Scongiurare la fine: pensare alla possibilità della guerra nucleare

Jean-Pierre Dupuy
Felix Vallotton, un art du front, 1915

Jean-Pierre Dupuy (https://dlcl.stanford.edu/people/jean-pierre-dupuy) è professore di Filosofia politica e sociale presso l’Ecole Polytechnique di Parigi, dove ha fondato e tutt’ora dirige il Centre de Recherche en Epistémologie Appliquée. È inoltre docente di Filosofia sociale presso la Stanford University (https://dlcl.stanford.edu/people/jean-pierre-dupuy). Si è occupato dei fondamenti teorici della cibernetica, di epistemologia, di catastrofi sociali e ambientali.

Teorico del "catastrofismo illuminato", ci ha consegnato negli ultimi vent’anni una riflessione lucida e profonda sul destino apocalittico dell’umanità, reso possibile o direttamente per l’uso di armi nucleari o indirettamente per la distruzione delle condizioni di sopravvivenza del pianeta. Lo sappiamo, ma non ci crediamo, e questo è il principale ostacolo a una reale presa di coscienza.

Nell’articolo che pubblichamo in traduzione italiana, l’Autore riflette sulla minaccia della guerra nucleare, quella che volevamo credere archiviata con la Guerra fredda e che la guerra scatenata da Putin contro l’Ucraina ha reso nuovamente attuale. Benché l’utilizzazione dell’arma nucleare appaia per ora improbabile, non è tuttavia impossibile. Riflettere su questa eventualità richiede che si abbandoni lo schema della dissuasione: è il solo modo, secondo il filosofo francese, per tentare di prevenire la catastrofe.

Ringraziamo Jean-Pierre Dupuy per averci concesso di tradurre e pubblicare il suo articolo. La versione originale si trova su Le Grand Continent col titolo “Déjouer la fin: penser la guerre nucléaire qui vient”.

Scongiurare la fine: pensare alla possibilità della guerra nucleare

Jean-Pierre Dupuy

La bella favola della dissuasione nucleare

L’arma nucleare è per natura e concezione un’arma di non impiego [1]. La sua smisurata potenza esclude che qualcuno possa un giorno pensare di farla esplodere su una popolazione civile. “A cosa serve?” chiese il presidente Trump quando ne ricevette il codice. Ha un solo scopo: dissuadere le altre potenze nucleari dall’utilizzare la propria e, accessoriamente, dissuadere Stati o gruppi terroristi che non la possiedono dall’acquistarla: è un’arma di dissuasione. Certo, non si tratta di un’arma di conquista con cui, in una prospettiva di attacco, prendere il sopravvento su un avversario per sottrargli un oggetto che possiede o che si desidera possedere. E nemmeno, in una prospettiva di difesa, è un’arma con cui impedire a un nemico di impadronirsi di un oggetto che si possiede o che l’altro vuole possedere. Per oggetto intendo un territorio (l’Afghanistan o l’Ucraina), una zona d’influenza (la Siria), il prestigio legato all’importanza del proprio arsenale. No, non è più in gioco un oggetto o un desiderio d'oggetto.

Qui la violenza raggiunge il suo acme, il punto in cui ha a che fare solo con sé stessa. Proprio questa è la buona notizia: l’arma nucleare sarebbe uno strumento di dissuasione grazie alla sua semplice esistenza. E dunque non ci sarebbe da preoccuparsi: la guerra nucleare non avrà luogo perché è impossibile: ecco ciò che ci ripetono fino alla noia gli “esperti” francesi […] Ci rassicurano: la dissuasione funziona, come in passato, ed è poco probabile, se non impossibile, che finisca in una guerra nucleare [2].

Questo discorso è irresponsabile. Ed è così pericoloso da essere inaccettabile. Certo, una guerra nucleare in Europa è poco probabile, ma è possibile. Quando la posta in gioco è enorme, occorre considerare la possibilità che una simile eventualità diventi reale, e questo per darsi la possibilità di impedirlo [3].

