Caducità (1915)

Sigmund Freud
6 maggio 2022

Nel novembre del 1915 la Società Goethe chiede a Freud di contribuire a un volume celebrativo, Das Land Goethe 1914-1916, al quale partecipano, tra gli altri, anche Arthur Schnitlzer e Hugo von Hoffmannsthal.

La breve nota scritta da Freud sarà pubblicata nel 1916 col titolo di Vergänglichkeit, tradotto in italiano con Caducità. Il titolo rinvia al finale del secondo atto di Faust:

Tutto l’effimero (Alles Vergängliche)
è solo un simbolo; 

l’irraggiungibile
diviene qui conseguimento; 

l’indescrivibile
qui è compiuto;
l’eterno Femminino
ci trae verso l’alto. 

È l’estate del 1913, narra Freud; nel corso di una passeggiata in montagna si svolge una conversazione con “un giovane poeta”, alla presenza di un “amico” che resta “silenzioso”. 

Dobbiamo a un articolo di H. Lehmann, “Conversation between Freud and Rilke” (Psychoanal. Q., 1966, 55,423-427), un passaggio che permette, non senza incertezze, di ricostruire i protagonisti incontrati nel testo: “Nel corso della celebre passeggiata in montagna con Freud e Lou Andreas Salomé durante la prima guerra mondiale, Rilke espresse i suoi sentimenti di tristezza a proposito del carattere effimero di tutte le cose belle”. Il giovane poeta citato da Freud sarebbe dunque Rilke e sotto le spoglie maschili dell’amico taciturno si nasconderebbe Lou Andreas Salomé. In realtà Freud parla di una passeggiata avvenuta nel 1913, dunque prima della guerra, ma è vero che i tre si erano effettivamente incontrati in quell’anno, come testimonia il Diario di Lou Andreas Salomé.

Freud rievoca dunque questa conversazione e rammenta quanto il poeta, contemplando la bellezza della natura, fosse turbato, pieno di tristezza e di nostalgia: questa bellezza scomparirà con l’inverno, così come la bellezza del mondo è destinata a perire. Freud si inoltra in una riflessione sull’effimero e l’eterno dal sapore goethiano, che non vale tuttavia a consolare il poeta. Riflettendo a posteriori, parrà allora a Freud che sia “la ribellione psichica contro il lutto” a generare tanto scoramento. 

Il racconto della conversazione, avvenuta prima della guerra, termina con un riferimento alla guerra ormai in corso. Molti, davanti alle distruzioni della guerra, hanno provato gli stessi sentimenti del poeta, come lui restando ancorati a ciò che hanno perduto. Il pensiero che la percezione dell’effimero sia qualcosa che contribuisce alla percezione e al valore della bellezza, il dolore del lutto, dolore che pare così naturale ma che per la metapsicologia è un enigma, la difficoltà di accettare la perdita e rilanciare la nostra capacità d’amare verso nuovi oggetti e nuovi legami, ecco i temi che occupano queste poche pagine dove le tracce del pensiero tragico di Freud si intrecciano con l’amore per la vita.   

La caducità non toglie nulla alla bellezza: la bellezza esiste al di là della morte. E se “un fiore fiorisce una sola notte”, non per questo “la sua fioritura ci apparirà meno splendida”: un istante di vita basta a restaurare l’eternità. L’amore per la bellezza, effimera e fragile come la vita, colora di Eros il pessimismo freudiano.

Come ha scritto E. Roudinesco nella sua biografia, Freud ha profondamente amato il “mondo di ieri”, quello che melanconicamente scorre nelle pagine di Stefan Zweig: l’Europa della belle époque travolta dalla guerra, l’Europa della borghesia progressista e confidente erosa dalle sue nevrosi, l’Europa scossa dai grandi movimenti di emancipazione, l’Europa tenacemente fedele alla Ragione mentre gli artisti e i seguaci di una giovane scienza indicavano tutti i segni della Sragione. In una lettera a Lou Andreas Salomé del 1914 Freud aveva scritto: “Non ho dubbi che l’umanità riuscirà a rimettersi anche da questa guerra; tuttavia so per certo che né io né i miei contemporanei rivedremo mai più un mondo felice. Tutto è troppo orribile; ma quel che è più triste è che le cose vanno esattamente come avremo dovuto immaginarle in base a quanto le attese suscitate dalla psicoanalisi ci hanno insegnato sugli uomini e sul loro comportamento. È questo atteggiamento nei confronti del genere umano ad avermi sempre impedito di condividere il Suo sereno ottimismo.  Nel segreto del mio animo ero giunto alla conclusione che, se ravvisiamo nella nostra civiltà attuale, che è di tutte la più elevata, soltanto una gigantesca ipocrisia, è evidente che non siamo organicamente idonei per questa civiltà. Non ci resta che abdicare, e il Grande Sconosciuto, persona o cosa, che si nasconde dietro al Fato, ripeterà in futuro l’esperimento con un’altra razza”.

