Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (1915) Prima parte

Sigmund Freud
2 dicembre 2022
Arnold Böcklin, Der krieg, 1896

Introduzione

Le Considerazioni attuali sulla guerra e la morte raccolgono due saggi strettamente connessi tra loro - “La delusione della guerra” e “Il nostro modo di considerare la morte” -, scritti tra marzo e aprile del 1915.  Entrambi furono pubblicati sulla rivista Imago col titolo Zeitgemässes über Krieg und Tod.

Allo scoppio della guerra, nel luglio 2014, Freud non sfuggì al fervore bellicista e nazionalista che s’impadronì dell’Europa, ma il suo entusiasmo durò poco. Egli divenne presto consapevole della gravità della situazione; benché messo duramente alla prova nella sua vita privata – due figli partirono subito per il fronte russo e le condizioni di vita divennero sempre più difficili – e benché incerto sul futuro stesso della giovane scienza che stava costruendo – molti psicoanalisti furono chiamati in guerra, talvolta su fronti nemici -, non rinunciò a riflettere, scrivere, procedere nello sforzo di comprensione degli eventi individuali e collettivi, come se il lavoro del pensiero fosse la sola arma da contrapporre all’orrore della guerra.

Al centro delle Considerazioni attuali sta la delusione del “cittadino del mondo” e del kulturmensch, l’”uomo di cultura”, davanti al disastro prodotto dalla guerra: in pochi mesi i popoli “civilizzati” hanno mostrato di potersi distruggere e poter distruggere per moltissimo tempo a venire tutto ciò che hanno fondato ed edificato, tutte le conquiste materiali, spirituali e morali, in nome di una liberazione sfrenata e brutale dell’odio e della volontà di annientamento reciproco.

Nessuna illusione è ormai possibile: l’Europa, che gli umanisti del Rinascimento e gli intellettuali dei Lumi avevano sognato come comunità di lingue e di culture, è in preda alla violenza e alla distruzione. Freud è testimone di una guerra nuova, una guerra di massa che “rompe tutti i legami” e promette di lasciare dietro di sé un odio che impedirà a lungo di rinnovarli.

La delusione prodotta dalla guerra rivela il fondamento fragile della civiltà. La rimozione delle pulsioni aggressive, che Freud ha analizzato nei sintomi, nei sogni, negli atti mancati, esilia ma non cancella tali pulsioni. Siamo nel 1915, occorre attendere il 1920 perché venga introdotta la pulsione di morte. Per ora le pulsioni sono soltanto auto conservative e sessuali: in ogni caso, per loro natura, antisociali, tendendo all’appagamento totale e immediato. L’educazione, il patto comunitario, la religione, si sforzano di ‘addomesticarle’ chiedendo rinunce e offrendo soddisfacimenti sostitutivi, ma esse sopravvivono nell’inconscio, pronte a destarsi se le condizioni lo permettono. L’uomo civilizzato nasconde dentro di sé il “selvaggio”: su questo la posizione di Freud rimarrà invariata.

Alla ‘barbarie’ dell’individuo si aggiunge la barbarie degli Stati: lo Stato, che fino a ieri esigeva dai cittadini la rigida osservanza di regole e restrizioni, una volta in guerra non esita a praticare ingiustizie, violenze, soprusi, né esita a mentire.

La conclusione è inesorabile: “Si potrebbe dire che basta che un gran numero, che milioni di uomini si trovino riuniti, perché tutte le acquisizioni morali dei singoli individui svaniscano rapidamente e al loro posto restino solo gli atteggiamenti psichici più primitivi e più brutali. Risultato molto doloroso e che si attenuerà forse man mano che l’evoluzione continuerà il suo cammino in avanti”.

Il Congresso di Budapest del 1918 e le nevrosi di guerra. Durante e dopo la guerra si moltiplicarono le osservazioni, nei soldati traumatizzati, di manifestazioni patologiche che non trovavano una convincente spiegazione organica. Le cartelle cliniche descrivevano amnesie, mal di testa, tremori fortissimi, scosse, vertigini, stati crepuscolari, cecità, mutismi assoluti, “uomini inespressivi, che volgono intorno a sé lo sguardo come uccelli chiusi in gabbia”, che “camminano con le mani penzoloni e piangono in silenzio” o che “mangiano quello che capita, cenere, immondizia, terra”.

Nel 1915 lo psicologo Charles Myers usò per la prima volta l’espressione shell shock, (“shock da granata”) e attribuì i disturbi al fracasso assordante dei bombardamenti oppure all’avvelenamento da ossido di carbonio. Queste tesi si rivelarono infondate. Peraltro, la comparsa e la diffusione negli eserciti di tutte le nazioni di sintomi difficili da interpretare in assenza di traumi cranici o lesioni cerebrali dirette imponevano la ricerca di nuove ipotesi patogenetiche.

Poiché talvolta i sintomi si attenuavano con l’ipnosi, come nell’isteria, si diffuse l’idea che questi infelici fossero simulatori. Accusati di codardia, di poca virilità, di tradimento, di falsità, venivano rispediti al fronte in condizioni psichiche spaventose.

La negazione del traumatismo psichico dovuto alla guerra portò alla chiusura di migliaia di giovani uomini nei manicomi, dove vennero sottoposti a trattamenti disumani. I più fortunati tornarono nelle famiglie e lì condussero un’esistenza da malati cronici.

https://www.raiplay.it/video/2018/04/La-follia-nelle-trincee-6baf6b4b-393c-43e8-8ec3-13430e60086f.html

Nel settembre 1918 il V° Congresso Internazionale di Psicoanalisi si tenne a Budapest e fu interamente consacrato alle nevrosi di guerra.

La prima relazione fu di Ferenczi, che affermò e difese la natura psicogena delle nevrosi di guerra. Nell’introduzione disse: “La guerra ha provocato malattie nervose in misura massiccia, malattie che dovevano essere comprese e curate, ma che il materialismo organicista si è rivelato assolutamente inadeguato a comprendere […]. La guerra, che in questo senso è stata un esperimento di massa, ci ha mostrato tutta una serie di gravi nevrosi in cui il fattore meccanicistico era fuori questione; i neurologi [sono stati costretti a riconoscere che avevano tralasciato qualcosa] Questo qualcosa era […] la psiche [1]".