L’arma nucleare al servizio della guerra

Dall’inizio di febbraio 2022, quindi prima ancora che le sue truppe il 24 entrassero in Ucraina, V. Putin ha continuato a mettere in guardia NATO e Stati Uniti circa il rischio di una escalation che potrebbe portare a un conflitto nucleare. In Francia ci si è stancati di ciò che è stato considerato una minaccia velata ma così poco credibile da non poter essere presa sul serio. Poca attenzione è stata data a una dichiarazione fatta alla stampa dal capo del Cremlino il 9 dicembre 2022: veniva annunciato un possibile cambiamento di dottrina nucleare [4]. Fino a quel momento la dottrina ufficiale prevedeva che la Russia potesse ricorrere all’arma nucleare solo in caso di attacco della stessa natura o di pericolo per la sopravvivenza della nazione. Putin in quella occasione ha fatto finta di scoprire che il ventaglio strategico americano comporta un elemento detto di azione preventiva (preemption), al quale la Russia farebbe bene a ispirarsi a sua volta.

‘Azione preventiva’ è il nome dell’attacco in campo nucleare. Per valutarne la specificità è opportuno tornare sulla logica della dissuasione. Essa comporta due fasi: in primo luogo, la minaccia di ricorrere a rappresaglie incommensurabili se la potenza nemica oltrepassa una certa linea rossa, che non viene precisata; poi, se la dissuasione fallisce, la decisione di mettere in atto la minaccia. La Francia omette di considerare questa eventualità, in quanto la dissuasione non potrebbe fallire. Tuttavia proprio qui si trova la pietra d’inciampo della dissuasione nucleare: il carattere non credibile della minaccia di rappresaglia che la sostiene. Se la dissuasione fallisse, la potenza attaccata accetterebbe il rischio di innescare come promesso una escalation che, provocando la reciproca distruzione, sarebbe suicidaria? Occorre essere folli – o mostrare di esserlo – per essere credibili? Dalla risposta a questa domanda dipende la solidità dell’edificio dissuasivo.

L’azione preventiva non si preoccupa di questo scoglio. Fa come se la prima fase fosse data per certa: il nemico ha oltrepassato la linea rossa o, se non lo ha fatto, si appresta a farlo. La seconda fase è dunque giustificata. Quello che in realtà è un primo attacco si presenta come una rappresaglia: si tratta di “rappresaglie anticipate” [5]. Quali che siano le dottrine nucleari dichiarate, si può sostenere che tanto i capi di Stato sovietici (poi russi) quanto quelli americani non hanno mai escluso dal loro repertorio d’azione la possibilità che si decidesse di colpire per primi. Tuttavia, non è scontato convincere l’altro che si è pronti a farlo, come non lo è praticare il gioco della dissuasione. Anche in questo caso si pone un problema di credibilità. Un primo colpo non sarà sufficiente a neutralizzare l’avversario, che conserverà una capacità di risposta: quindi occorre dimostrargli che sapremo sopportare il colpo di ritorno (in inglese, ride out) e limitare i danni, dunque che rimarremo pienamente capaci di reagire alla risposta. Può rivelarsi una sfida molto grande.

Stati Uniti e Russia hanno avuto e continuano ad avere un atteggiamento ambivalente nei confronti di un elemento della dottrina nucleare che ha ricevuto il nome alambiccato e ingannevole di “escalation in vista di una de-escalation”[6]. La loro esitazione e vaghezza a questo riguardo illustrano il dilemma tra dissuasione e prevenzione con cui entrambe le superpotenze nucleari si confrontano. L’idea di una escalation in vista di una de-escalation, idea che ha influenzato molte generazioni di strateghi, si trova già nel libro più importante di Thomas Schelling, The strategy of conflict [7], La dottrina della risposta graduale preconizzata da Robert Mcnamara a partire dagli anni Sessanta, il concetto di guerra nucleare limitata, quello di “controllo dell’escalation” (escalation control), ecc., sono altrettante varianti della stessa idea. Il modo più semplice di presentarla è paragonarla alla logica della vendita all’asta. Si fa salire il prezzo fino al punto in cui gli altri non possono rilanciare. Si aumenta progressivamente l’intensità del conflitto con mezzi non nucleari (detti “convenzionali”) fino al momento in cui il passaggio alla fase di un attacco nucleare appare inevitabile per mettere fine al conflitto, vincendolo: è la cosiddetta de-escalation.

Sia gli strateghi americani che russi dichiarano e recitano il credo della dissuasione nucleare: non si dissuade da un attacco limitato rendendo altamente credibile una minaccia di risposta limitata; si dissuade mantenendo a un livello modico la probabilità del reciproco annientamento. Resta il fatto che, nella pratica, l’escalation in vista di una de-escalation continua a tentare gli stati maggiori. Questa idea è soprattutto presente negli strateghi russi, nei dibattiti non ufficiali. Mi limito a una citazione: “Le nostre armi convenzionali di precisione dovrebbero poter infliggere alle forze e alle basi NATO perdite sufficienti a indurre la NATO o a mettere fine alla sua aggressione o ad alzarla un livello massimo di guerra convenzionale, includente un’offensiva con forze terrestri. Questo giustificherebbe di ritorno il ricorso da parte russa a un primo colpo nucleare con armamenti tattici” [8].

Immagine di un’esplosione durante l’operazione Teapot

La dissuasione messa fuori gioco

Quanto a sapere perché dal 9 agosto 1945 nessuna bomba atomica è stata sganciata su popolazioni civili, la risposta immediata potrebbe essere: la dissuasione ha funzionato e questa ne è la prova. L’ex segretario della Difesa dei presidenti Kennedy e Johnson, Robert Mcnamara, liquidava la questione dicendo: “Abbiamo avuto fortuna. È stata la fortuna, giusto la fortuna, che ci ha permesso di evitare la guerra nucleare. Decine di volte, durante la Guerra fredda e dopo, siamo stati a un passo dallo scatenarsi dell’orrore” [9].

Ora, c’è una maniera più radicale per mostrare che la dissuasione nucleare non ha avuto nessun ruolo nell’evitare per ottant’anni la guerra nucleare: e consiste nel rendere chiaro quanto raramente sia stata applicata.  In mancanza di una dimostrazione è sufficientemente suggestivo l’episodio seguente, che si è verificato alla fine della crisi dei missili di Cuba. Sabato 27 ottobre 1962 un sottomarino sovietico che incrociava nel mar dei Sargassi, a nord est di Cuba, fu intercettato e accerchiato dalla portaerei americana USS Randolph, accompagnata da alcuni cacciabombardieri. Il sottomarino era comandato dal luogotenente di vascello Savitsky, affiancato dall’ufficiale politico Maslennikov. La nave americana cominciò a lanciare il segnale convenuto con lo Stato maggiore sovietico per intimare al sottomarino nemico di risalire in superficie. Il segnale consisteva nel far esplodere granate sottomarine in vicinanza dello scafo, ma il comandante non era stato informato di questa convenzione.  Credette perciò di essere attaccato dagli americani: un primo falso allarme o errore di comunicazione in questa storia che ne avrebbe comportato altri, sempre più tragici. A bordo la situazione era infernale. La temperatura era salita a 50/60 gradi, gli uomini cadevano tramortiti. Per colmo di sventura, le comunicazioni con lo Stato maggiore a Mosca erano interrotte. Savitsky non sapeva se la guerra fosse iniziata oppure no. Sfinito, snervato, stava per dare l’ordine di lancio dei siluri, sui quali erano montate … testate nucleari. Perché sì, i sottomarini sovietici che incrociavano al largo di Cuba erano dotati di bombe atomiche. Ma questo, gli americani non lo sapevano; lo seppero solo quarant’anni dopo. Savitsky, ripreso il controllo di sé, si ricordò che, per prendere una decisione così fatale, gli era necessario il consenso dell’ufficiale politico. Lo ottenne.

Il caso o la Provvidenza vollero che quel giorno si trovasse a bordo Vasili Alexandrovitch Arkhipov. Benché dello stesso grado di Savitsky, era ai suoi ordini. Ma era anche il capo di Stato maggiore dell’intera flotta di sottomarini. Savitsky ritenne di dover chiedere anche la sua opinione. Arkhipov non fu d’accordo, poiché Mosca non aveva autorizzato il lancio. L’ordine non fu dato e il sottomarino risalì in superficie.

Come non chiedersi, ascoltando una simile storia, cosa sarebbe accaduto se uno di questi eventi si fosse svolto diversamente? E immediatamente viene in mente una catena di situazioni controfattuali. Se Arkhipov non si fosse trovato lì ma in un altro sottomarino, è altamente probabile che Savitsky avrebbe dato l’ordine di lancio. La portaerei USS Randolph e i cacciatorpedinieri sarebbero stati distrutti da un’esplosione nucleare terrificante. Il comando americano, ignorando che i sottomarini sovietici erano dotati di cariche atomiche, avrebbero dedotto che l’attacco era partito da Cuba. Il presidente Kennedy aveva fatto sapere dal 22 ottobre che, se si fosse verificato un tale evento, l’America avrebbe lanciato un attacco nucleare totale sull’Unione sovietica. È facile immaginare il seguito. Nel mondo reale la crisi fu risolta pacificamente il giorno dopo.