Ora, nel 1915, quasi a voler contraddire sé stesso e l’asprezza del suo pessimismo, Freud afferma che dopo gli orrori della guerra il mondo distrutto potrà essere ricostruito. Se le perdite sono l’orizzonte perenne del nostro esistere, il lutto si estinguerà e la libido tornerà libera per investire nuovi oggetti; se la kultur dà senso alla vita, ci consacreremo ad essa anche quando l’idealizzazione che illusoriamente faceva credere alla sua permanenza si è dissolta. Non rinunceremo a creare: a condizione di accettare il dolore e il ricordo, di non respingere né la speranza né l’azione. E di adempiere al compito di essere vivi: fino alla fine.

“Da un giorno all’altro Nataša se n’è andata. Dall’Italia si è fatta portare alla frontiera ucraina ed è tornata a Ternopol. Non c’è stato modo di farla desistere. Una volta in patria, ha risalito in autobus la corrente dei profughi in fuga, poi da casa ha telefonato agli amici per dire che era primavera e bisognava piantar patate. Per questo era partita così di fretta. La guerra sarebbe finita e allora si sarebbe dovuto pur mangiare. Ma se tutti se ne andavano la terra sarebbe rimasta sterile. ‘Bombardano? Non abbiate timore, la paura uccide più della guerra’. Così ha detto e ha fatto piangere tutti”. (P. Rumiz, “La guerra non ha volto di donna”, in Robinson, 26 marzo 2022)

Angela Peduto

Sigmund Freud - Caducità* (1915)

Non molto tempo fa, in compagnia di un amico silenzioso e di un poeta già famoso nonostante la sua giovane età, feci una passeggiata in una contrada estiva in piena fioritura. Il poeta ammirava la bellezza della natura intorno a noi ma non ne traeva gioia. Lo turbava il pensiero che tutta quella bellezza era destinata a perire, che col sopraggiungere dell’inverno sarebbe scomparsa: come del resto ogni bellezza umana, come tutto ciò che di bello e nobile gli uomini hanno creato e potranno creare. Tutto ciò che egli avrebbe altrimenti amato e ammirato gli sembrava svilito dalla caducità cui era destinato. 

Da un simile precipitare nella transitorietà di tutto ciò che è bello e perfetto sappiamo che possono derivare due diversi moti dell’animo. L’uno porta al doloroso tedio universale del giovane poeta, l’altro alla rivolta contro il presunto dato di fatto. No! è impossibile che tutte queste meraviglie della natura e dell’arte, che le delizie della nostra sensibilità e del mondo esterno debbano veramente finire nel nulla. Crederlo sarebbe troppo insensato e troppo nefando. In un modo o nell’altro devono riuscire a perdurare, sottraendosi ad ogni forza distruttiva. 

Ma questa esigenza di eternità è troppo chiaramente un risultato del nostro desiderio per poter pretendere a un valore di realtà: ciò che è doloroso può pur essere vero. Io non sapevo decidermi a contestare la caducità del tutto e nemmeno a strappare un’eccezione per ciò che è bello e perfetto. Contestai però al poeta pessimista che la caducità del bello implichi un suo svilimento. 

Al contrario, ne aumenta il valore! Il valore della caducità è un valore di rarità nel tempo. La limitazione della possibilità di godimento aumenta il suo pregio. Era incomprensibile, dissi, che il pensiero della caducità del bello dovesse turbare la nostra gioia al riguardo. Quanto alla bellezza della natura, essa ritorna, dopo la distruzione dell’inverno, nell’anno nuovo, e questo ritorno, in rapporto alla durata della nostra vita, lo si può dire un ritorno eterno. Nel corso della nostra esistenza, vediamo svanire per sempre la bellezza del corpo e del volto umano, ma questa breve durata aggiunge a tali attrattive un nuovo incanto. Se un fiore fiorisce una sola notte, non perciò la sua fioritura ci appare meno splendida. E così pure non riuscivo a vedere come la bellezza e la perfezione dell’opera d’arte o della creazione intellettuale dovessero essere svilite dalla loro limitazione temporale. Potrà venire un tempo in cui i quadri e le statue che oggi ammiriamo saranno caduti in pezzi, o una razza umana dopo di noi che non comprenderà più le opere dei nostri poeti e dei nostri pensatori, o addirittura un’epoca geologica in cui ogni forma di vita sulla terra sarà scomparsa: il valore di tutta questa bellezza e perfezione è determinato soltanto dal suo significato per la nostra sensibilità viva, non ha bisogno di sopravviverle e per questo è indipendente dalla durata temporale assoluta. 

Mi pareva che queste considerazioni fossero incontestabili, ma mi accorsi che non avevo fatto alcuna impressione né sul poeta né sull’amico. Questo insuccesso mi portò a ritenere che un forte fattore affettivo intervenisse a turbare il loro giudizio; e più tardi credetti di avere individuato questo fattore. Doveva essere stata la ribellione psichica contro il lutto a svilire ai loro occhi il godimento del bello. L’idea che tutta quella bellezza fosse effimera faceva presentire a queste due anime sensibili il lutto per la sua fine; e, poiché l’animo umano rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso, essi avvertivano nel loro godimento del bello l’interferenza perturbatrice del pensiero della caducità. 

Il lutto per la perdita di qualcosa che abbiamo amato e ammirato sembra talmente naturale che il profano non esita a dichiararlo ovvio. Per lo psicologo invece il lutto è un grande enigma, uno di quei fenomeni che non si possono spiegare mai ai quali si riconducono altre cose oscure. Noi riputiamo di possedere una certa quantità di capacità d’amare – che chiamiamo libido – la quale agli inizi dello sviluppo è rivolta al nostro stesso Io. In seguito, ma in realtà molto presto, la libido si distoglie dall’Io per dirigersi sugli oggetti, che noi in tal modo accogliamo per così dire nel nostro Io. Se gli oggetti sono distrutti o vanno perduti per noi, la nostra capacità di amare (la libido) torna ad essere libera. Può prendersi altri oggetti come sostituti o tornare provvisoriamente all’Io. Ma perché questo distacco della libido dai suoi oggetti debba essere un processo così doloroso resta per noi un mistero sul quale per il momento non siamo in grado di formulare alcuna ipotesi. Noi vediamo unicamente che la libido si aggrappa ai suoi oggetti e non vuole rinunciare a quelli perduti, neppure quando il loro sostituto è già pronto. Questo dunque è il lutto. 

La mia conversazione col poeta era avvenuta nell'estate prima della guerra. Un anno dopo la guerra scoppiò e depredò il mondo delle sue bellezze. E non distrusse soltanto la bellezza dei luoghi in cui passò e le opere d'arte che incontrò sul suo cammino; infranse anche il nostro orgoglio per le conquiste della nostra civiltà, il nostro rispetto per moltissimi pensatori ed artisti, le nostre speranze in un definitivo superamento delle differenze tra popoli e razze. Insozzò la sublime imparzialità della nostra scienza, mise brutalmente a nudo la nostra vita pulsionale, scatenò gli spiriti malvagi che albergano in noi e che credevamo di aver debellato per sempre grazie all'educazione che i nostri spiriti più eletti ci hanno impartito nel corso dei secoli. Rifece piccola la nostra patria e di nuovo lontano e remoto il resto della terra. Ci depredò di tante cose che avevamo amate e ci mostrò quanto siano effimere molte altre cose che consideravamo durevoli. 

Non c’è da stupire se la nostra libido, così impoverita di oggetti, ha investito con intensità tanto maggiore ciò che ci è rimasto; se l’amor di patria, la tenera sollecitudine per il nostro prossimo e la fierezza per ciò che ci accomuna sono diventati d’improvviso più forti. Ma questi altri beni, ora perduti, hanno perso davvero per noi il loro valore perché si sono dimostrati così precari e incapaci di resistere? A molti di noi sembra così, ma anche qui, ritengo, a torto. Io credo che coloro che la pensano così e sembrano preparati a una rinuncia definitiva perché ciò che è prezioso si è dimostrato perituro, si trovano soltanto in uno stato di lutto per ciò che hanno perduto. Noi sappiamo che il lutto, per doloroso che sia, si estingue spontaneamente. Se ha rinunciato a tutto ciò che è perduto, ciò significa che esso stesso si è consunto e allora la nostra libido è di nuovo libera (nella misura in cui siamo ancora giovani e vitali) di rimpiazzare gli oggetti perduti con nuovi oggetti, se possibile altrettanto o più preziosi ancora. C’è da sperare che le cose non vadano diversamente per le perdite provocate da questa guerra. Una volta superato il lutto si scoprirà che la nostra alta considerazione dei beni della civiltà non ha sofferto per l’esperienza della loro precarietà. Torneremo a ricostruire tutto ciò che la guerra ha distrutto, forse su un fondamento più solido e duraturo di prima.

*Sigmund Freud, Vergänglichkeit, (1915), in Das Land Goethe 1914-1916, Stoccarda, 1916, trad. it. Caducità, (1915), in Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1989, pp 173-176.

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