Freud mantiene le nevrosi di guerra distinte sia dalle nevrosi traumatiche, conseguenti a uno choc o a un incidente, sia dalle nevrosi “in tempo di pace” (nevrosi di transfert come l’isteria). Ciò che si gioca non è un conflitto tra l’Io e le pulsioni sessuali, come nelle nevrosi di transfert, ma un conflitto interno all’Io, coinvolgente il sistema di ideali collettivi interiorizzati: coraggio, patriottismo, solidarietà con i commilitoni, ecc. Il conflitto oppone “l’Io pacifico e il nuovo Io guerriero del soldato”, il primo determinato a proteggersi contro la minaccia per la vita rappresentata dall’Io bellicista, che spinge invece al sacrificio e alla morte. Secondo la formula freudiana, “[il conflitto] diventa acuto non appena l’Io pacifico si rende conto di rischiare la vita per colpa della temerarietà del suo recente parassitico duplicato”. Il trauma provoca una scissione all’interno del soggetto: schiacciato tra l’aspirazione alla vita e una tendenza compulsiva alla morte non gli resta altra via che la fuga nella nevrosi.

Il capitolo delle nevrosi di guerra riveste per la storia della psichiatria e della psicoanalisi un interesse maggiore. La riflessione di Freud sui traumatismi di guerra ebbe ripercussioni sulla teoria psicoanalitica e aprì la strada ad una migliore comprensione del narcisismo, dell’angoscia, dei processi di identificazione e dei processi psichici conseguenti al trauma.

Non è infatti solo l’epoca delle ‘rovine’ che si apre con la Prima Guerra, ma anche l’epoca degli immensi traumi psichici che la guerra scatena negli individui e nei popoli.

https://www.arte.tv/it/videos/101943-000-A/rovine-cio-che-resta-di-una-guerra/

Freud e l’affare Wagner-Jauregg. Dopo la guerra il Parlamento austriaco creò una Commissione d’inchiesta per indagare eventuali violazioni dei diritti militari. Erano arrivate denunce contro un certo numero di psichiatri: l’accusa era di aver sottoposto molti soldati durante la guerra a trattamenti elettrici inumani e inefficaci nel sospetto che i loro sintomi nervosi fossero una simulazione, messa in atto per evitare i combattimenti e percepire una pensione. Tra questi ex soldati si trovava il luogotenente Kauders e Freud fu chiamato a pronunciarsi su questo caso in qualità di esperto. Redasse una perizia e partecipò all’udienza pubblica che si tenne nel settembre del 1920.

La storia di Kauders è esemplare. Spirito patriottico, fu inviato sul fronte russo-polacco, dove dovette confrontarsi subito con la povertà dei mezzi di cui l’armata austriaca disponeva. Il suo equipaggiamento consisteva in un binocolo antiquato, una sciabola che lo intralciava nella marcia e una vecchia pistola. Non disponeva nemmeno di una mappa della regione in cui doveva avanzare con i suoi uomini. Questi, oltretutto, per la maggior parte parlavano ungherese e non comprendevano il tedesco. Il reggimento si trovò sotto tiro dei Russi. Kauders vide morire due ufficiali ed egli stesso fu ferito. Svenuto, si risvegliò in un posto di soccorso; fu dichiarato invalido e mandato a casa, a Berlino. Il più reputato neurologo tedesco dell’epoca, consultato per i violenti mal di testa e la difficoltà a camminare, diagnosticò la natura neurologica dei sintomi ma, nell’autunno del 1917, il medico di una commissione militare mise in discussione la diagnosi. Sospettato di simulazione, Kauders finì nella clinica del celebre professor Julius Wagner-Jauregg, dove rimase diverse settimane in reparto chiuso. Per due mesi e mezzo fu trattenuto in camera di isolamento e sottoposto a violente sedute di faradizzazione.

Molti anni dopo questi avvenimenti Kurt Eissler [2] avrebbe incontrato Kauders negli Stati Uniti, ne avrebbe raccolto la storia, sia durante la guerra che negli anni precedenti, fino all’infanzia, e ne avrebbe fatto l’oggetto di un’appassionante analisi, poi pubblicata nel 1979 insieme al rapporto sul dibattito pubblico tenutosi nel settembre 1920. Il libro, uscito in tedesco, fu tradotto in francese nel 1992 col titolo Freud sur le front des névroses de guerre [3].

Torniamo al 1920. A quest’epoca Wagner-Jauregg non aveva ancora la reputazione internazionale che otto anni dopo gli avrebbe consentito di ricevere il premio Nobel per i suoi lavori sulla terapia della malaria. Direttore della Clinica di Neuropsichiatria di Vienna, era tuttavia uno dei più famosi rappresentanti della psichiatria austriaca.

Né nella perizia né nei dibattiti Freud attaccò l’illustre collega e dichiarò che “se [la pratica elettrica] è stata usata negli ospedali di Vienna, sono personalmente convinto che, quanto al professor Wagner-Jauregg, i suoi interventi non giunsero mai alla crudeltà”. Il rimprovero principale che gli mosse fu di aver esteso troppo il campo della simulazione e aver disconosciuto che nella maggior parte dei casi si trattava in realtà di nevrosi, cioè di una patologia le cui motivazioni sono del tutto inconsce.

Affermò che la medicina corre il rischio di perdere sé stessa se si mette al servizio di compiti che non le appartengono. Diventando un “funzionario di guerra” il medico entra a sua volta in un conflitto tra le esigenze di umanità e quelle della guerra. “Il medico deve innanzitutto difendere i malati, non qualcun altro. Quando il medico entra al servizio di qualcun altro la sua funzione è distrutta”. Preoccuparsi di ristabilire la capacità di combattere, anziché preoccuparsi di curare i pazienti, crea un grave problema di responsabilità.