Ogni anello di questa catena di inferenze si riferisce a un evento o ad una situazione contingente: avrebbe potuto non prodursi, oppure essere differente. Ma l’elemento debole in questo racconto, il più scioccante, è che il comando americano non sapeva che i sottomarini sovietici erano equipaggianti con armi nucleari. Non che le informazioni americane fossero incomplete. Lo erano, evidentemente. Ma la cosa stupefacente è che i sovietici non avessero informato gli americani. Se l’arma atomica fosse veramente un’arma di dissuasione, il minimo sarebbe stato far sapere al nemico che era là e che si era pronti a farne uso. Nessun dubbio che la portaerei si sarebbe mossa in modo più prudente nei confronti del sottomarino sovietico.

Aver dimenticato di comunicare un’informazione così cruciale fa subito pensare al Dr. Stranamore [10], il film di Stanley Kubrick del 1964, dove appare il concetto di “macchina apocalittica”. L’idea è semplice, almeno su carta. Il modo migliore per rendere credibile la minaccia di rappresaglie incommensurabili su cui si basa la dissuasione, è renderne l’esecuzione automatica. Finiti i dilemmi etici e strategici che tanto hanno tormentato i capi di Stato, da Kennedy a Giscard. In un certo senso è chi tira per primo a rendersi responsabile dell’olocausto che ne consegue, perché la risposta non è umana. Nel film di Kubrick i sovietici hanno inventato una macchina che distruggerebbe immediatamente ogni vita umana sulla terra in risposta ad un primo colpo americano. Il problema è che, quando la storia comincia, non hanno (ancora) informato gli americani della sua esistenza. Ora, un colonnello fanatico ha già, senza autorizzazione e senza annullamento possibile, lanciato un B52 armato di bombe H in direzione della Siberia. Lungi dall’essere una parodia, questo film è un documentario: è quanto ha detto recentemente un membro del centro di ricerche strategiche di Stanford, il CISAC [11]. Con questa frase Martin Hellman, titolare della medaglia Alan Turing, vuol dire che durante la Guerra fredda, come del resto oggi, le parti che si affrontano non rivelano tutte le loro carte, cosa che la logica della dissuasione dovrebbe invece implicare.

Il ruolo cruciale degli armamenti tattici

La potenza inaudita della bomba atomica non è di per sé una ragione sufficiente per dissuadere chiunque dal solo pensiero di utilizzarla? Chi potrebbe avere interesse a scatenare una escalation da cui tutti uscirebbero vinti? Queste idee, con le quali abbiamo iniziato la nostra analisi, sono sempre state presenti dopo il 1945 e conservano una innegabile potenza di convincimento. Di fatto, si è cercato di ridurre tanto la potenza delle armi quanto la portata dei missili vettori, nella speranza di rendere le devastazioni prodotte da un conflitto nucleare paragonabili a quelle di cui è capace una guerra tradizionale, prima di comprendere che, al contrario, sono precisamente queste armi e questi missili, chiamati “armi tattiche”, che occorre vietare. La loro debole potenza, del tutto relativa [12], incoraggia in effetti a impiegarli sul campo di battaglia come si farebbe con un armamento classico, il che significa rimettere i piedi nell’ingranaggio nucleare, la cui vocazione, come si può mostrare con un ragionamento a priori, è di aumentare fino al punto estremo, cioè fino all’annientamento reciproco [13].

La questione delle armi tattiche si ripresenta più che mai con la guerra in Ucraina. Il 25 marzo 2023, poco più di un anno dopo l’inizio dell’invasione e dopo avere a più riprese agitato la minaccia nucleare, V. Putin ha dichiarato che la Russia avrebbe trasferito armi nucleari “tattiche” in Bielorussia, sul territorio dell’alleato – e vassallo – Lukaçenko. Si è premurato di aggiungere: “Non c’è nulla di insolito in questo: gli Stati Uniti lo fanno da decenni. Da molto tempo dispiegano le loro armi nucleari tattiche sul territorio dei loro alleati”. Si è tuttavia ben guardato dal precisare che le sue forze nucleari tattiche superano di venti volte le equivalenti forze NATO in Europa. Nemmeno ha ricordato che la maggior parte delle sue forze sono a Kaliningrad, ancora più vicine, dunque, all’Europa occidentale di quanto sia la Bielorussia – anche se la distanza qui è poco pertinente: questi missili di media portata possono viaggiare fino a 5.500 km.

