Eracle. Le ambivalenze dell’eroe

“... poco avremmo a che fare con queste storie di dei, spesso estremamente complicate e incerte, tanto sono state trasformate dalla smemoratezza e dalla fantasia infinita e piacevole della nostra mente, poco avremmo a che fare con esse, se ciò che raccontano altro non fosse che la nostra stessa storia, anch'essa complicata e poco sicura, perché ogni esistenza umana è ugualmente piena di smemoratezza e di fantasia”. (Claude Mettra)
Eroe e semidio, Eracle appartenne alla generazione che precedette la guerra e la caduta di Troia e che affonda le sue radici a Creta e a Micene. Onnipresente nel tempo e nello spazio, il suo mito si espande da una riva all’altra del Mediterraneo, legittimando le imprese coloniali dei Greci grazie al suo perenne movimento e ai figli che lascia dietro di sé.
Narrato dai poeti, raffigurato sui vasi, nella pittura, nella statuaria, egli rinvia ora a valori eroici, ora al mistero del sacro, ora alla potenza del tragico o agli intrighi del comico. La sua figura attraversa i secoli, dalla Grecia arcaica fino alla modernità dove, in versioni più o meno semplificate e impoverite, conquista il cinema e le forme di cultura cosiddetta “popolare”. Reinventato da ogni epoca e nei diversi luoghi in funzione della cultura, della religione, dei modelli sociali, non sarebbe inesatto dire che esiste una pluralità di Eracli, non uno soltanto. Quale unità, quale coerenza cercare in colui che è insieme dio ed eroe, bruto e civilizzatore, invincibile e mortale, possente e asservito a un’altra volontà? Alcune di queste contraddizioni troveranno spazio nella giornata che gli dedichiamo, certi che il suo fascino immortale non cesserà di catturare, risvegliando nuovi modi di ascoltarne il mito.
(In collaborazione con la Comunità ellenica dell'Emilia Romagna e l'Università di Bologna, Dipartimento di Storia Culture Civiltà)

Approfondimenti
Angela Peduto: Eracle. Le ambivalenze dell’eroe
Aquilino*: Ritratto di Eracle da alcune fonti antiche
Agnès Cousin de Ravel: Misura e dismisura: da Don Juan a Caligola
Angela Peduto: Tra virilità e femminilità: un eroe dalla doppia natura?
Paola Angeli Bernardini: La donna e l’eroe nel mito di Eracle
Eracle. Le ambivalenze dell’eroe*
Angela Peduto
Chi è Eracle? Eroe virtuoso e civilizzatore? Predatore sessuale? Folle assassino? Nomade senza patria e senza radici? Fondatore di città? Avventuriero solitario e senza leggi? Schiavo del destino che gli è assegnato? Benefattore degli uomini? Modello di una virilità che associa sacrificio e valore, sofferenza e potenza?

Gli Dei sono nati dalle lacrime degli uomini; fu per consolarsi che gli uomini inventarono i miti. Perché gli Dei non erano che silenzio e opacità. Non avevano sguardo alcuno per l’estraneità della nostra condizione né provavano compassione per le nostre disgrazie. Le creature dovevano dunque costringerli a esistere pienamente e a manifestarsi; una sola via si offriva all’immaginazione umana: forgiare loro una storia perché potessero, come i viventi, essere inghiottiti dal tempo e dallo spazio e, come noi, essere attori e insieme spettatori del teatro feroce della vita e della morte.
(Claude Mettra, Mythes (besoin de), in Dictionnaire des Mythologies, a cura di Y. Bonnefoy, Flammarion, 1999, t. II, p. 146)

Eracle, figlio di Zeus, canterò, che, di gran lunga il più forte degli uomini,
generò a Tebe dalle belle danze
Alcmena, unitasi al Cronide dagli oscuri nembi;
Eracle, che dapprima, sulla terra infinita e sul mare,
errando agli ordini del re Euristeo,
molte cose inaudite compì egli stesso, e molte sofferse:
ma ora, nella bella dimora dell'Olimpo nevoso
vive lieto, e ha come sposa Ebe dalle belle caviglie.
Salve, signore, figlio di Zeus; concedimi valore e prosperità.
(Inno omerico XV, Càssola, F., Milano, Fondazione Lorenzo Valla, 1975)
Un corpo imponente, pronto al movimento, all’azione, al balzo, agile come quello di un predatore, abitato da una forza smisurata. Lo copre una pelle leonina, la celebre leontè: sono le spoglie del leone di Nemea, che ha strangolato con le braccia possenti e scuoiato con i suoi stessi artigli. Questa pelle, che è insieme alla clava il suo segno distintivo, addita il mondo ferino di cui è trionfatore ma di cui, anche, in qualche modo partecipa. Uccisore di bestie mostruose, qualcosa di bestiale, di indomabile, accompagna il tormentato corso della sua vita.
Nato dalla ierogamia di Zeus e della mortale Alcmena, Eracle ebbe due padri: Zeus, il padre divino e Anfitrione, sposo di Alcmena e padre terreno.
Tale fu il desiderio di Zeus per la bella e fedele Alcmena che il signore dell’Olimpo non si tramutò in cigno o toro o cuculo o pioggia d’oro ma si piegò alla forma umana e apparve ad Alcmena nelle vesti del suo sposo mortale. La collera di Era per l’adulterio fu smisurata e ne fece la nemica implacabile di quel figlio bastardo, che perseguitò con tutta la spietatezza di cui era capace.
Tutto è doppio in Eracle: duplice è la sua natura, umana e divina, due sono i padri, Anfitrione e Zeus, due le madri: la madre umana e la matrigna divina, Era, il cui nome Eracle porta peraltro inscritto nel proprio: Eracle vuol dire infatti “gloria di Era”.
Eroe e semidio, appartenne alla generazione di Teseo, Orfeo, Giasone e gli Argonauti, quella che precede la guerra e la caduta di Troia e che affonda le sue radici a Creta e Micene. Onnipresente nel tempo e nello spazio, il suo mito si espande da una riva all’altra del Mediterraneo, legittimando le imprese coloniali dei Greci grazie ai molti figli nati dal suo seme.
In perenne movimento, egli passa senza mai arrestarsi, se non il tempo di fecondare le donne indigene per fondare una nuova discendenza. Cantato dai poeti, raccontato dai commediografi e dai tragici, è rappresentato sui vasi, nella pittura, nella statuaria, per rinviare, attraverso parole e immagini, ora a valori eroici, ora al mistero del sacro, ora alla potenza del tragico o agli intrighi del comico. La sua figura attraversa i secoli. In Grecia dall’età arcaica transita verso il periodo ellenistico, poi se ne appropriano i Romani, che lo chiamano Ercole, non lo ignora il cristianesimo, tanto da assimilarlo a Cristo per la natura umana e divina, per il bene fatto all’umanità, per la vita che si conclude con l’apoteosi. Attraversa il Medioevo, che lo prende a simbolo delle più alte virtù, giunge ai trionfi rinascimentali, dove la sua divina ascendenza gli vale il posto di antenato dei sovrani e dei principi europei, adatto a legittimarne il potere e celebrarne il valore. Approda infine alla modernità dove, in versioni più o meno semplificate e impoverite, conquista il cinema e le forme di cultura cd. “popolare” (i videogiochi, i fumetti). Reinventato da ogni epoca, in ogni luogo, in funzione della cultura, della religione, dei modelli sociali, non sarebbe inesatto dire che esiste una pluralità di Eracli, non uno soltanto.
Quanto alla sua personalità, le ambivalenze ne fanno una figura per la quale sarebbe vano cercare un’unità o una coerenza.
Torniamo all’Eracle greco, l’eroe indomito e grandioso. Fu senza dubbio il più spaventoso distruttore di mostri che la Grecia abbia mai conosciuto: liberando il mondo da simili creature, egli fu l’eroe civilizzatore, colui che rese il mondo abitabile e lo preparò per gli esseri umani. Poiché le sue imprese lo spinsero da un capo all’altro del mondo conosciuto, fino ai suoi limiti estremi e ancora oltre, egli fu anche eroe viaggiatore. Si avventurò fino all’estremo nord, inseguendo la cerva dalle corna d’oro, fino al favoloso paese degli Iperborei. A occidente, oltrepassò lo stretto che separa il Mediterraneo dall’immenso inospitale Oceano, e qui eresse due colonne come segno del suo passaggio e come limite per gli umani. Si mosse poi più lontano, verso il sole morente e il leggendario giardino delle Esperidi, dove lottò con l’”immane serpente” che stava a guardia del prezioso albero dai frutti d’oro.
A oriente, oltre le montagne e le steppe, raggiunse il paese delle Amazzoni, che erano migrate nelle terre di Scizia dai lontani monti del Caucaso.
Il suo destino eccezionale gli ingiunse la conoscenza del regno dei morti: trascinò Cerbero fuori dall’Ade, liberò Teseo, sottrasse alle tenebre Alcesti. Scese nell’abisso del nulla senza esserne inghiottito.
E poi conobbi la grande forza d’Eracle,
ma la parvenza sola: lui tra i numi immortali
gode il banchetto, possiede Ebe caviglia bella,
figlia del grande Zeus e d’Hera sandali d’oro.
Intorno a lui stridio di morti come d’uccelli
dappertutto fuggenti; simile a notte buia,
nudo l’arco teneva e il dardo sul nervo,
terribilmente girando gli occhi, sempre pronto a scoccare;
pauroso intorno al petto, a regger la spada,
scendeva un balteo d’oro, dov’eran scolpite gesta tremende:
orsi selvaggi e cinghiali, leoni occhi di bragia,
e mischie e battaglie e massacri d’eroi.
Nemmeno con tutta l’arte potrebbe rifarne uno simile
chi lavorò con la sua arte quel balteo.
Mi riconobbe subito, appena mi vide con gli occhi,
e gemendo parole fugaci diceva:
– Divino Laerziade, accorto Odisseo,
ah misero, che triste sorte trascini anche tu,
come io trascinavo sotto i raggi del sole.
Ed ero figlio di Zeus Cronide, ma pianto
senza mai fine avevo: a un uomo molto inferiore
dovevo servire, e m’ordinava penose fatiche.
Un giorno quaggiù mi mandò, a prendergli il Cane: niente
pensava sarebbe mai stato più grave di questa fatica!
ma glielo portai, lo tirai fuori dall’Ade:
Ermete mi fu guida, e Atena occhio azzurro -
Così detto, rientrò nella casa dell’Ade.
(Odissea, libro XI, vv. 601-627, ed. Einaudi, trad. Rosa Calzecchi Onesti)
Eroe dei giovani, degli illegittimi, fondatore dei giochi olimpici, pioniere ed esploratore, celebrato dai filosofi per i quali incarnò l’ideale della forza al servizio della virtù e del bene, in verità non fu sempre dissimile dalle bestie selvagge con le quali si cimentò: violento e senza limiti, feroce come le fiere che cadono sotto i suoi colpi, posseduto da potenti appetiti carnali, eccessi e dismisura accompagnano il suo destino, fino alla dismisura suprema, quella follia che lo porta a macchiarsi del delitto più orribile: l’uccisione della moglie e dei figli.
Alla stregua del suo formidabile appetito, anche la sua sessualità, insieme alla sua capacità di procreare, non conosce limiti e il suo desiderio può essere brutale, come quando, per prendersi la bellissima Iole che gli viene negata dal padre e dai fratelli, li uccide e mette a ferro e fuoco la città di Ecalia.
Perfino l’espressione del suo dolore alla notizia della morte dell’amato Ilo, durante il viaggio degli Argonauti, è spettacolare. Debordante.
Infelice, io per primo ti darò un dolore terribile,
Ilo è andato alla fonte e non ritorna
salvo: o lo hanno rapito i briganti o lo sbranano
le fiere: io ho sentito il suo grido”.
Così disse, e all’udirlo, colava copioso sudore
dalle tempie di Eracle, e nero sangue bolliva nelle sue viscere.
In preda al furore scaraventò l’albero a terra,
e corse lungo la strada, dove lo conducevano i piedi.
Come il toro punto dall’assillo abbandona prati e paludi,
e si butta in avanti senza darsi pensiero di pecore né di pastori,
e fa la sua strada instancabile, ma poi alle volte
s’arresta, e levando il vasto collo muggisce
sotto il tormento dell’assillo spietato,
così, infuriato, Eracle ora muoveva senza riposo
le veloci ginocchia, ora cessava dalla fatica,
e mandava lontano la sua penetrante, terribile voce.
(Argonautiche, Apollonio Rodio, libro I, vv. 1257-1272, ed. BUR, trad. di Guido Paduano)
Intemperante e generoso, capace di sacrifici estremi e di accessi di furore, Eracle non appare immune dalla hybris. Non esita a infrangere le leggi dell’ospitalità o le leggi sacre – viola Auge, sacerdotessa di Atena, uccide perfidamente Ifisto, che è suo ospite, compie atti sacrileghi, provoca più volte l’ira degli dei. Zeus sarà costretto a punirlo ed egli verrà venduto come schiavo a Onfale, la regina di Lidia: tre anni di servitù durante i quali si abbandona, insieme alla sua amante, alle delizie e alle trasgressioni della bisessualità.

Avvolto in sontuosi abiti femminili, profumato, adorno di gioielli, dimentico della clava e della leontè, di cui invece si riveste Onfale, passa il tempo a tessere e filare.
Chi è, dunque, Eracle? Eroe virtuoso e civilizzatore? Predatore sessuale? Folle assassino? Nomade senza patria e senza radici? Fondatore di città? Avventuriero solitario e senza leggi? Schiavo del destino che gli è assegnato? Benefattore degli uomini? Modello di una virilità che associa sacrificio e valore, sofferenza e potenza?
Certo è che egli vive costantemente alla frontiera instabile tra natura e civiltà, tra caos e cosmos, sempre in pericolosa prossimità del limite, impegnato senza tregua a dominare la forza perché non diventi forza bruta di distruzione ma si trasformi in energia creatrice: a lui è assegnato il terribile compito di creare ordine in un mondo da cui continuano a erompere le forze del caos, quelle da cui lui stesso talvolta è posseduto. E nel suo costante oscillare tra lato umano e lato divino, tra empietà, eccessi e virtù, egli disegna i limiti dell’ordine ideale che Zeus, il padre divino, ha stabilito e che lui è chiamato a restaurare o difendere.

In questa complessità di elementi un aspetto colpisce particolarmente: tutte le imprese di Eracle sono fatiche imposte. Per lunghi anni è al servizio del cugino Euristeo, crudele o codardo a seconda della versione trasmessa. Ogni volta esegue un compito che non solo è smisurato – dunque eroico nel senso nobile del termine -, ma può anche essere laido e immondo - e dunque servile -, come quando si tratta di pulire le stalle di Augia. Questo compito accetta senza mai tentare di sottrarsi. Nel mondo greco l’esperienza della servitù non è estranea a Dei o ad eroi (Apollo servì Admeto per un anno come punizione per aver ucciso coi suoi dardi i Ciclopi; Poseidone, insieme ad Apollo, lavorò per erigere le mura di Troia) ma se per altri è soltanto accidentale e transitoria, nel cammino di Eracle riveste un ruolo centrale.
Eroe destinato a perfezionare l’ordine di un mondo assillato da creature del disordine, Eracle è piena espressione del ponos, che associa sofferenza e lavoro. Solo grazie allo sforzo doloroso cui non cessa di sottomettersi, egli può affrontare ciò che resta del caos delle origini perché si affermi il cosmos, quell’ordine razionale che già anticipa il noùs, l’intelletto, dei filosofi che verranno. Questo fa di lui un eroe culturale, condannato all’erranza e al tormento nel lungo cammino che è insieme iniziazione personale e fondazione del mondo, senza poter trovare riposo se non nella morte. Euripide ne farà un eroe tragico e porrà, non all’inizio, ma alla fine delle sue fatiche, la caduta nella follia, quando, sopraffatto dalle forze del caos, si macchierà del crimine peggiore. Nessuna espiazione sarà concessa all’eroe trionfatore, nessun riscatto, se non l’accettazione della colpa, mitigata dalla pietà dell’amico Teseo: così Euripide farà del figlio divino il più umano degli eroi.
*Relazione introduttiva alla giornata di studio (Ri)accendiamo il classico 2024, sesta edizione.
Ritratto di Eracle da alcune fonti antiche
Aquilino*

Avendo da preparare due incontri sull’“Eracle” di Euripide e avendo iniziato a scrivere “Il romanzo di Eracle”, mi sono presto reso conto di quanto sia sfuggente un personaggio presentato nei modi più contraddittori. Ne hanno fatto il protagonista di opere epiche, eroiche, tragiche, comiche, moralistiche, filosofeggianti, fantasy. Figura altamente tragica nelle “Trachinie” di Sofocle, si fa personaggio ambiguo nell’“Eracle” di Euripide, e diventa macchietta negli “Uccelli” e nelle “Rane” di Aristofane e in tante commedie attiche, fino a trasformarsi nel culturista innamorato del cinema mitologico e nel pupazzo supereroico dei libri per ragazzi.
Insignito di scarsi onori nella vita turbolenta [qualcuno lo rifiuta], non si fa re né accumula potere e ricchezze. Ma il culto popolare si diffonde nei paesi più lontani. Sfortunato e insoddisfatto negli amori, disfa da sé quello che non scioglie il destino, perdendo le donne e i giovani compagni. Gli resta l’amato nipote Iolao, che dopo la sua morte ne continua l’opera in Sardegna. Un’icona della hybris? Un campione di aretè? Una vittima di adikia? Un adepto di metis o solo un forzuto? Un eroe dal nostos impossibile? Un uomo senza timé che ha di continuo bisogno di purificarsi? Un meteco per tutti, forse, in cerca di tiche. Il che equivale a dire: un solitario che non mette radici, un vagabondo nei meandri di un destino implacabile, un asociale di circostanze e non d’elezione, un infelice che condivide la precarietà dell’uomo comune.
Da dove cominciare per un’idea di personaggio e di ambientazione? Dalla mitologia, certo. Ma anche dai Micenei. I Micenei conquistatori di Creta o quelli che si avviano al crepuscolo del medioevo ellenico?
Il riferimento più forte nel mito di Eracle che lo agganci alla realtà storica è il suo assalto a Troia quando ha come re il predecessore di Priamo, Laomedonte. La questione eraclea si lega quindi alla questione troiana. Per procedere, occorre fare delle scelte. E spesso le scelte si basano sui compromessi. Prendo per buona la data di Eratostene [1193-1184], confronto diverse cronologie, considero i rapporti di Eracle con Teseo ... e fisso la data di nascita e di morte. Si tratta di un romanzo, non di un saggio. Mi è consentito andare a spanne e inventare, quando la documentazione è scarsa o inattendibile o mancante. Questo individuo che faccio morire a 57 anni... chi è? Coevo di Pelope, Orfeo, Giasone, Teseo, Atreo, Medea ... precede la gloria dei grandi eroi troiani, ma anche la disfatta non solo di Troia, ma di tutta una civiltà. Gran parte della letteratura che lo riguarda è impegnata a raccordare fra loro imprese ed episodi secondari, viaggi reali e immaginari, comportamenti realistici e altri inverosimili. Insomma, si tratta di storie. Ma il protagonista di queste storie chi è? Gli si può togliere la pelle del leone ucciso e rivestirlo con abiti umani? Continuo la mia ricostruzione di Eracle come “personaggio” con una ricerca tra alcune fonti classiche. Al di là del racconto in sé, che cosa hanno scritto di lui come persona? Ecco il senso di questo “ritratto” ancora inesistente. Non ho preso in considerazione i drammaturghi, dato che ognuno di loro si è costruito il proprio personaggio. Mitografi, geografi e storiografi a volte forniscono sfumature importanti, che guidano nella scelta dei caratteri. Ecco le opere consultate:
Iliade – VIII sec. a.C.
Odissea - VIII sec. a.C.
Esiodo, Lo scudo di Eracle, Catalogo delle donne – VIII-VII sec. a.C. Inno omerico XV – VII-VI sec. a.C.
Bacchilide, Epinici – VI-V sec. a.C.
Pausania, Viaggio in Grecia – V sec. a.C.
Tucidide, Le storie – V sec. a.C.
Pindaro, V sec. a.C.
Erodoto, Storie – V-IV sec. a.C.
Senofonte, Elleniche – V-IV sec. a.C.
Teocrito, IV-III sec. a.C.
Apollonio Rodio, Argonautiche – III sec. a.C.
Pseudo-Apollodoro, Biblioteca – II sec. d.C.
Diodoro Siculo, Biblioteca storica – I sec. a.C.
Luciano di Samosata, Dialoghi dei morti [Diogene ed Eracle] – II sec. d.C. Argonautiche orfiche – IV-V sec. d.C.
Figlio di dio in conflitto con il piano provvidenziale
Eracle è figlio di Zeus e di Alcmena [“che per la maestà e per la bellezza vinceva tutte quante le donne”, Esiodo, ‘Lo scudo di Eracle’] che è nipote di Perseo, figlio di Zeus e di Danae. Quindi Eracle discende da Zeus per parte sia di padre che di madre. Meglio della ierogamia egiziana in cui il dio assume le sembianze del faraone per fecondare la regina.
Egli è l’ultimo eroe-semidio generato da Zeus, che con lui intende chiudere una fase dell’umanità [la preistoria] e aprirne un’altra [la storia]. Vive infatti nell’età del bronzo che segna il distacco dal neolitico e, dopo una crisi mondiale che vede scomparire o declinare grandi civiltà come quella minoica, micenea, hittita, egizia... vede sorgere l’età greca dei poeti, dei tragediografi, dei filosofi, degli scienziati e dei politici all’ombra dell’Olimpo stabilizzatosi nella cerchia dei dodici dei.
Così la mitologia greca: ma Erodoto ci fa sapere che in Fenicia, al suo tempo, Eracle è presente da più di duemila anni, come testimoniano i sacerdoti del suo santuario a Tiro; mentre un altro santuario sull’isola di Taso è stato fondato dai figli di Agenore partiti alla ricerca di Europa. E in Egitto Eracle è uno dei dodici dei, molto anteriore a quello ellenico. Noi, però, seguiamo le storie elleniche.
Simile all’orientale “signore degli animali”, sciamano in contatto con le acque e con il sole, Eracle, la cui missione è uccidere i mostri e combattere gli uomini iniqui, si sacrifica per il bene comune contribuendo al progresso mediante la diffusione delle leggi e delle tecniche agricole e la fondazione delle città. Tuttavia, l’odio di Era che lo spinge alla follia e la sottomissione ad ananke, la necessità, consistente nel suo caso nell’obbedienza a un uomo inferiore che lo ha defraudato del regno solo grazie a un inganno, lo pongono in conflitto con l’autorità divina. Più volte toccato dalla follia per opera di Era, compie azioni da irresponsabile: uccide i figli, uccide Ifito, ruba il tripode di Apollo, lotta contro gli dei... Un Sansone miceneo strumento della volontà divina [“Allora lo spirito del Signore lo investì ed egli scese ad Ascalon e vi uccise trenta uomini” – Giudici 14]. Sansone concepito per intervento celeste, che uccide un leone a mani nude, viene sconfitto da una donna [Dalila-Deianira] e provoca da sé la propria morte; ma più cupo e perfino più sanguinario dell’eroe tebano.
Eracle china il capo e accetta di affrontare le Fatiche. Chiede di vedere il proprio padre, ci narra Erodoto, ma Zeus si nega. Salvo poi convocarlo quando ne ha bisogno. E così Eracle soccorre gli dei contro i Giganti, salvando quelli che lo perseguitano. Lo assiste Atena, mentre Trittolemo, incaricato di diffondere l’arte dell’agricoltura, gli rivela i sacri misteri di Demetra e Core.
Personalità complessa e contraddittoria, l’eroe è alla fine sconfitto da sé stesso, poiché a causa delle intemperanze, connaturate alla sua diversità eroica, va incontro a una morte orribile che risolve con il suicidio. Da sé stesso, quindi, distrugge la propria forma umana per essere assunto in cielo tra gli dei: la gloria e il conseguimento della stabilità [il matrimonio con Ebe] come rogo della propria umanità.
Dice Zeus: “Ascoltatemi, o dei tutti, e voi tutte o dee, ch’io dica quello che il cuore m’ordina in petto: oggi Ilizia strazio del parto farà apparire un uomo che regnerà su tutti i vicini, della stirpe degli uomini che vengono dal mio sangue” - Iliade XIX.
“A mortal che di me valea men tanto,
forza mi fu obbedir: costui m’ingiunse
dar mano a imprese oltre ogni creder forti” - Odissea XI.
“Zeus gli inviò l’ordine di mettersi al servizio di Euristeo ed Eracle, recatosi a Delfi e interrogato il dio sulla questione, ricevette un responso il quale gli rivelava che dagli dei era stato deciso che egli compisse dodici fatiche secondo gli ordini di Euristeo, e che ciò fatto avrebbe ottenuto l’immortalità. Dopo questi avvenimenti, Eracle cadde in uno stato di scoraggiamento non comune. Infatti, non giudicava in alcun modo degno del proprio valore il fatto di servire una persona più vile, ma gli pareva svantaggioso e impossibile non obbedire a Zeus, che era suo padre” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica, IV.
“Eracle voleva assolutamente vedere Zeus, nonostante che quest’ultimo non volesse essere visto da lui. Ma Eracle insisteva; e Zeus ricorse infine a questo espediente. Scorticò un ariete, ne tagliò la testa e la tenne dinanzi a sé. Ne rivestì il vello e si presentò così a Eracle” – Erodoto, Storie II.
“Nemmeno la forza d’Eracle poté sfuggire la Chera, eppure era carissimo al sire Zeus Cronide; ma lo domò il destino e l’ira cruda d’Era” - Iliade XVIII.
“Trittolemo rivelò i sacri misteri di Demetra e Core tra gli stranieri per primo ad Eracle” – Senofonte, Elleniche VI.
“Eracle compì molte imprese terribili, e patì molti mali; ma ora, nella bella casa dell’Olimpo nevoso, vive sereno, e ha in sposa Ebe dalle belle caviglie” - Inno omerico XV.
Assunto in cielo, diventa un dio ed è oggetto di culto
Prodico di Ceo nella famosa favola “Eracle al bivio”, parafrasata da Senofonte, presenta un Eracle adolescente che tra due donne in cui s’imbatte sceglie quella che rappresenta il Dovere, o la Virtù, e non l’altra del Piacere, o Vizio. Aneddoto di grande fascino per i moralisti dei secoli successivi [Prodico è del V sec. a.C.] che hanno riformulato Eracle mettendo da parte gli stupri, i rapimenti, i massacri e le distruzioni. Ma, per il popolo, Eracle non significa tanto il Dovere, quanto un sogno di potere. Potere di esplorare il mondo, di dominare la natura, di detronizzare i potenti, di sconfiggere mostri ed eserciti; potere di sconfiggere anche la morte con l’assunzione in cielo e la possibilità di una vita eterna gratificante; e, perché no, di amare chi si vuole, di essere chi si vuole: libertà di genere, insomma, come auspicavano i sacerdoti vestiti da donna in alcuni suoi santuari. Potere, in conclusione, non come dominio sugli altri e accumulo di ricchezze, ma come libera espressione di sé e libera crescita verso l’immortalità. Un potere che si rifletteva perfino sugli schiavi, come ci racconta Erodoto riguardo all’Eracle egizio, che nei propri santuari offriva asilo ai perseguitati.
Ma perché Eracle è stato tanto convincente? Perché ha sofferto da uomo qualunque. Ha faticato sempre, è stato toccato da tragedie immani, ha perso la ragione, ha avuto episodi di stravizio, è stato eccessivo, perfino spietato, ma anche sensibile e affettuoso, ha portato in sé tutte le contraddizioni che contraddistinguono l’uomo.
Infine, Eracle è anche il mistero dell’uomo che si fa dio e che è nel cosmo come ceneri mortali sulla terra, come dio in cielo e come ombra nell’aldilà. L’uomo-dio fa anche i miracoli. Può̀ perfino affrontare gli altri dei, minacciare Helios, combattere contro Apollo e sconfiggere Ares.
“Essendo troppo scaldato dal Sole nel suo viaggio, tese il suo arco contro il dio che in ammirazione del suo coraggio, gli diede un calice d’oro nel quale lui attraversò l’oceano [...] Quando la pira fu tutta bruciata, dicono che una nube sollevò Eracle, e fra tuoni e fulmini lo portò in cielo” – Pseudo-Apollodoro, Biblioteca II.
“Sotto la mia lancia tre volte [Ares] toccò la terra avendogli io colpito lo scudo; alla quarta lo colpii alla coscia e largamente ferii la sua carne; cadde a terra con la testa avanti nella polvere sotto l’impeto della mia lancia; là, di fronte agli Immortali, subì ben triste scorno, e lasciò nelle mie mani le sue spoglie sanguinose” - Esiodo, Lo scudo di Eracle.
“Dicono che Eracle abbia deposto la clava e questa, che era di oleastro, si radicò nella terra e, lo creda chi vuole, rigermogliò e l’oleastro è qui ancora oggi [...] Qui [Metana di Trezene] c’è un santuario di Iside e, nella piazza, una statua di Ermes, e un’altra di Eracle [...] Lì presso c’è la statua lignea di Eracle, nudo, che i Corinzi affermano sia frutto dell’arte di Dedalo [...] Qui c’è anche un Eracle di bronzo [...] Nel ginnasio è dedicata una statua in pietra di Eracle, opera di Scopa. Di Eracle c’è un santuario... [...] Nel frontone ci sono un Eracle... [...] A Hyettos c'è un tempio di Eracle, dal quale gli ammalati traggono giovamento” - Pausania, Viaggio in Grecia II.
“Se uno è in cielo e tu qui con noi sei l’ombra e il corpo già si è sciolto in cenere, son tre” - Luciano di Samosata, Dialoghi dei morti, Diogene ed Eracle.
“Ora egli è ormai un dio, ed è uscito fuori da tutti i malanni [...] Era, ora, lo ama e lo onora, al di sopra degli altri immortali, dopo il solo Cronide onnipossente [...] Sull’Olimpo pieno di neve, tra gli dei beati, vive lontano da ogni malanno e da ogni tristezza in eterno, immortale e senza vecchiaia” - Esiodo, Il catalogo delle donne.
“Quando i compagni di Iolao andarono a raccogliere le ossa e non ne trovarono traccia, reputarono che Eracle, conformemente ai responsi oracolari, fosse passato dal mondo degli uomini a quello degli dei [...] Poiché il favore nei confronti del dio era comune a tutta la popolazione, ai liberi e agli schiavi, insegnarono anche ai servi a onorare in privato il dio [...] ... gli sacrificò come a un eroe un cinghiale, un toro e un ariete, introducendo a Opunte sacrifici e onori per Eracle. Una cosa analoga fecero anche i Tebani; gli Ateniesi furono i primi tra tutti gli altri a onorare con sacrifici Eracle come un dio... indussero tutti quanti gli uomini sulla terra abitata...” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica.
“... per quella giornata infatti si dava il caso che celebrassero una festa con sacrifici in onore di Eracle” - Tucidide, Le storie, VII 73 [spedizione in Sicilia, Siracusa].
“Gli dei venerati dagli Sciti sono: Istia, Zeus, la Terra, Apollo, Afrodite Celeste, Eracle ed Ares” – Erodoto, Storie IV.
“In Egitto, nella regione dov’è il ramo del Nilo ora detto di Canopo... c’era su questa spiaggia, e c’è ancora, un santuario di Eracle. Se il servo di chicchessia vi si rifugia, s’imprime le stigmate sacre e si offre al Dio, non è più lecito toccarlo” – Erodoto, Storie II.
Una personalità complessa
Nella nostra cultura Eracle è conosciuto come Ercole il forzuto. Ne hanno fatto un bambolotto muscoloso, prendendo in considerazione solo alcuni aspetti minimi del suo mito. Grande successo ha avuto infatti l’episodio infantile dell’uccisione dei serpenti di Era. Angelo Brelich, ne “Gli eroi greci”, Adelphi, ci presenta i caratteri tipici dell’eroe. Eccone una sintesi: gigantismo; teriomorfismo [assumere forme animalesche]; androginismo e transessualità; imperfezioni fisiche: zoppia, cecità...; iperfagia e ubriachezza; appetito sessuale: rapimento di donne, violenza carnale, incesto, pederastia; fatti di sangue: omicidi pianificati, per rabbia, involontari; avventurismo, pirateria, guerra; sacrilegio ed empietà; inganno e furto; follia; conflitto tra fratelli [gemelli]; assunzione dei caratteri dell’avversario ucciso [la pelle di leone]; polarizzazione [il vincitore è buono, lo sconfitto è cattivo e mostruoso]; hybris [disconoscimento dei limiti]. Che ne dicono i nostri autori? Per Apollodoro era poco più alto della media e non era un gigante come scritto da altri. Apollonio Rodio ci racconta che aveva più autocontrollo dei compagni argonauti e della saldezza dei nervi ci testimonia anche Diodoro Siculo. Luciano di Samosata deride il suo travestitismo alla corte della regina Onfale, ma altri ci dicono le sue sincere pene d’amore. Eracle distruttore e omicida, alcuni lo dicono stupratore, ma anche affabile, cordiale, amato e rispettato dalla gente. E la sua tracotanza? È stato lui, ci dice Pindaro, a porre dei limiti all’uomo, erigendo le colonne ai confini del mondo umano. Folle è chi supera tali confini!
La forza e la statura
“Eracle li affrontò, stringendo entrambi
nella morsa pesante delle mani, prendendoli alla gola, che è la sede
del mortale veleno dei serpenti portatori di morte, detestato
perfino dagli dèi. Quelli frattanto
circondarono entrambi con le spire
quel bimbo nato tardi, ancora a balia,
che non piangeva mai, ma poi di nuovo
lo scioglievano vinti dallo sforzo,
cercando in tutti i modi di sottrarre
la schiena dalla stretta inesorabile [...]
Levarono un grido di stupore
quando Eracle lattante apparve loro
con le due bestie saldamente strette nelle tenere mani. Sollevava
verso il padre Anfitrione quei serpenti
e saltava di gioia allegramente
e i mostri orrendi nel mortale sonno
pose ridendo ai piedi di suo padre” - Teocrito, Idilli.
“Il suo aspetto rivelava chiaramente che era figlio di Zeus: era grande quattro cubiti e negli occhi gli brillava il fulgore del fuoco” - Apollodoro, Biblioteca II. Cubito = 0,462 m, quindi era alto 1,85.
“[In Scizia] viene mostrata un’impronta del piede di Eracle, che si trova su di una roccia: somiglia all’orma di un piede d’uomo e ha l’ampiezza di due braccia. Si trova presso il fiume Tyra” – Erodoto, Storie IV.
“A Eracle come premio del pancrazio un cratere d’argento tutto cesellato” - Argonautiche orfiche. [Pankratios, tutto potenza, ammesso tutto meno mordere e accecare, lotta e pugilato insieme].
“Non essendo soddisfatto della bevanda che gli venne data, Eracle colpì alla testa con un solo dito Ciato, il ragazzo che faceva da coppiere a Eneo. Quello, per il colpo ricevuto, morì all’istante e i Fliasii hanno a suo ricordo un edificio in cui sono delle statue di pietra che rappresentano Ciato che tende la coppa a Eracle [...]
Epidauro: Salendo sul monte Corifeo, lungo la strada si trova una pianta d’ulivo detta Strepte [ritorta]: il nome è dovuto al fatto che Eracle la attorcigliò con una mano” - Pausania, Viaggio in Grecia II.
“Allora Eracle con la sola forza delle braccia trascinò tutti i compagni sfiniti, facendo gemere le tavole compatte della chiglia [...] Nel fendere con colpi vigorosi il mare in tempesta, spezzò il remo [...]
Depose a terra la faretra colma di frecce e l’arco, e si spogliò della pelle di leone; con la clava di bronzo, peso immane, squassò l’albero alla base del ceppo, e afferrò poi il tronco con ambedue le mani, sicuro della propria forza, appoggiandovi le larghe spalle e aderendovi con le gambe divaricate: lo divelse dal suolo con tutte le lunghe radici e le zolle di terra” - Apollonio Rodio, Argonautiche I.
La distruzione
“Eracle distruggitore di città” – Esiodo, Catalogo delle donne.
“L’eroe invincibile distruttore di rocche” - Bacchilide, Epinici V.
“Piombato all’improvviso sulla città degli Orcomeni, fece irruzione dentro le porte, bruciò la reggia dei Mini e rase al suolo la città” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica, IV.
La follia
“Era gli mandò un furore; egli, inquieto nello spirito, cadde in uno stato di follia” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica, IV.
“Ora al confine estremo
Théron approda, e da meriti propri
sbarca alle colonne
di Eracle. Oltre è precluso a saggi
e non saggi. Io non voglio provarci.
Sia folle, prima!” – Pindaro, Olimpiche III.
L’ingordigia
“Sciolse uno dei due tori dal carro di un mandriano, lo sacrificò, e se lo mangiò a banchetto. Il mandriano altro non poté fare che scapparsene sulla cima di un monte, e maledire Eracle da lontano. In ricordo di quell’episodio, gli abitanti di Lindo compiono i sacrifici a Eracle pronunciando maledizioni” - Apollodoro, Biblioteca II.
La bisessualità
“O eroe Iolao che io amo sopra tutti i mortali” - Esiodo, Lo scudo di Eracle.
Ila, addentratosi sulla terraferma, non torna: “...e il nero sangue bolliva nelle viscere; prese a correre dove lo portavano i piedi nel suo impeto, a caso. Come infuria il toro quando è punto dal tafano, e va per la sua strada ora senza sosta, ora fermandosi, e alzando il largo collo leva muggiti, afflitto dal doloroso assillo, così l’eroe smaniando ora muoveva rapidamente i veloci ginocchi, ora arrestava la corsa affannosa e lanciava alte grida che si perdevano lontano” - Apollonio Rodio, Argonautiche I.
“Asclepio. Dici bene, che io ti sanai le scottature, quando testé mi venisti innanzi mezzo arrostito, che ti si erano attaccate addosso e la tunica e il fuoco. Io almeno non fui servo, come te, non filai lana in Lidia, vestito di porpora e battuto da Onfale col sandalo ricamato d’oro; io non mai venni in tanto furore da uccidere figliuoli e moglie” - Luciano di Samosata, Dialoghi degli dei.
“Spinto dal desiderio del fanciullo,
Eracle si muoveva tra gli spini
mai calpestati, percorrendo tutto
un vasto tratto. Poveri gli amanti!
Quanto penò vagando per i monti
e le boscaglie!” - Teocrito, Idilli.
“Un po’ distante dalla città di Dyma c’è, sulla destra della strada, il santuario di Sostratos. Era un giovane del luogo, amato, dicono, da Eracle, che alla sua morte gli innalzò una tomba e gli offrì una ciocca di capelli della sua testa come primizia votiva. Anche oggi c’è una lastra sulla cima di un monte, con una figura di Eracle a rilievo. Ho già detto che la gente del luogo sacrifica anche a Sostratos come a un eroe” – Pausania, Viaggio in Grecia VII.
La seduzione
“Eracle sedusse Auge [...] Suo padre Aleo la consegnò a Nauplio, il figlio di Posidone, perché la vendesse in una contrada straniera” - Apollodoro, Biblioteca II.
L’autocontrollo
Donne di Lemno: “... e gli altri ciascuno nella casa in cui la sorte lo condusse; ma Eracle volle restare presso la nave. Ben presto tutta la città, piena di grasso fumo, si abbandonò a un tripudio di danze e di banchetti” - Apollonio Rodio, Argonautiche I, 854.
“Chi combatteva contro tale bestia doveva avere una così grande superiorità su di essa da cogliere con precisione il momento opportuno al culmine dello scontro; infatti, se l’avesse lasciata andare quand’era ancora forte avrebbe corso pericolo per via delle sue zanne, mentre attaccandola con maggior forza del necessario l’avrebbe uccisa, cosicché la Fatica sarebbe rimasta incompiuta” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica, IV.
La cordialità
Sicilia: “Trattando familiarmente gli uomini che lo onoravano, lasciò presso di loro ricordi imperituri della propria venuta” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica 24.
La modestia
“Nessuno dia a me questo onore; non lo voglio” - Apollonio Rodio, Argonautiche I.
Olimpiadi: “Stabilì che il premio fosse una corona, poiché anch’egli beneficò il genere umano senza ricevere alcuna mercede” - Apollonio Rodio, Argonautiche.
La sagacia
“L’inventiva non gli fu meno utile della forza fisica; [...] senza violenza e senza pericoli, con la sagacia dello spirito portò a termine questa Fatica” [cerva] - Diodoro Siculo, Biblioteca storica, IV.
L’orgoglio
“Eracle rifiutò di trasportarlo fuori sulle spalle [letame], per evitare la vergogna derivante da quell’ordine oltraggioso [...] Compì l’ignobile ordine senza vergogna, senza dover sopportare nulla che fosse indegno dell’immortalità” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica, IV.
La compassione
Piange per Meleagro nell’Ade: “Il figlio di Anfitrione impavido in guerra bagnò di lacrime gli occhi, compatendo il doloroso destino dell’uomo, e in risposta gli disse: - Per le creature mortali non essere è la cosa migliore, né mai vedere la luce del sole” - Bacchilide, Epinicio V.
“Quando a stento si fu liberato della propria follia e venne a conoscenza dell’errore commesso nell’incoscienza, fu vivamente addolorato per la grandezza della propria sventura; e mentre tutti erano partecipi del suo dolore e del suo lutto, per molto tempo se ne stette tranquillo in casa evitando rapporti e incontri con le persone” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica, IV.
“Quando Eracle lo vide sofferente per questa punizione per il dono che aveva fatto agli uomini, uccise l’aquila con una freccia e dopo aver persuaso Zeus a cessare dalla sua ira, salvò Prometeo che era il benefattore di tutti” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica IV.
L’eroe che plasma il territorio e la società
Ciò che stupisce è come la complessità di Eracle [dalle origini extraelleniche alle contraddizioni, dalla dimensione umana a quella divina, dalla missione di sterminatore a quella di civilizzatore] sia stata nei secoli mistificata e ridotta ora a vis comica ora a soggetto cinematografico o letterario di scarsa qualità, fino a renderlo prodotto di consumo per la letteratura infantile. La sua follia è stata soffocata nella camicia di forza, la sua audacia virata in spavalderia, la sua dedizione intesa come caparbia bruta, la sua affettività stroncata dal moralismo, il suo superomismo addomesticato dalla tracotanza dei benpensanti.
Eracle è stato fatto a pezzi con un bisturi cinico e ognuno ha condensato la sua ricchezza metaforica in uno solo dei frammenti, ridisegnandolo per i propri obiettivi artistici, filosofici, politici o religiosi.
Lui che ha “liberato la via per i viaggi per nave” [Pindaro, Istmiche IV], si è perso nel labirinto della storia e si ritrova al centro di una galleria di specchi deformanti.
I nostri autori ci raccontano che ha percorso i sentieri dei deserti e delle catene montuose, delle steppe e delle paludi, delle pianure e dei vulcani, modificando il paesaggio con opere grandiose, come la divisione dei continenti e la rimodellazione di fiumi e laghi. Ha viaggiato perfino al di là del mondo sensibile, raggiungendo luoghi che appartengono alle favole. Ha portato presso i popoli di tutto il mondo conosciuto le arti agricole di Demetra e il pensiero evoluto della grecità. Proprio un missionario di grecità, è stato.
Lasciando dietro di sé nuove colonie elleniche, templi e ginnasi. Eracle non ha cambiato il mondo con i prodigi della divinità, ma con le proprie forze e con i sentimenti e le emozioni più umane.
Ha ucciso, ha distrutto, ha amato, ha sfidato, ha costruito, ha soccorso, si è disperato, ha sbagliato, si è pentito, si è purificato, si è straziato il cuore subendo una follia dionisiaca che non l’ha spinto a lacerare le carni di un animale, ma quelle dei propri figli... Eracle non può essere dissociato dalla tragedia. Egli è il simbolo dell’umanità più tragica, che edifica pensiero e opere per vedere ogni volta crollare tutto, ritrovando in un attimo l’energia per ricominciare a produrre la propria distruzione.
I Micenei non hanno avuto un buon rapporto con l’ambiente, non hanno saputo costruire pace e collaborazione tra le città-stato, hanno ceduto alla corsa agli armamenti, si sono creati nemici ovunque... e alla fine le vicende degli uomini e la furia della natura li hanno stroncati. Avrebbero molto da raccontare all’uomo contemporaneo, se l’uomo tecnologico e globale del nostro secolo, sempre più distruttivo, li volesse ascoltare.
Le modifiche del paesaggio
“Eracle si trovò di fronte il fiume Strimone, e ne fu contrariato: allora riempì di massi la sua corrente, e da navigabile che era lo rese non più navigabile” - Apollodoro, Biblioteca II.
Stretto di Gibilterra: “Restrinse quel braccio di mare affinché, resolo poco profondo e stretto, fosse impedito ai grandi mostri marini di passare dall’Oceano al mare interno [...] Alcuni affermano al contrario che, essendo uniti i due continenti, egli vi tagliò un passaggio” – Diodoro Siculo, Biblioteca storica 18.
Sicilia: “Creò un lago con un circuito di quattro stadi” [700 metri] - Diodoro Siculo, Biblioteca storica 24. “Eracle, che desiderava fare un favore ai Calidoni, deviò il fiume Acheloo e, preparandogli un altro letto, recuperò un territorio grande e produttivo” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica 35.
L’eponimia
“A Lico poi affidò un vasto territorio sottratto ai Bebrici: e l’intera regione venne chiamata Eraclia” - Apollodoro, Biblioteca II.
“... [a Trezene] c’è una fontana detta Eraclea, perché, secondo i Trezenii, Eracle ne scoprì le acque” - Pausania, Viaggio in Grecia II.
“In Sicilia fondò la città di Eraclea. Ma, dal momento che quest’ultima crebbe velocemente, i Cartaginesi, pieni d’invidia e nel contempo temendo che divenuta più forte di Cartagine portasse via ai Fenici la loro egemonia, condussero una spedizione contro di essa con una grande armata e presala con la forza la rasero al suolo” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica, IV.
La civilizzazione
A Creta “sgombrò l’isola dagli animali selvatici... orsi, lupi, serpenti [...] Introducendo le coltivazioni, trasformò la Libia, che era piena di animali selvaggi... a causa dei quali in precedenza non era abitabile [...]
Egli odiava e combatteva la razza delle bestie feroci e degli uomini iniqui - Diodoro Siculo, Biblioteca storica 17.
“Mise fine all’ignoranza delle leggi e alle uccisioni degli stranieri [...]
Nelle Alpi: “Scelse la via più aspra e di difficile passaggio, cosicché ora essa è percorribile da eserciti e bestie da soma” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica 19.
Campania: “Porta molti segni del fuoco [del vulcano Vesuvio] che l’ha bruciata in tempi remoti [...] Eracle, dopo aver ucciso la maggior parte dei Giganti, rese possibile la coltivazione della regione” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica 21.
Campania: “Costruì la strada che ora corre lungo il mare, e che da lui viene chiamata Eraclea” [il cui selciato è stato scoperto sul fondo marino] - Diodoro Siculo, Biblioteca storica 22.
“Eracle gareggiò con i fratelli in una gara di corsa e incoronò il vincitore con un ramo di olivo selvatico. Si racconta che è stato introdotto in Grecia da Eracle dalla terra degli Iperborei, uomini che hanno dimora nell’estremo Nord” - Pausania, Viaggio in Grecia V.
La conclusione? Non c’è, questa è una tappa del viaggio letterario di un romanzo. C’è un personaggio da costruire. Si raccolgono indizi. Li si riordina. Si dà loro un significato. Si legano i significati, si cerca la sintesi. Si procede verso il significato sommo, quello che rende il libro utile, oltre che frutto di arte.
La conclusione può, per il momento, essere questa: L’incipit del romanzo.
Aquilino
IL ROMANZO DI ERACLE
MICENE
Tutto ha inizio con l’ennesima scorreria dei Tafi, chiamati un tempo Teleboi, i pirati che dalle isole dell’Acarnania si spingono lungo il golfo di Corinto fino a predare l’Argolide. Sono selvaggi e odiano il mondo, perché un tempo regnavano su un territorio sconfinato e ora sono caprai e pescatori. Mettono in comune forze e beni per costruire navi piccole e veloci. Bastano dodici dei loro uomini per annientare un villaggio. Le donne non sono da meno e se non hanno figli da allattare partecipano alle scorrerie. Incitano i compagni alle più efferate crudeltà, facendo patire ai nemici quello che subiscono dai mariti.
“Devono provare terrore solo a sentire il nostro nome” dicono. Combattono nudi o coperti da pelli di animali lacere, i capelli incolti che sbattono come ali di corvo, gli occhi allucinati e la bocca sempre aperta per lanciare urla spaventose. Si lasciano alle spalle i cadaveri squartati dei bambini e degli anziani; donne e uomini validi sono venduti come schiavi ai Macedoni.
Elettrione, figlio di Perseo fondatore di Micene, esasperato per il furto di un’altra mandria muove guerra al loro re Pterelao, uccidendone i figli. Ma nello scontro perde anche lui i sette figli maschi. Distrutto dal dolore, si ritira sconfitto. In sua assenza il regno è affidato al nipote Anfitrione, figlio del fratello Alceo re di Trezene. Anfitrione coglie un’occasione: rileva una mandria razziata pagando però un considerevole riscatto agli Elei, la popolazione del nord che ne è entrata in possesso non si sa come. Al ritorno, furioso per la perdita dei figli, Elettrione rimprovera il nipote.
“Non dovevi cedere al ricatto! Non è lecito vendere merce rubata! Gli Elei andavano accolti con la spada, non con l’oro! La mandria è costata una fortuna e io non intendo risarcirti!”
Anfitrione subisce la collera del wanax senza discutere. Attribuisce il comportamento dello zio al tremendo lutto, ma deve comunque sfogare l’irritazione: ha agito per il bene comune! Lancia un bastone contro una vacca innervosita dagli urli. Messe le ali, il pesante legno rimbalza sulle corna e va a colpire lo zio alla nuca, uccidendolo all’istante.
I testimoni sono concordi: è stato un incidente. Anfitrione, pur conscio di non avere colpe, è scosso da un brivido: un dio ha guidato il volo del bastone, un dio ha voluto renderlo colpevole di omicidio, un dio ha dei piani per lui; e i progetti divini non sono mai scevri di pianti e rovine.
Riportano il cadavere a palazzo, le strade affollate di gente angosciata: non è morto in battaglia, dicono i sussurri, è stato ucciso dal nipote.
Stenelo, fratello di Elettrione, ascolta quanto è successo e liquida i testimoni con un gesto di stizza, ritenendoli inattendibili. Assume la reggenza e accusa Anfitrione di omicidio, instillando nei consiglieri anziani della gerusìa il dubbio di un tentativo di colpo di stato. La sentenza è emessa all’istante: il bando. Anfitrione è sollecitato dagli uomini che gli sono rimasti fedeli a non accettarla e a scontrarsi con il nuovo wanax. Lui è il lawagetas, il capo degli equitai, gli aristocratici guerrieri, non può̀ farsi umiliare senza combattere! Il sangue ribolle, la tentazione è forte. In un attimo Micene è sua, non ne dubita: l’onore gli impone di uccidere Stenelo. Ma a quale prezzo? Quanto sangue sarà̀ versato? Quanto grande sarà la collera degli dei per l’assassinio di un consanguineo? Un altro omicidio nello stesso giorno?
“Non siate precipitosi” raccomanda, fremendo per lo sforzo di controllarsi. “Gli dei mi diranno che cosa fare.”
Si reca da solo nel piccolo santuario dedicato alla Signora, ma appena vi mette piede un piccolo grifone d’argilla prende il volo dall’altare, punta su di lui, lascia cadere un topo morto, poi scarta e scompare a settentrione. Non ha alcun dubbio sul significato del segno. Atena Potnia gli ha detto: evita il massacro, vattene a nord, se non vuoi fare la fine del topo.
Non gli è facile spiegarlo ai guerrieri. Un uomo deve lottare fino all’ultimo, altrimenti non è un uomo. Ma una guerra civile no, Anfitrione non se la sente di insanguinare le vie di Micene. Li lascia amareggiati e delusi e trascorre il resto della notte a preparare le poche cose che può portare con sé. Tenta anche di pianificare il futuro. Dove può andare? A Trezene? A Tirinto? Là ci sono i suoi parenti. No, ne teme la diffidenza e i sospetti. Deve trovare qualcuno che lo purifichi. Argo? Oppure Atene? Si rende conto di non riuscire a pensare. La divinità che gli ha dichiarato guerra gli offusca la mente. Non gli rimane che prendere la via confidando nel soccorso di Atena. Solo come un traditore. Quanto più facile sfidare Stenelo e combattere per un trono che gli spetta per diritto ereditario! Deve combattere contro sé stesso, più che contro gli sguardi imbarazzati dei guerrieri. Alcuni di loro non riescono a nascondere il disprezzo: il loro capo ha perso la timè, l’onore.
È ancora buio quando si appresta a dire addio alla città in cui ha trascorso l’adolescenza, anticipando il processo farsa e la cacciata per decreto reale. Percorre a cavallo la rampa che costeggia il palazzo e attraversa la cittadella fino alle tombe reali. Supera la porta nord senza degnarla di uno sguardo. Intende uscire da quella dei leoni, perché lui è il lawagetas e se ne va a testa alta. Gli zoccoli traggono dalla pavimentazione un rintocco funebre. Passa sotto i ponteggi allestiti per estendere le mura intorno alle residenze dei ricchi mercanti, ma soprattutto per proteggere il pozzo e i magazzini interrati dai possibili assalti delle genti del nord o dei popoli del mare. C’è in progetto una cisterna segreta che assicuri acqua in caso di assedio, ma lui, che ha contribuito alla sua ideazione, non la vedrà. Chi comanderà ora i suoi uomini? Non vuole nemmeno saperlo. Meglio svuotare la mente, perché i pensieri sono punte di pugnali. Viene osservato con curiosità dalle guardie assonnate: un potente se ne va con la coda tra le zampe. Alza lo sguardo sulle due leonesse di pietra, impassibili. Sono state scolpite dal dio del vino che ha voluto due femmine combattenti a protezione dell’acropoli, due feroci baccanti. Davanti a lui si stende il paesaggio brullo che l’alba comincia a scolpire con tratti decisi e silenziosi. Lascia correre lo sguardo sui crinali delle colline come tanti dorsi di buoi addormentati, e accarezza la durezza della roccia che fa da culla alla città e ai suoi abitanti. Uomini di pietra, i micenei. All’orizzonte una massa più cupa: le montagne boscose dell’Arcadia, dove abita il dio Pan. Ma non è là che deve dirigersi, non tra i lupi e gli orsi. Per lui ci vuole un re potente che gli restituisca l’onore. Un frullo d’ali: una civetta è di ritorno al nido e lo precede nel cammino. Anfitrione inspira con forza. La dea lo accompagna, forse ciò che perde gli sarà restituito. Ma quando?
Oltre le mura, quando si è appena inoltrato nella città bassa, viene raggiunto da un carro. Alcmena, l’unica figlia del defunto Elettrione, gli grida qualcosa. Gli era stata promessa in sposa, ma Anfitrione non se l’è sentita di dirle addio. Troppo dolore gli gonfia il cuore. Per un gesto di stizza ha perso tutto: la posizione sociale, il temeno, la terra che ora va a Stenelo, con tutti i suoi beni e gli schiavi, la prospettiva di una famiglia... Gli restano solo l’oro e l’argento che è riuscito a stipare in due bisacce.
“Non te ne vai senza di me!” esclama la donna facendo fermare il carro davanti al suo cavallo. Alle redini c’è Daneia, la schiava di età avanzata che l’ha allevata. Anfitrione è allibito. Che cosa ci fa la principessa tra le casupole del damos?
“Ti ho ucciso il padre.”
“Non tu, gli dei lo hanno ucciso. Come hanno ucciso i miei fratelli. Solo loro sanno perché. Nelle avversità, si salva il salvabile. Te ne vai come un cane bastonato? E io? La gente mi guarda già con pietà. Ho pianto tutte le mie lacrime, se resto qui muoio di consunzione. Onora la promessa, sposami, ricominciamo da un’altra parte.”
“E dove? Io sono il reietto.”
“Tu sei quello che vuoi essere. Andiamo a Tebe.”
“A Tebe?”
“Fidati di me. Andiamo a Tebe.”
Anfitrione non stacca gli occhi da quelli di Alcmena, di un nero abissale, agitati da una luce febbricitante. È combattuto e disorientato. Alcmena gli piace, è una donna di bell’aspetto; e forte. Forse troppo forte. Osa quello che nessun’altra ha il coraggio di fare. Lasciare il gineceo, uscire senza scorta, decidere da sola del proprio destino. Non può evitare di essere roso da un dubbio: una donna così, che si comporta da uomo, può essere una buona moglie?
“E Stenelo? Ora è il tuo tutore.”
“Affrettiamoci, prima che scopra la mia assenza.”
Deve decidere. Il comportamento di Alcmena è scandaloso. Se la riconsegna al wanax, sconta l’arroganza con una fustigazione pubblica. Se la porta con sé, s’inimica Micene. E sia. Tebe è a nordest. La volontà della dea è rispettata.
“Il carro ci rallenta. Lascialo qui.”
Solo ora si accorge che dalle abitazioni è uscita gente, attirata dal vocio inusuale quando i signori dell’acropoli dormono ancora. Una dopo l’altra, si accendono le lanterne per i lavoratori che alle prime luci dell’alba sono già all’opera. Vivono una doppia fatica: procurare il sostentamento per la famiglia e il lusso per i signori della rocca, lavorando le materie prime fornite loro: dall’argilla al rame, dal pellame alla pasta di vetro, dalle essenze all’avorio.
I curiosi lanciano un’occhiata al guerriero che indossa un’armatura leggera di cuoio rinforzata da lamine di bronzo, la testa protetta da un elmo di zanne di cinghiale; e alla donna avvolta nel mantello prezioso: che cosa ci fa in giro di notte? Solo un’occhiata, poi fingono di non avere visto niente e si dedicano alle proprie incombenze. Nelle beghe dei nobili è sempre meglio rendersi invisibili. Quello non è un signore che va a caccia. Non porta bracciali, è vestito da viaggio, ma senza i simboli del potere. E la donna? Priva di gioielli, una gonna di tela senza balze né ricami, una blusa sotto un corpetto di daino. Quella è gente che scappa. Meglio allontanarsi; lasciarsi coinvolgere in uno scontro tra uomini armati mette a rischio la vita.
I cani abbaiano, in lontananza il primo gallo lancia un richiamo stridulo, dalla campagna provengono i primi belati. Il mondo si risveglia.
Alcmena è una brava cavallerizza. Staccati i cavalli, lei e la schiava affiancano Anfitrione nella fuga. Deve abbandonare ogni cosa sul carro: vestiti, cosmetici, gioielli, vasellame... ma non le importa, vorrebbe avere il tempo di gridare al damos, il popolo: prendete tutto! Sorride amaramente della propria dabbenaggine. Non può, le guardie di Stenelo impiccherebbero chiunque trovato in possesso di un oggetto del palazzo. Rivolge un cenno ad Anfitrione.
Lui ha l’ombra sul viso, ma lei lo conosce e sa che ogni pena passa, quando si ha l’animo del guerriero. Lo vede lanciare l’ultimo sguardo a Micene, accarezzare con gli occhi le mura costruite dai Ciclopi, alte venti cubiti e profonde la metà. Ora incombono su di loro come una condanna a morte. Lei sa quanto rischia, portandola con sé. Le labbra vibrano in un giuramento muto: verrà il giorno del ritorno.
E via, i cavalli scendono verso la pianura arida. Alla loro destra, Helios scaccia le tenebre.
Ecco il senso di questa storia. Il ritorno. Nostos. È una storia di vagabondaggi sulle tracce dei mostri. Di incursioni nel Tartaro. Di ritorni a casa tragici. La storia di un luogo cercato invano; e dopo un frenetico girovagare si ritorna alle mura che ci hanno visto nascere. Ogni morte è un ritorno alla nascita; ogni nascita un inconsulto vagare verso la morte.
Il mio nome è Iolao, figlio di Ificle di Tebe gemello di Eracle, generati da Alcmena, il primo con Anfitrione e il secondo con Zeus. Avere uno zio come Eracle ha modellato la mia vita con la potenza di un artista, ma io non sono stato creta passiva nelle sue mani. La mia esistenza è consapevole, anche se quando tutto ha inizio ho solo dodici anni.
“Lo voglio con me” dice Eracle. Mio padre esita, mia madre m’implora con lo sguardo lucido, ma io decido: “Voglio andare con lui.”
Ignoro che cosa mi aspetta. