La guerra non ha volto di donna

Paolo Rumiz
10 giugno 2022

L’articolo è apparso su Robinson, la Repubblica il 26 marzo 2022

La prima vittima della guerra è la verità.
La seconda sono le donne.
Questo viaggio è dedicato a loro.

Da un giorno all’altro Nataša se n’è andata. Dall’Italia si è fatta portare alla frontiera ucraina ed è tornata a Ternopil'. Non c’è stato modo di farla desistere. Una volta in patria, ha risalito in autobus la corrente dei profughi in fuga, poi da casa ha telefonato agli amici per dire che era primavera e bisognava piantar patate. Per questo era partita così di fretta. La guerra sarebbe finita e allora si sarebbe dovuto pur mangiare. Ma se tutti se ne andavano, la terra sarebbe rimasta sterile. “Bombardano? Non abbiate timore. La paura uccide più della guerra”. Così ha detto e ha fatto piangere tutti.

La fame è l’unico nemico invincibile: lo sapeva mio nonno, che nel 1914 combatté in Ucraina in divisa austrica (due milioni di morti in sei mesi su quel fronte). La penuria era tale che i due eserciti organizzavano dei cessate il fuoco non autorizzati solo per cavar patate dal fango. Nella memoria di Nataša c’è qualcosa di peggio: la carestia che negli anni Trenta Stalin inflisse all’Ucraina, facendone se, di milioni di morti. La patria e la libertà si difendono anche piantando patate. Nella scelta di Nataša puoi leggere l’epopea della vita che non si arrende in una parte d’Europa che più di ogni altra è stata devastata da guerre e stermini di massa. Vi trovi un culto del focolare che noialtri abbiamo perduto: il calore della picc’ka attorno a cui ci si conosce, si ama, si nasce e si muore. Ritrovi persino l’odore della zuppa calda offerta al nemico italiano in ritirata dal Don. La pietà, la speranza.

Ma attenzione, Matuška Rossija, la Madre Russia simboleggiata dalla matrioska nei negozi di souvenir, è anche un mito sovietico, che Putin rilancia alla grande. È la rappresentazione, manipolata, della donna come madre degli eroi che difendono la patria e il regime. Mito demolito dalla scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievic, premio Nobel, autrice di La guerra non ha volto di donna e di Soldati di zinco, sui reduci russi dall’Afghanistan, odiata sia dal potere moscovita che dai nazionalisti ucraini per aver narrato quelle storie da un punto di vista non nazionalistico e non virile. Novant’anni fa, Nadežda Mandel'štam dovette imparare a memoria le poesie del marito in un gulag siberiano, per poterle tramandare a noi. Sono le vedove dei poeti uccisi da Stalin ad aver garantito alla parola libera di sopravvivere in URSS.

Non la guerra, ma la resistenza alla guerra è femmina in Russia. Tutti hanno visto l’immagine di Jelena Andrejewna Ossipowa, sopravvissuta all’assedio di Leningrado, la vecchina col cartello “Pace nel mondo” trascinata via dalla polizia, o quella della giornalista Marina Ovsyannikova che interrompe una trasmissione della Tv di stato discendo “Protestate, non possono arrestarci tutti”. E Asya Maruket, leader di un movimento contro la guerra, scappata in Occidente, dove soffre a sentirsi sommariamente giudicata come guerrafondaia. E ancora Galina Timchenko, indomita responsabile del quotidiano indipendente online Meduza, costretta a emigrare in Lettonia. Non ci arrenderemo, ha dichiarato, ma siamo “in grande pericolo”, con i soldi contati, le carte di credito bloccate, senza visti e senza sapere che ne sarà di noi. E ha aggiunto: “In Russia la stampa indipendente è scomparsa, con milioni di cittadini che hanno disperato bisogno di informazione. La persecuzione del libero pensiero è iniziata a Mosca molto prima della guerra, perché serviva a preparare la guerra”.

Quando lessi per la prima volta la storia di Ruslan e Ljudmila, sentii che dalle pagine di Puškin filtrava una voce femminile, simile a quella di mia nonna. Sembrava davvero la vecchia Alida, la grande dispensatrice di cibo in tempo di guerra, la chioccia che mi rassicurava invitandomi sotto il suo piumino e, attraverso le fiabe, mi travasava un’oralità che mi avrebbe segnato per sempre. Solo più tardi capii. Anche dietro i versi di Puškin c’era una donna: la bambinaia Arina Radionovna, una campagnola analfabeta con gli stivali e il fazzoletto in testa, che aveva cullato il poeta con le storie della steppa, senza immaginare che dall’eco di quelle storie sarebbe nata la letteratura russa, che fino ad allora aveva usato il francese. Forse Bulgakov, Čechov e persino Tolstòj non sarebbero esistiti senza questa contadina slava.

Forse è per questo che, nel frastuono ansiogeno dei media, preferisco ascoltare le donne. Badanti, soprattutto, che in Italia sono presenti a migliaia. Ho percepito per la prima volta la loro forza quando le ho sentite cantare per San Nicola nella cripta della Basilica di Bari, dove riposano le spoglie del santo, venerate in tutto il mondo ortodosso da Belgrado a Vladivostok. Russe, serbe, rumene o ucraine che fossero, avevano riempito un treno intero e per tutto il viaggio avevano intonato inni, scambiandosi dolcetti e confessandosi con un pope che in quella folla querula sembrava l’unico maschio del viaggio. Un fiume di forza vitale che, dalla stazione di Bari, scese in processione verso il mare per dilagare nel sotterraneo della chiesa, in un’apoteosi di candele accese e canti nordici.

Parlo spesso con le badanti. Succede da prima della sollevazione in piazza Majdan a Kiev. Sono donne che non guardano al grande gioco dei potenti o all’illusionismo propagandistico delle parate militari, ma vanno al sodo: alla povertà, alla corruzione, ai taglieggiamenti delle mafie. Ai traffici di armi e di organi. Sanno che gli oligarchi non spadroneggiano solo a Mosca ma anche a Kiev, da dove, alla vigilia della guerra, sono scappati in massa per rifugiarsi a Vienna in alberghi di lusso. Sono badanti che, per anni, a ogni ritorno a casa col loro mazzetto di euro, sono state taglieggiate da maschi che riscuotevano tangenti in nome della patria. Cinquecento euro a persona più duemila per il pullman.

Se ti perdi nella smisurata campagna tra il Mar Bianco e il Mar Nero, trovi paesaggi umani spesso segnati dalla disillusione e dal bisogno, soprattutto da un enorme dislivello di consapevolezza fra i generi. Mentre troppi uomini dopo il crollo dell’URSS oziano o si ubriacano, le donne lavorano, zappano la terra nel tempo libero, si parlano, si aiutano, mostrano coraggio. In nessun altro luogo al mondo ho visto fra i sessi una differenza simile. Quella che in Occidente si incarna appunto nelle badanti, capaci di sfinirsi per due famiglie, le loro e le nostre, e poi di arare i campi tra le cannonate. Dovremmo erigere un monumento a queste eroine che fanno da ponte tra Est e Ovest. Anche se sono spesso laureate e più colte di noi, mi piace immaginarle piantate nelle zolle della terra, un piede sul Po e uno sul Volga, oppure sul Dnestr, sempre con gli stivali e il fazzoletto in testa di Arina Radionovna.

È un’iconografia che comincia già alle porte di casa mia, con la parola Zemlja, terra, che funziona da Trieste allo stretto di Bering. Per undici fusi orari Zemlja fa rima con donna, si incarna in figure come Franciska, 92 anni, che abita nel villaggio sloveno dove passo il mio tempo. È curva come un vecchio ulivo, non ce la fa quasi a camminare e, per spostarsi, non usa la sedia a rotelle ma il trattore. Ogni giorno passa con due cilindri che fuma e scatarra, scende al campo con le dita nodose aggrappate al volante e il fazzoletto al vento, si cala dal predellino appoggiandosi a due vanghe, e va a dissodare, lenta, tenace, il suo ettaro di terra. Estirpa rabbiosamente le erbacce come se obbedisse a un ordine supremo. Ansima rauca come una locomotiva, gli occhi lampeggiano di gioia e furbizia. Conosce ancora a memoria vecchie canzoni italiane imparate durante la repressione fascista che proibì la sua lingua madre.