Il 1° e il 2 febbraio 2019 si è verificato un doppio avvenimento, non percepito dall’opinione pubblica, almeno in Francia, da cui sono in buona parte scaturiti gli avvenimenti in corso. I capi di Stato Trump, prima, Putin il giorno dopo, hanno annunciato che si sarebbero ritirati da un accordo, firmato nel 1987 a Washington dai loro predecessori Reagan e Gorbachov, col quale i due firmatari si impegnavano a eliminare dai rispettivi arsenali tutti i missili da crociera e i missili balistici terra-aria con una portata compresa tra i 500 e i 5.500 km. Questo trattato aveva il nome ingannevole di INF (Intermediate-Range Nuclear Forces, cioè Forze Nucleari di Portata Intermedia). Gravemente ingannevole, perché non limitava le armi nucleari ma un certo tipo di missili, che possono oppure no portare armi nucleari. Il ritiro americano è diventato ufficiale il 2 agosto 2019.

Con la fine della Guerra fredda, nel 1989, abbiamo assistito a un’inversione spettacolare dei rapporti di forza tra Washington e Mosca quanto al rapporto tra armi nucleari e armi convenzionali. Prima del 1989 la superiorità dell’Unione Sovietica in armi convenzionali era manifesta e gli Stati Uniti cercavano di compensare il proprio ritardo sviluppando l’arsenale nucleare. Dopo il crollo dell’URSS il Pentagono, fiero della vittoria del “mondo libero”, cioè delle democrazie liberali e delle economie di mercato, si è interessato ad altro, per esempio a conflitti regionali per i quali le armi convenzionali si mostravano più efficaci delle bombe atomiche. Intanto, in Russia, Putin sviluppava il suo arsenale nucleare.

Non è il nucleare in generale che Washington ha relativamente trascurato, ma soprattutto il nucleare tattico. La dottrina era: armi convenzionali sui campi di battaglia regionali e, se l’”escalation in vista di una de-escalation” lo impone, ricorso ad armi nucleari strategiche portate dai loro ICBM. Nel 2023 l’America ha in Europa non più di un centinaio di ogive nucleari tattiche ripartite in cinque paesi: Germania, Paesi Bassi, Belgio, Italia e Turchia. La Russi ne ha forse venti volte di più.

Dato questo contesto, come hanno reagito nel 2019 le due superpotenze nucleari al reciproco rifiuto del trattato INF? Il trattato, ricordiamolo, imponeva un limite ai missili, che portassero o meno ogive nucleari. Gli Stati Uniti e la NATO hanno immediatamente visto l’opportunità di piazzare missili di debole e media portata ma a carica non nucleare in Europa. Lo hanno fatto senza tener conto della risposta russa. Questa è stata reiterata più volte: ripetutamente Putin ha chiesto che gli Stati Uniti e la NATO imponessero una moratoria al dispiegamento di tali missili a carica nucleare in Europa. La richiesta è rimasta lettera morta.

Un dettaglio tecnico assume qui un’importanza considerevole: è impossibile determinare se un missile balistico porta oppure no un’ogiva nucleare prima che raggiunga il suo obiettivo. Davanti a questa indeterminazione, la Russia ha scelto di trattare ogni missile che si avvicina al suo territorio come se fosse un attacco nucleare. Secondo la dottrina enunciata, è un motivo sufficiente perché essa lanci i propri missili nucleari prima ancora che i missili nemici tocchino il suo suolo. Se l’America pensava di poter nuovamente dispiegare in Europa i propri missili, convenzionali e nucleari, questo non può che farla riflettere attentamente.

Tutto questo accadeva proprio prima che Putin decidesse di invadere l’Ucraina.