La guerra aveva portato l’Europa sull’orlo dell’abisso e provocato un’immensa rovina: ora occorreva ricostruire tutto. Nel 1918, a Budapest, mentre la guerra era ancora in corso, Freud auspicò la creazione di case di cura o ambulatori dove le persone potessero ricevere trattamenti psicoanalitici gratuiti [4]: era questo l’avvenire che prefigurava per la sua scienza. Incoraggiando gli psicoanalisti a non indietreggiare davanti alla profondità e all’ampiezza del trauma collettivo e a rendere la cura accessibile a tutti, Freud non esitava a coinvolgere la psicoanalisi nei problemi sociali.  Inaugurato nel febbraio 1920, il Policlinico di Berlino, diretto da Karl Abraham, Max Eitingon e Ernst Simmel, fu pensato come il laboratorio di questa esperienza. Il centro di gravità della psicoanalisi si spostò a Berlino, fino a che la bufera degli anni Trenta non mise i freudiani sulla via dell’esilio. Nel maggio del 1933 i libri di Freud bruciarono in molte città tedesche. Freud osservò con sarcasmo che “l’umanità è diventata più civile. Si bruciano i libri anziché le persone”. Rapidamente seguirono la dissoluzione dell’Associazione Psicoanalitica di Berlino e l’Istituto Psicoanalitico fu integrato nell’Istituto Göring … ma questa è un’altra storia.

Angela Peduto

Sigmund Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (1915)*

Abraham Bloemaert, Caino e Abele, 1590-1600

1- La delusione della guerra

Presi nel vortice di questo tempo di guerra, privi di informazioni obiettive, senza la possibilità di considerare con distacco i grandi mutamenti che si sono compiuti o che si stanno compiendo, o di prevedere l’avvenire che sta maturando, noi stessi non riusciamo a renderci conto del vero significato delle impressioni che urgono su di noi, e del valore dei giudizi che siamo indotti a pronunciare. Ci sembra che mai un fatto storico abbia distrutto in tal misura il prezioso patrimonio comune dell’umanità, seminato confusione in tante limpide intelligenze, degradato così radicalmente tutto ciò che è elevato. Anche la scienza ha perduto la sua serena imparzialità; i suoi servitori, esacerbati nel profondo, cercano di trar da essa armi per contribuire alla lotta contro il nemico. L’antropologo è indotto a dimostrare che l’avversario è un essere inferiore e degenerato; lo psichiatra a diagnosticare in lui perturbazioni spirituali e psichiche. Può darsi però che avvertiamo con intensità sproporzionata le sciagure di questo nostro tempo, e che non sia giusto confrontarle con le sciagure di altri tempi che non abbiamo conosciuto.

Il singolo, se non è egli stesso un combattente e non è quindi diventato un semplice ingranaggio della gigantesca macchina bellica, ha smarrito ogni orientamento e si sente inibito nelle sue potenzialità. Penso perciò che accoglierà con favore ogni minima indicazione che lo aiuti a sentirsi a proprio agio, almeno nel suo intimo. Tra i fattori che sono responsabili della miseria spirituale in cui è piombato chi è rimasto a casa, e contro cui è tanto difficile lottare, ve ne sono due che vorrei mettere in rilievo e trattare in questa sede: la delusione provocata da questa guerra, e il mutamento impostoci da questa, come da ogni altra guerra, nel nostro atteggiamento verso la morte.

Quando parlo di delusione, ognuno comprende immediatamente ciò che intendo dire. Anche senza alcun fanatismo pietistico, e pur comprendendo la necessità biologica e psicologica della sofferenza nell’economia della vita umana, non si può non condannare la guerra, nei suoi scopi e nei suoi mezzi, e non aspirare alla cessazione delle guerre. Dicevamo sì a noi stessi che le guerre non possono scomparire fintanto che i popoli vivono in condizioni di esistenza così diverse, fintanto che il loro modo di valutare la vita individuale è così divergente e gli odi che li separano sono alimentati da forze motrici psichiche così potenti. Eravamo dunque preparati al fatto che guerre tra popoli primitivi e popoli civilizzati, tra razze divise da differenze di colore, e persino con o tra singole popolazioni europee meno progredite o civilmente in regresso avrebbero tenuto occupata l’umanità ancora per lungo tempo. Ma ci cullavamo anche in un’altra speranza. Dalle grandi nazioni di razza bianca dominatrici del mondo, nelle cui mani è affidata la guida del genere umano, che sapevamo intente a perseguire interessi estendentisi al mondo intero, e a cui erano dovuti i progressi tecnici per il dominio della natura nonché i valori della cultura, dell’arte e della scienza, da questi popoli, almeno, ci aspettavamo che giungessero a risolvere per altre vie i loro malintesi e i loro contrasti d’interesse. All’interno di ciascuna di queste nazioni erano state instaurate, per il singolo, norme morali elevate, e ad esse il singolo individuo doveva uniformare la sua condotta di vita se voleva partecipare ai beni comuni della civiltà. Queste prescrizioni, spesso troppo rigorose, esigevano molto da lui: una considerevole autolimitazione, una cospicua rinuncia al soddisfacimento pulsionale. Gli era soprattutto interdetto approfittare dei grandi vantaggi che si possono trarre, nella competizione con i propri simili, dall’uso della menzogna e della frode. Lo Stato civile considerava queste norme morali come il proprio stesso fondamento, interveniva inflessibilmente contro chi cercasse di attentarvi, dichiarava spesso illecito anche soltanto il sottoporle a verifica inflessibilmente contro chi cercasse di attentarvi, dichiarava spesso illecito anche soltanto il sottoporle a verifica in sede critica. Si poteva perciò pensare che lo Stato intendesse rispettare per parte sua tali norme e che non le avrebbe mai violate, non foss’altro per non contraddire alle basi stesse della sua esistenza. È vero infine che si poteva costatare che all’interno di queste nazioni civili erano qua e là frammischiate minoranze etniche universalmente impopolari, e perciò ammesse solo controvoglia, e non completamente, a partecipare al comune lavoro civile, benché si fossero dimostrate sufficientemente idonee a svolgerlo. Tuttavia, si poteva supporre che questi grandi popoli avessero acquisito tanta comprensione per ciò che fra loro vi è di comune, e tanta tolleranza per quanto vi è di diverso, da non poter più, come ancora avveniva nell’antichità classica, confondere in un unico concetto lo “straniero” e il “nemico”.

Fiduciose in questa comunanza fra i popoli civili, moltissime persone hanno abbandonato la loro casa natìa per trasferirsi all’estero, legando la loro esistenza ai rapporti di scambio esistenti tra popoli amici. E colui che non era trattenuto stabilmente in un luogo determinato dalle necessità della vita, poteva costituirsi grazie ai vantaggi e alle attrattive dei paesi civili una nuova patria più ampia, dove poter circolare indisturbato e senza suscitare sospetti. Poteva in tal modo bearsi del mare azzurro e di quello grigio, delle bellezze dei monti nevosi e di quelle delle verdi praterie, dell’incanto della foresta nordica e dello splendore della vegetazione meridionale, dell’atmosfera dei paesaggi legati ai grandi ricordi storici e della quiete della natura inviolata. Questa nuova patria era per lui anche un museo, pieno di tutti i tesori che gli artefici dell’umana civiltà hanno creato e tramandato nei secoli. Migrando da una sala all’altra di questo museo poteva rendersi conto, con giudizio imparziale, che le diversità delle mescolanze di sangue, delle tradizioni storiche e delle caratteristiche della madre terra, hanno prodotto, ad opera dei suoi concittadini di questa più ampia patria, i più svariati ed egregi risultati. Qui era sviluppata al massimo la fredda inflessibile energia, là l’arte gentile di abbellire la vita, e ancor più in là il senso dell’ordine e della legge, o un’altra di quelle qualità che hanno fatto l’uomo signore della terra. Né si deve dimenticare che ogni cittadino del mondo civile s’era creato un suo particolare Parnaso e una sua Scuola d’Atene [1]. Fra i grandi pensatori, poeti e artisti di tutte le nazioni, era andato scegliendo coloro ai quali pensava di dovere il meglio di ciò che gli era servito per gustare e capire la vita, e, nella sua ammirazione, li aveva collocati accanto ai classici immortali e ai celebri maestri di civiltà della sua terra d’origine. Nessuno di questi grandi gli era apparso straniero sol perché aveva parlato in una lingua diversa dalla sua, si trattasse di un impareggiabile esploratore delle umane passioni o di un esaltatore fervido della bellezza, di un ispirato e vigoroso profeta o di un sottile umorista, e mai aveva creduto di doversi sentire per questo colpevole di tradimento verso la nazione o verso l’amata lingua madre. Talora la gioia tratta da questa civile comunanza veniva turbata da voci le quali ammonivano che, date le divergenze tradizionali, erano inevitabili le guerre anche fra i membri di questa comunità. Non ci volevamo credere, ma, ammesso di dover giungere a tanto, come ci figuravamo una guerra simile? Come un’occasione per dimostrare i progressi compiuti dai sentimenti della solidarietà umana, dagli antichi tempi in cui gli anfizioni greci avevano vietato di distruggere le città appartenenti alla Lega, di tagliare i loro ulivi e di sottrarre loro l’acqua; come una contesa cavalleresca, che dovesse limitarsi a stabilire la superiorità di una delle parti, evitando possibilmente gravi sofferenze estranee a questo scopo, concedendo la piena immunità ai feriti costretti a ritirarsi dalla lotta nonché ai medici e agli infermieri adibiti alle loro cure. E immaginavamo naturalmente che sarebbero state prese tutte le precauzioni per la popolazione civile: per le donne, estranee all’uso delle armi, per i bambini, destinati a divenire, una volta cresciuti, gli amici e i collaboratori dei bambini dell’altro campo. E infine che sarebbero rimaste in vigore tutte quelle iniziative e istituzioni internazionali nelle quali la comunanza civile del tempo di pace si era incarnata.

Una guerra siffatta avrebbe già procurato abbastanza orrori e patimenti, ma non avrebbe interrotto lo sviluppo di relazioni etiche tra le individualità collettive del genere umano, i popoli e gli Stati. La guerra a cui non volevamo credere è scoppiata, e ci ha portato… la delusione. Non soltanto è più sanguinosa e rovinosa di ogni guerra del passato, e ciò a causa dei tremendi perfezionamenti portati alle armi di offesa e di difesa, ma è anche perlomeno tanto crudele, accanita e spietata quanto tutte le guerre che l’hanno preceduta. Essa infrange tutte le barriere riconosciute in tempo di pace e costituenti quello che è stato chiamato il diritto delle genti, disconosce le prerogative del ferito e del medico, non fa distinzione fra popolazione combattente e popolazione pacifica, viola il diritto di proprietà. Abbatte quanto trova sulla sua strada con una rabbia cieca, come se dopo di essa non dovessero più esservi avvenire e pace fra gli uomini. Spezza tutti i legami di solidarietà che possono ancora sussistere fra i popoli in lotta e minaccia di lasciar dietro di sé un rancore tale da rendere impossibile per molti anni una loro ricostituzione.

Questa guerra ha inoltre messo in luce un fenomeno che ci sembra quasi inconcepibile: i popoli civili, cioè, si conoscono e si capiscono talmente poco da potersi volgere l’uno contro l’altro con odio e orrore. Una delle grandi nazioni civili è diventata tanto odiosa agli altri popoli che si tenta di escluderla come “barbara” dalla comunità civile, e ciò benché essa abbia da gran tempo dimostrato, con contributi egregi, le sue prerogative di civiltà [2]. Ci conforta la speranza che un giorno uno storico imparziale possa dimostrare che proprio questa nazione, nella cui lingua sto scrivendo e per la cui vittoria stanno lottando le persone che ci sono care, ha violato meno delle altre le leggi della umana moralità; ma chi può di questi tempi erigersi a giudice della propria causa?

I popoli, più o meno, sono rappresentati dagli Stati che hanno istituito; questi Stati dai governi che li guidano. Il privato cittadino ha modo durante questa guerra di persuadersi con terrore di un fatto che occasionalmente già in tempo di pace lo ha colpito: e cioè che lo Stato ha interdetto al singolo l’uso dell’ingiustizia, non perché intenda sopprimerla, ma solo perché vuole monopolizzarla, come il sale e i tabacchi. Lo Stato in guerra ritiene per sé lecite ingiustizie e violenze che disonorerebbero l’individuo singolo. Si serve contro il nemico non solo di una legittima astuzia, ma anche della cosciente menzogna e dell’inganno intenzionale; e ciò in una misura che sembra sorpassare tutto ciò che è stato fatto nelle guerre precedenti. Lo Stato richiede ai suoi cittadini la massima obbedienza e il massimo sacrificio di sé, ma li tratta poi da minorenni, esagerando nella segretezza e sottoponendo ogni manifestazione ed espressione del pensiero a una censura che rende coloro che sono stati intellettualmente repressi indifesi di fronte a qualsiasi situazione sfavorevole che possa determinarsi e a qualsiasi voce allarmistica che possa esser propalata. Lo Stato scioglie ogni convenzione e trattato stipulato con altri Stati, e non teme di confessare la propria rapacità e volontà di potenza: e il cittadino è tenuto ad approvare tutto ciò in nome del patriottismo.