Sono un viaggiatore di periferie, e nelle profonde campagne dell’ex impero sovietico ho trovato personaggi femminili eterni, alla Tolstoj. Rivedo la vecchia Gala, rimasta sola col piccolo giardino davanti a casa – il suo unico tesoro – sulle sponde del lago Onega, che maledice l’incuria dilagante nella Russia contemporanea e spiega al forestiero che “non coltivare la terra è peccato”. Nadežda, che su un treno per Kiev vuole prima accertarsi che io sia felice e poi divide con me la sua merenda. E ancora Tatjana, figlia della Lapponia orientale, che in mezzo alla tundra accende una candela sotto l’icona di san Nicola e spiega come la renna sappia trarre forza direttamente dal ventre della Terra, una bestia sacra e incontaminata che dona tutto di sé: pelliccia, carne, latte, corna.

È come se i viaggi a est fossero soprattutto viaggi nel tempo. Non in un mondo “altro”, ma alle fondamenta del nostro, un’escursione onirica nelle radici contadine perdute della nostra parte d’Europa. Luoghi dove gli occhi e le rughe raccontano ancora storie e le facce non sono ancora spianate dal benessere.  Non riesco a liberarmi di questa visione arcadica della donna slava. Mi capita spesso di pensare che ne è di loro, se sono ancora vive e se, dopo tanto tempo, si ricordano di me. Donne come Ljuba, dolcissima contadina di Kam"janec'-Podil's'kyj con la sua capretta al guinzaglio, che davanti alla sterminata campagna ucraina piena di erbacce declina il suo sconforto per i ladri al governo e il disamore dei giovanissimi verso la terra. Tamara, che mi accoglie alla stazione di Leopoli nella neve col suo paletot rosso fuoco, la sciarpa e i guanti bianchi. O Alja, sulla porta della sua casa a Petrozavodsk, duemila chilometri più a Nord, che ti invita a entrare solo per il piacere di friggerti delle bline, offrire un tè e chiacchierare con un forestiero. 

Un giorno ho narrato questi incontri in una libreria del Nevskij Prospekt a Pietroburgo, la città natale di Putin. Era pieno inverno, fuori nevicava e alle 17 faceva già buio, ma la sala era surriscaldata da una folla di studenti in attenzione spasmodica. Parlai con trasporto del viaggio “verticale” dal Mare Artico al Mar Nero compiuto per Repubblica nel 2008 con Monika Bulaj, che conosce quelle terre come pochi e ha raccolto infinite storie e immagini. Al termine, una professoressa di nome Rita Fedorovna si disse sorpresa del mio amore per la sua gente, perché quell’amore andava in collisione con l’immagine dell’Occidente passata dalla Tv di Stato. Lì capii che già allora l’uomo forte del Cremlino cercava consenso attraverso la sindrome d’assedio, rappresentando un Occidente ingrato, dimentico del tributo di sangue dei russi alla liberazione dell’Europa. E forse preparava già la rivincita.

In quella occasione intuii ciò che oggi, con questa guerra infame, mi appare lampante. Se la grande maggioranza dei russi, in particolare i più giovani, nel 2022 non credono più di essere europei pur essendo nati dopo la Guerra Fredda, questo non dipende solo da Putin e dal ventennio della sua propaganda, ma anche da noi occidentali. Un mondo nuovo e sterminato si è aperto all’Occidente nel 1989, ma noi abbiamo perso quella grande occasione per sommario calcolo politico, pigrizia mentale, ignoranza, grettezza economica o stupido senso di superiorità sull’anima di un grande popolo. Abbiamo collaborato con Putin ad allontanare la Russia dall’Europa.

Quel giorno a Pietroburgo andai con Rita Fedorovna a camminare verso la Neva incrostata di ghiaccio. Il nuovo teatro Mariinskij, incapsulato in un cubo di plexiglas, lasciava vedere la folla nel foyer. Molte donne portavano mazzi di fiori da regalare ai cantanti e agli orchestrali. In scena c’era un’opera italiana, Il ballo in maschera di Verdi. Pensai: “Dio mio, se non è Europa questa …”, ed abbi anche l’impressione che ciò che vedevo non era reale, ma un mondo in bilico protetto anch’esso da una teca. Poco dopo, sul fiume, ci venne incontro   una vecchina con al petto le medaglie all’eroismo per la resistenza di Pietroburgo all’assedio tedesco. Era lì nel gelo a vendere vecchie riviste per campare. Preferimmo invitarla a cena. Non fu facile superare il suo imbarazzo, ma alla fine si lasciò andare e ci narrò quei mesi di freddo e di fame, poi la sua vita come maestra elementare. Pensai che, senza le donne, quell’universo solidale sarebbe scomparso da sempre.