Se ho finora quasi del tutto trascurato la dimensione geopolitica è stato per insistere sulla potenza decisiva dello strumento, in particolare lo strumento di distruzione, l’arma atomica. Lo strumento non è neutro, non fa il bene o il male a seconda delle intenzioni di chi lo maneggia. Se una guerra nucleare dovesse scatenarsi in Europa, qualcosa che nessuno degli attori coinvolti vuole, il responsabile non sarebbe in ultima analisi né Putin né Zelensky né Biden né la NATO, ma l’arma atomica di per sé e la sua potenza smisurata. Lo avvertono confusamente i protagonisti del dramma che si sta giocando, come testimonia la prudenza estrema con cui muovono le loro pedine, non senza contraddizioni e una buona dose di ipocrisia. Queste finzioni e queste menzogne collettive sono senza dubbio necessarie per evitare la catastrofe. No, la NATO non fa la guerra alla Russia, semplicemente fornisce all’Ucraina le armi senza le quali la Russia l’avrebbe da tempo schiacciata. Questo imbroglio può durare indefinitamente? Un gesto maldestro dell’uno o dell’altro basterebbe a far virare la finzione verso l’orrore della realtà.

Il 24 gennaio 2023, i responsabili del Doomsday Clock, l'Orologio dell’Apocalisse, hanno deciso di posizionare la sua unica lancetta a 90 secondi dalla mezzanotte – la mezzanotte essendo, per convenzione, il momento in cui l'umanità si autoannienterà: è l’intervallo più vicino a quel momento dall'inizio dell'era nucleare. Questo orologio virtuale è stato creato nel 1947 da un gruppo di fisici atomici, tra cui Albert Einstein, i quali, sconvolti dallo sgancio delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, lanciarono il Bulletin of the Atomic Scientists. Da allora, la lancetta è stata spostata avanti e indietro una trentina di volte. Nel 1953, quando l'America e l'Unione Sovietica testarono la bomba all'idrogeno a nove mesi di distanza l'una dall'altra, la lancetta si avvicinò di più alla mezzanotte, solo 2 minuti. L’intervallo si è ridotto. Oggi siamo più che mai sull'orlo dell'abisso [14].

È possibile ascoltare una conferenza di Jean-Pierre Dupuy dal titolo “La guerre nucléaire qui vient”, maggio 2023, cliccando qui.

  1. Le idee presentate in questo testo sono sviluppate con forza, dettagli e argomentazioni in Jean-Pierre Dupuy, La guerre qui ne peut pas avoir lieu. Essai de métaphysique nucléaire, Ed. du Seuil, coll. Points, 2023.
  2. Si può citare, ad esempio, questo passaggio di Bruno Tertrais: “I russi si servono per nucleare per impressionarci, spaventarci, dividerci. Dunque, se la domanda è ‘si preparano a usare armi nucleari?’, per me la risposta è no. Non vedo motivi per crederlo. Non bisogna preoccuparci per le ragioni sbagliate” (Le Monde, 3 maggio 2022). I miei colleghi di Stanford, che lavorano su questo tema nell'ambito di uno dei principali centri di ricerca strategica del mondo, sono molto preoccupati. Tra loro ci sono William Perry, ex segretario alla Difesa durante la presidenza Clinton, e David Holloway, uno dei maggiori esperti delle forze nucleari sovietiche e poi russe.
  3. Cfr. Jean-Pierre Dupuy, How to Think About Catastrophe. Toward a Theory of Enlightened Doomsaying, Michigan State University Press, 2023.
  4. Le Monde, 10 dicembre 2022
  5. Nella dottrina americana, l’azione preventiva è soprannominata "colpire per primi". Si è i primi a colpire per secondi.
  6. In inglese escalate to de-escalate.
  7. Harvard University Press, 1960.
  8. Alexei Arbatov, “Reducing the role of nuclear weapons”, comunicazione al colloquio “Un monde sans armes nucléaires”, Oslo, 26-27 febbraio 2008.
  9. Testimonianza di Robert McNamara nel film di Errol Morris The Fog of War. Eleven Lessons from the Life of Robert McNamara, Sony Classic, 2003. CISAC : Center for International Security and Cooperation
  10. In francese Docteur Folamour.
  11. CISAC: Center for International Security and Cooperation.
  12. La loro potenza esplosiva può superare fino a sette volte quella di Little Boy, la bomba ce distrusse Hiroshima.
  13. Jean-Pierre Dupuy, The War That Must Not Occur, Stanford University Press, in corso di stampa.
  14. (NdT)  https://www.britannica.com/story/timeline-of-the-manhattan-project,

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