Né ci si venga a obiettare che lo Stato non può rinunciare all’uso dell’ingiustizia per non trovarsi in condizioni di svantaggio. Anche per il singolo l’osservanza delle norme morali e la rinuncia all’uso brutale della forza sono in genere assai poco vantaggiose, ed è raro che lo Stato sia in grado di indennizzarlo per il sacrificio che gli ha imposto. Né possiamo meravigliarci se il rilassamento di tutti i vincoli morali tra le individualità collettive del genere umano [3] si ripercuote anche sulla moralità privata, posto che la coscienza morale, lungi dall’essere quel giudice inflessibile di cui parlano i moralisti, altro non è alle origini che “angoscia sociale [4]”. Là dove vien meno il biasimo della comunità cessa anche la repressione degli appetiti malvagi, e gli uomini si abbandonano ad atti di crudeltà, di perfidia, di tradimento e di brutalità, che sembrerebbero incompatibili col livello di civiltà che hanno raggiunto.

Come non può, il cittadino del mondo civile di cui ho detto più su, non sentirsi smarrito in un mondo che gli è divenuto straniero: la sua grande patria è distrutta, il patrimonio comune devastato, i concittadini divisi e umiliati!

La sua delusione si presta tuttavia ad alcune considerazioni critiche. A stretto rigore, giacché si riduce al crollo di un’illusione, essa non è giustificata. Ebbene le illusioni hanno la funzione di risparmiarci determinati sentimenti spiacevoli consentendoci di fruire al loro posto di alcuni soddisfacimenti sostitutivi. Non dobbiamo quindi lamentarci se esse prima o poi cozzano contro la realtà e ne rimangono distrutte.

Due fatti hanno suscitato in questa guerra la nostra delusione: la scarsa moralità verso l’esterno di quegli Stati che all’interno si erigono a custodi delle norme morali, e la brutalità del comportamento di quei singoli individui che, in quanto membri della più progredita civiltà umana, non ci saremmo aspettati capaci di tanto.

Cominciamo da questo secondo punto, e cerchiamo di riassumere in un’unica breve proposizione la concezione che intendiamo criticare. Come ci rappresentiamo propriamente il processo mediante il quale un singolo essere umano perviene a un più alto livello etico? Una prima risposta potrebbe essere che l’uomo è originariamente fin dalla nascita buono e nobile; ma questa tesi non merita neppure di essere discussa. Una seconda risposta potrebbe suggerirci che l’uomo è soggetto a un processo evolutivo che consisterebbe nel fatto che le tendenze malvagie verrebbero in lui estirpate e sostituite, sotto l’influsso dell’educazione e dell’ambiente civile che lo circonda, da tendenze rivolte al bene. In tal caso ci si potrebbe però meravigliare che in individui così educati la malvagità riappaia poi con tanta violenza.

La seconda risposta contiene però la tesi che intendiamo confutare. In realtà non vi è per nulla una “estirpazione” del male. L’indagine psicologica, anzi per essere più precisi psicoanalitica, ci indica piuttosto che la più profonda essenza degli uomini è costituita da moti pulsionali elementari, comuni a tutti e miranti al soddisfacimento di certi bisogni originari. Tali moti pulsionali per sé stessi non sono né buoni né cattivi. Noi classifichiamo questi moti e le loro manifestazioni in base alla loro relazione con i bisogni e le richieste della comunità umana. Si può tutt’al più ammettere che tutti quei moti che la società condanna come cattivi (ad esempio quelli egocentrici e crudeli) si trovano compresi fra questi moti primitivi.

Questi impulsi primitivi devono compiere un lungo cammino evolutivo prima che sia loro concesso di operare nell’individuo adulto. Vengono inibiti o deviati verso altre mete e altri ambiti, si mescolano tra loro, mutano i loro oggetti, si rivolgono parzialmente sulla persona stessa del soggetto. Formazioni reattive contro determinate pulsioni danno l’illusione di un mutamento del loro contenuto, come se l’egoismo si fosse trasformato in altruismo e la crudeltà in compassione [5]. Queste formazioni reattive sono favorite dal fatto che alcuni moti pulsionali si presentano quasi dall’inizio in coppie antitetiche, per un fenomeno singolarissimo e sconosciuto ai più a cui è stato dato il nome di “ambivalenza emotiva”. L’aspetto di questo fenomeno più facile da osservare e da capire è dato dalla assai frequente coesistenza, nella stessa persona, di un intenso amore e di un intenso odio. Dal canto suo la psicoanalisi aggiunge che non di rado questi due impulsi emotivi contrastanti assumono come oggetto la medesima persona.

Solo dopo che tutti questi “destini delle pulsioni” si sono compiuti, emerge ciò che diciamo il carattere di un uomo per il quale, com’è noto, la mera classificazione “buono” o “cattivo” è assolutamente inadeguata. È raro che un uomo sia totalmente buono o cattivo; perlopiù è buono sotto certi riguardi e cattivo sotto altri, o buono in date circostanze e decisamente cattivo in altre. Notevole è pure la costatazione che la preesistenza nell’infanzia di forti impulsi “cattivi” è spesso il fattore che determina un successivo spiccatissimo orientamento dell’adulto verso il “bene”. I bambini più smaccatamente egoisti possono diventare i cittadini più generosi e più disposti al sacrificio; la maggior parte degli apostoli della pietà, dei filantropi e degli zoofili erano originariamente piccoli sadici e tormentatori di animali.

La trasformazione delle pulsioni “cattive” è dovuta all’azione congiunta di due fattori: uno interno e uno esterno. Quello interno consiste nell’influsso che sulle pulsioni cattive (o per meglio dire egoistiche) esercita l’erotismo, cioè il bisogno umano d’amore inteso nel senso più ampio: con l’apporto di componenti erotiche, le pulsioni egoistiche si tramutano in pulsioni sociali; si impara che essere amati è un vantaggio tale che per esso val la pena di rinunciare ad altri vantaggi. Il fattore esterno è la costrizione educativa che rappresenta le pretese dell’ambiente civile ed è più tardi sostituita dalla diretta pressione di quest’ultimo. La civiltà si è costituita mediante la rinuncia al soddisfacimento pulsionale ed esige da ogni nuovo venuto questa medesima rinuncia. Durante la vita individuale si determina una costante trasformazione della costrizione esterna in costrizione interna. Gli influssi di civiltà fanno sì che le inclinazioni egoistiche si convertano sempre più, con l’apporto di componenti erotiche, in inclinazioni altruistiche e sociali. Infine si deve supporre che ogni costrizione interna, la quale riesca a imporsi nel corso dello sviluppo umano, è stata in origine, cioè nella storia dell’umanità, pressione puramente esterna. Gli uomini che nascono oggigiorno recano in sé una certa tendenza, o disposizione, a mutare le pulsioni egoistiche in pulsioni sociali: si tratta di una organizzazione ereditaria la quale opera questa trasformazione sotto una piccola spinta. Un’altra parte di questa trasformazione va compiuta nel corso dell’esistenza stessa. In tal modo ogni singolo individuo non soltanto è soggetto alla pressione del proprio ambiente civile attuale, ma subisce altresì l’influsso della storia civile dei suoi progenitori.

Se chiamiamo attitudine alla civiltà la capacità che un uomo ha di trasformare, sotto l’influenza dell’erotismo, le sue pulsioni egoistiche, possiamo dire che essa è costituita da due componenti, di cui una è innata mentre l’altra si acquista nel corso della vita, e che la relazione di queste due componenti fra loro e rispetto alla parte rimasta inalterata della vita pulsionale è quanto mai variabile. In generale siamo inclini a esagerare la portata della componente innata, e inoltre rischiamo di sopravvalutare l’attitudine complessiva alla vita civile rispetto alla vita pulsionale rimasta allo stato primitivo; abbiamo cioè la tendenza a giudicare gli uomini “migliori” di quanto siano in realtà. Vi è infatti anche un altro elemento che turba la nostra valutazione spingendoci a concludere erroneamente in senso ottimistico.

I moti pulsionali delle altre persone si sottraggono naturalmente alla nostra osservazione diretta. Noi li induciamo dalle loro azioni e dal loro comportamento, che attribuiamo a motivi aventi la loro radice nella vita pulsionale. Ma conclusioni di questo tipo sono necessariamente erronee in un certo numero di casi: le stesse azioni, “buone” dal punto di vista della civiltà, possono talora scaturire da motivi “nobili” e talora no. I moralisti teorici chiamano “buone” solo quelle azioni che sono espressioni di moti pulsionali buoni e rifiutano il loro apprezzamento alle altre azioni; la società invece, dominata com’è da intenti pratici, non si cura per nulla di una distinzione simile, si accontenta del fatto che un uomo impronti il proprio comportamento e le proprie azioni a precetti di civiltà, preoccupandosi ben poco dei suoi motivi.

Abbiamo veduto che la costrizione esterna, esercitata dall’educazione e dall’ambiente sugli uomini, contribuisce a proseguire la trasformazione della vita pulsionale verso il bene e alla conversione dell’egoismo in altruismo. Ma questo non è sempre e necessariamente l’effetto della costrizione esterna. Educazione e ambiente non dispongono soltanto di premi d’amore, ma agiscono anche con incentivi d’altro genere, e cioè con la ricompensa e il castigo. Possono quindi ottenere il risultato che chi è soggetto alla loro influenza si determini a un comportamento buono in senso civile, senza che in lui la vita pulsionale si sia ingentilita e le tendenze egoistiche si siano trasformate in tendenze sociali. Il risultato rimane grosso modo identico; e soltanto in circostanze speciali si potrà costatare che c’è chi agisce sempre bene perché a ciò lo inducono le sue inclinazioni pulsionali, mentre altri sono buoni solo perché e fintantoché questo loro modo civile di comportarsi favorisce le loro mire egoistiche. Una considerazione superficiale dell’individuo non ci fornisce però alcun mezzo per distinguere un caso dall’altro, e il nostro ottimismo ci spingerà sempre a sopravvalutare fortemente il numero degli uomini che la civiltà ha trasformato.

La società civile, la quale esige una buona condotta e non si cura del fondamento pulsionale di quest’ultima, ha dunque costretto a obbedire alla civiltà un gran numero di uomini, i quali tuttavia non seguono in ciò la propria natura. Incoraggiata dal successo, essa si è lasciata indurre ad accentuare al massimo le esigenze morali, costringendo i suoi membri ad allontanarsi ancor più da quella che sarebbe la loro naturale disposizione pulsionale. Questi sono quindi soggetti a una repressione pulsionale ognor più forte, e la tensione che ne risulta si esprime nelle più singolari manifestazioni reattive e compensatorie. Nel campo della sessualità, dove questa repressione ha meno possibilità di effettuarsi, si producono i fenomeni reattivi delle malattie nevrotiche. Altrove la pressione della civiltà, anziché produrre conseguenze patologiche, si dimostra in malformazioni del carattere, ove le pulsioni inibite sono pronte ad approfittare di ogni occasione per soddisfarsi. Colui che è in tal modo costretto a reagire costantemente in modo conforme a precetti non corrispondenti alle sue inclinazioni pulsionali, conduce una vita che, sotto il profilo psicologico, è al di sopra dei suoi mezzi; ebbene – sia o no consapevole della duplicità della sua condotta – costui va considerato obiettivamente un ipocrita. È innegabile che la nostra civiltà moderna favorisce straordinariamente il prodursi di questa specie di ipocrisia, anzi oseremmo dire che si fonda su una ipocrisia siffatta e che dovrebbe acconsentire a trasformarsi profondamente il giorno in cui gli uomini si accingessero a vivere secondo la verità psicologica. Vi è dunque un numero infinitamente maggiore di uomini i quali accettano ipocritamente la civiltà, che non di individui veramente civili; e può anche darsi che un certo grado d’incivilimento ipocrita sia in fin dei conti indispensabile per la conservazione della civiltà, dato che finora, forse, l’attitudine degli uomini alla civiltà non si è costituzionalmente organizzata in essi al punto da essere di per sé sufficiente a tale compito. D’altra parte la conservazione della civiltà, anche su una base tanto fragile, offre la possibilità di ottenere in ogni nuova generazione quella ulteriore modificazione pulsionale che può portare a una civiltà migliore.

Dalle considerazioni fin qui svolte in tanto traiamo conforto in quanto ci mostrano che l’avvilimento e la scorata delusione per il comportamento incivile dei nostri concittadini del mondo in questa guerra erano in realtà ingiustificati. Essi si fondavano sopra una illusione a cui ci eravamo abbandonati ciecamente. Effettivamente questi nostri concittadini del mondo non sono per nulla caduti tanto in basso quanto supponevamo, e ciò per il semplice fatto che non si trovavano prima alle altezze che avevamo immaginate. Poiché le individualità collettive dell’umanità, i popoli e gli Stati, hanno abbandonato le restrizioni morali a cui erano avvezzi nei loro reciproci rapporti, comprensibilmente i singoli sono stati indotti a sottrarsi anch’essi per un poco alla pressione della civiltà e a fornire un momentaneo soddisfacimento alle pulsioni che tenevano imbrigliate. Né con ciò la loro moralità relativa, all’interno del popolo di cui fanno parte, ha probabilmente subìto uno strappo.

Possiamo comunque approfondire ulteriormente la spiegazione dei mutamenti operati dalla guerra in coloro che prima riconoscevamo come nostri concittadini, e trarne un ammonimento a non essere ingiusti nei loro confronti. Gli sviluppi psichici hanno una peculiarità che non si riscontra in alcun altro processo evolutivo. Quando un paese si cangia in città, o un bambino in un uomo, il paese e il bambino con ciò scompaiono. Soltanto uno sforzo di memoria ci consente di rintracciare i vecchi tratti nell’aspetto nuovo; effettivamente i materiali e le forme antiche sono scomparsi e sostituiti da qualcosa di nuovo. Nella evoluzione psichica le cose procedono in modo affatto diverso; e la situazione, non comparabile con altre situazioni, può essere descritta soltanto dicendo che ogni fase evolutiva precedente continua a sussistere accanto alla fase successiva a cui ha dato luogo: la successione comporta anche una coesistenza, quantunque i materiali con cui si è prodotta tutta la serie di trasformazioni siano gli stessi. Lo stato psichico precedente può per lunghi anni non esprimersi esteriormente, pur continuando a sussistere tanto da potere un bel giorno tornare a divenire la forma d’espressione delle forze psichiche: e anzi l’unica loro forma di espressione, come se tutti gli sviluppi successivi si fossero disfatti e annullati. Questa straordinaria plasticità dei processi di evoluzione psichica non si esplica però senza restrizioni in entrambi i sensi; la si può precisare come una particolare idoneità all’involuzione – alla regressione – giacché può ben succedere che un certo livello superiore e successivo di sviluppo non possa più, una volta abbandonato, esser nuovamente raggiunto, mentre invece gli stati primitivi possono sempre ristabilirsi: quel che vi è di primitivo nella psiche è imperituro, nel vero senso della parola.

Al profano le cosiddette malattie mentali suscitano certamente l’impressione di una distruzione della vita psichica e intellettuale. In realtà il processo distruttivo colpisce solo acquisizioni e fasi evolutive recenti. L’essenza della malattia mentale risiede in un ritorno a condizioni anteriori di vita affettiva e di funzionamento psichico.

Un ottimo esempio della plasticità della vita psichica ci è offerto da quello stato di sonno a cui aspiriamo ogni notte. Da quando abbiamo imparato a interpretare anche i sogni più strampalati e confusi, sappiamo che ogni volta che ci addormentiamo ci sbarazziamo, come di un abito, della nostra moralità così faticosamente acquisita, per mettercela di nuovo addosso l’indomani. Questa spoliazione è ovviamente innocua giacché, grazie allo stato di sonno, siamo paralizzati e condannati all’inattività. Solo il sogno può darci qualche indicazione sulla regressione compiuta dalla nostra vita emotiva verso uno dei più antichi stadi evolutivi. Così ad esempio è notevole che tutti i nostri sogni sono dominati da motivi puramente egoistici. Avendo uno dei miei amici inglesi illustrato questo principio in una riunione scientifica in America, una signora del pubblico osservò che questo poteva esser vero in Austria, ma che quanto a sé stessa e alle sue amiche, poteva garantire che erano animate da sentimenti altruistici anche durante i sogni. Il mio amico, pur appartenendo anch’egli alla razza inglese, fu però costretto, in base ai dati della sua personale esperienza nell’analisi dei sogni, a obiettare fermamente che nel sogno le gentildonne americane non sono meno egoiste di quelle austriache [6].

Anche la trasformazione pulsionale, su cui poggia la nostra attitudine alla civiltà, può esser soggetta, transitoriamente o durevolmente, a un processo involutivo dovuto alle circostanze della vita. Non c’è dubbio che gli influssi esercitati dalla guerra fan parte delle forze capaci di provocare una tale involuzione; non necessariamente dobbiamo quindi disconoscere un’attitudine alla civiltà a tutti coloro che attualmente si comportano in un modo incivile; anzi possiamo attenderci che in tempi più tranquilli le loro tendenze pulsionali torneranno a ingentilirsi.

Forse vi è però nei nostri concittadini del mondo un altro sintomo, che non meno di questa decadenza morale, la quale pur tanto ci addolora, ci ha sorpresi e spaventati. Mi riferisco alla mancanza di intelligenza rivelata anche dai migliori, alla loro stupida ostinazione, alla loro inaccessibilità anche agli argomenti più convincenti, e alla loro ingenua credulità di fronte alle asserzioni più contestabili. Ciò fornisce un quadro ben desolante, e io tengo a dichiarare apertamente che lo spirito di parte non mi fa velo al punto da indurmi a ritenere che una tale mancanza d’intelligenza si trovi tutta in un campo solo. Questo fenomeno tuttavia si spiega anche più facilmente di quello di cui ci siamo occupati fin qui, ed è assai meno scabroso. Filosofi e conoscitori d’uomini ci hanno da lungo tempo ammonito che andiamo errati quando consideriamo la nostra intelligenza una forza autonoma, trascurando la sua dipendenza dalla vita emotiva. Il nostro intelletto può lavorare efficacemente solo in quanto venga sottratto all’influenza di forti impulsi emotivi; in caso contrario si comporta semplicemente come uno strumento al servizio della volontà e produce quel risultato che essa gli impone. Gli argomenti logici sono privi di efficacia contro gli interessi affettivi, e appunto perciò la lotta a base di argomenti (i quali, secondo le parole di Falstaff, sono “abbondanti come le more[7]”) è così sterile nel mondo degli interessi. L’esperienza psicoanalitica non ha potuto che confermare, se pur ve ne fosse stato bisogno, questa affermazione. Essa ha occasione ogni giorno di costatare che gli uomini più acuti si comportano improvvisamente in modo irragionevole e come degli imbecilli, non appena la comprensione che da essi si pretende incontra una resistenza da parte del sentimento; ma riacquistano pienamente la capacità d’intendere tosto che quella resistenza è superata. L’annebbiamento delle facoltà intellettuali che questa guerra ha spesso provocato proprio nei migliori dei nostri concittadini del mondo è quindi un fenomeno secondario, una conseguenza della eccitazione emotiva, e appunto per ciò è destinato sperabilmente a scomparire con essa.

Giunti in tal modo a capire nuovamente quei nostri concittadini che ci erano divenuti estranei, ci riuscirà più facile sopportare la delusione arrecataci dalle individualità collettive dell’umanità, e cioè dai popoli, rispetto ai quali conviene che moderiamo le nostre pretese. Essi forse non fanno che ripetere l’evoluzione stessa degli individui, e si trovano ancor oggi a uno stadio assai primitivo di organizzazione, rispetto alla formazione di unità più alte. Per questo forse quell’elemento educativo costituito dalla costrizione moralizzatrice esterna, che ci apparve tanto efficace sul singolo, non può essere rintracciato in essi quasi affatto. Noi veramente speravamo che la grande comunione di interessi realizzata dai traffici e dalla produzione segnasse l’inizio di una tale costrizione, ma sembra che i popoli obbediscano per il momento molto di più alle loro passioni che ai loro interessi. Al massimo si servono degli interessi per razionalizzare le passioni; ricorrono ai loro interessi per giustificare con questi il soddisfacimento delle loro passioni. Perché poi in via generale i popoli e le nazioni – e questo in verità anche in tempo di pace – si denigrino, si odino, si detestino l’un l’altro, è un vero mistero. A questo proposito io non so proprio che cosa dire. È veramente come se, riuniti gli uomini in moltitudine, o addirittura in milioni di individui, per ciò stesso tutte le acquisizioni morali dei singoli dovessero scomparire, lasciando sussistere soltanto gli atteggiamenti psichici più primitivi, più antichi e più rozzi. Forse soltanto un’ulteriore evoluzione potrà parzialmente mutare questo deplorevole stato di cose. Ma un po’ più di franchezza e di sincerità reciproca, nei rapporti degli uomini fra loro, e nei rapporti fra governanti e governati, potrebbe spianare la strada anche a una tale trasformazione [8].

*Zeitgemässe über Krieg und Tod, Imago, 4, 1915, trad. it. in Opere 1915 - 1917, vol. 8, Boringhieri.

Note all'Introduzione

  1. Il primo numero dell’Internationaler Psychoanalytischer Verlag venne completamente dedicato alla psicoanalisi delle nevrosi di guerra (Zur Psychoanalyse der Kriegsneurosen, 1919), con un capitolo introduttivo di Freud. Nel 1921 uscirà la traduzione inglese, curata da Ernest Jones (Psycho-Analysis and the War Neuroses, 1921).
  2. Kurt Eissler (1908-1999) si formò come psicoanalista all’istituto di formazione della Società psicoanalitica di Vienna. Emigrò negli Stati Uniti nel 1938. È stato uno dei fondatori e segretario degli Archivi Sigmund Freud.
  3. Eissler Kurt R., 1979, Freud sur le front des névroses de guerre, Paris, PUF, 1992.
  4. È possibile prevedere che un giorno o l’altro la coscienza della società si desti e rammenti agli uomini che il povero ha diritto all’assistenza psicologica né più e né meno come ha diritto già ora all’intervento chirurgico che gli salverà la vita; e che le nevrosi minacciano la salute pubblica non meno della tubercolosi e, al pari di questa, non possono essere lasciate all’impotente sollecitudine dei singoli” (relazione presentata al Congresso di Budapest, 1918) (Vie della terapia psicoanalitica, in Opere di S. Freud, Boringhieri, vol. 9).

Note alle Considerazioni attuali (prima parte):

  1. Freud si riferisce ai due celebri affreschi di Raffaello nelle Stanze del vaticano. Nell’Interpretazione dei sogni (1899) p. 289 questi due dipinti sono citati per illustrare una delle tecniche del lavoro onirico: quella di riprodurre “un nesso logico come simultaneità”.
  2. Freud ritornerà su questo punto nel §5 della sua Autobiografia (1924).
  3. Come Freud ha detto sopra, si tratta dei popoli e degli Stati.
  4. Vedi, sulla nascita della coscienza morale, l’Introduzione al narcisismo (1914).
  5. Vedi lo scritto metapsicologico Pulsioni e loro destini (1915).
  6. L’amico inglese a cui Freud si riferisce era Ernest Jones.
  7. W. Shakespeare, Enrico quarto, pt. 1, atto 2, scena 4. Vedi questo stesso riferimento letterario in Per la storia del movimento psicoanalitico (1914).
  8. Sugli effetti del conflitto fra le pretese della civiltà e le esigenze della vita pulsionale Freud si è più volte soffermato, dal suo scritto La morale sessuale “civile” e il nervosismo moderno (1908) fino al Disagio della civiltà (1929).

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