Oggi mi toglie il sonno questo odore fetido di guerra che dopo i Balcani torna in Europa con l’infelice Ucraina in trincea. Ma mi tormenta anche la Russia. Chissà quanti soldati di leva sono stati mandati nel carnaio senza essere informati sugli scopi dell’operazione. Moriranno degli innocenti dalle due parti in conflitto. Poi, alla fine di tutto, Netflix ingoierà Puškin, il karaoke silenzierà i canti del Volga e dei battellieri del Dnestr, e il tempo spazzerà via i vecchi, ineguagliabili brindisi delle tavolate, le fisarmoniche sul fiume, le poesie lette ad alta voce attorno alla tomba degli scrittori. Presto, temo, quel mondo – come la Jugoslavia – esisterà solo in letteratura, nei libri, nei film o nella musica, attraverso i rifugiati all’estero.

La parte migliore del paese – racconta in un report sul New Yorker Masha Gessen, scappata otto anni fa in America – se ne sta andando, l’ombra del conflitto fratricida e di una censura di stampo sovietico ha oscurato il paese. In mezzo a tutto questo, la figura tragica di un Putin che si oppone all’ineluttabile e proietta sul mondo esterno le cause di una corruzione che egli stesso ha contribuito a mantenere. Il machismo del padrone di tutte le Russie, il mandante dell’uccisione di Anna Politkovskaja che rivelò i suoi crimini in Cecenia, pugnala il suo stesso mito fondativo, Matuška Rossija. Ne svela la manipolazione e denuda un potere che ha sempre perseguitato le donne e rinnegato, nella donna, l’anima resistente del suo paese. Quella, sublime, di Nadežda Mandel'štam, Anna Achmatova, Marina Cvetaeva e le altre.  

Le immagini delle donne ucraine ferite o morte nell’ospedale di Mariupol’, o quelle di una bella ragazza che ha appena partorito sotto le bombe, se riescono a filtrare fino al popolo russo, sono destinate a fare al potere moscovita più male di un attacco missilistico. Sveleranno alla gente l’uso distorto del mito materno e la realtà cruda di una “operazione speciale” che è tutto meno che liberazione dal nazismo di un popolo fratello. No. Non userai la Donna per benedire una guerra. Perché la guerra, come scrive Svetlana Aleksievic, non ha mai un volto di donna. Il maschio che cavalca a torso nudo, nuota nei fiumi siberiani, mescola come Costantino la croce e la bandiera e si inchina davanti al suo patriarca in una nube di incenso, rischia di portare il suo paese alla rovina finale con una guerra che non gli ridarà affatto Kiev, la città-madre dove mille anni fa nacque la Russia cristiana, ma la allontanerà definitivamente da sé. Farà come il serbo Milošević che, attaccando la Croazia, l’ha legittimata come nazione. Peggio, finirà per farsi battere dal protagonista di un serial tv. E io non vorrei essere un Putin sconfitto a quel modo, seduto sulla valigetta dell’atomica, solo con i suoi pretoriani in un paese immenso e spopolato, che il formicaio cinese non vede l’ora di far suo.

Se accadrà, ci accorgeremo troppo tardi che eravamo figli della stessa madre e che la Russia era Europa a tutti gli effetti. Parte di un’Europa che, anche nel mito greco, è fino a prova contraria, una donna che viene da Est. I Greci chiamavano “Europa” lo spazio a Nord dell’Egeo e poi i Latini estesero il concetto a tutto il Nord del Mediterraneo. Se avessimo dei leader capaci di intendere questa fratellanza e se l’Unione stellata avesse un soprassalto identitario all’altezza dei padri fondatori, capiremmo che è proprio questa l’ultima occasione per incontrare – in attesa del dopo Putin – la parte migliore di uno smisurato paese che ha sofferto come pochi e oggi rischia di ricadere nel gelo stalinista, infliggendo sofferenza ai fratelli slavi e al mondo intero. Che l’Europa sia consapevole delle sue origini e si comporti come tale. Nel nome di Ljudmila, Nadežda e le altre.

Qui il testo di P. Rumiz con le foto di Monica Bulaj

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