscio di fronte alla morte che ci siamo fino ad ora sforzati di reprimere con cura? Non vi è qui nulla di più elevato, anzi per certi aspetti questo ha l'aria di un passo indietro, di una regressione; ci offre tuttavia il vantaggio di consentire una maggiore sincerità e di rendere nuovamente la vita più sopportabile. Sopportare la vita: questo è pur sempre il primo dovere d'ogni vivente. L'illusione perde ogni valore se c'intralcia in questo compito. Ricordiamo il vecchio adagio: Si vis pacem, para bellum. Se vuoi conservare la pace, preparati alla guerra. Sarebbe tempo di modificarlo così: Si vis vitam, para mortem. Se vuoi poter sopportare la vita, disponiti ad accettare la morte.

Note all’Introduzione

  1. Max Schur, Freud in vita e in morte, Boringhieri, 2006
  1. S. Freud, Märchenstoffe in Träumen, (1913), trad. it. di Renata Colorni, Il motivo della scelta degli scrigni, in Opere, vol. 7, Boringhieri.

Note alle Considerazioni attuali (seconda parte)

  1. Evidente reminiscenza da Shakespeare, Enrico quarto, pt. I, atto 5, scena I: "Thou ovest God a death." Freud usa le stesse parole attribuendole appunto a Shakespeare nella lettera a Fliess del 6 febbraio 1899. La citazione ricompare altresì nell'Interpretazione dei sogni (1899).
  2. C'è, in italiano, un modo di dire analogo. Quando rifiutiamo qualcosa che ci è sommamente sgradevole diciamo: "al solo pensiero mi sento morire".
  3. “L’Asra” è una poesia del Romanzero di Heine (libro I), basata su un frammento           tratto dallo stendhaliano Dell’amore; in essa un membro della tribù araba degli Asra dice: “… La mia stirpe sono gli asra, e moriamo quando amiamo”.
  4. Vedi l’ultimo capitolo di Totem e tabù (1912-13).
  5. Ibid.
  6. Odissea, Ib., 11, vv. 484-91 [trad. Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino, 1968]
  7. Sono i versi finali di una delle ultime poesie di Heine, Der Scheidende
  8. Vedi Totem e tabù (1912-13)
  9. Vedi la lucida argomentazione che Frazer adduce in proposito e che ho riportato in Totem e tabù.
  10. Frase detta dall’eroe a sé medesimo. Citazione dai Kreuzelschreiber (1872) di Ludwig Anzengruber (Vienna, 1839-89), drammaturgo e novelliere. Vedi la stessa citazione nello scritto freudiano Il poeta e la fantasia (1907)
  11. Per una discussione più approfondita del senso di colpa, vedi gli ultimi capoversi dello scritto freudiano L’Io e l’Es (1922) e la fine del cap. 7 di Inibizione, sintomo e angoscia (1925).
  12. Vedi, per l’”onnipotenza dei pensieri”, Totem e tabù (1912-13)
  13. Non sembra probabile che questo ragionamento a proposito del mandarino si trovi in Rousseau, nonostante gli sia stato sovente attribuito sulle tracce di Balzac, il quale ne parla nella seconda parte del suo famoso romanzo. Esso ricorre in Chateaubriand, Il genio del Cristianesimo, I, VI, 2.

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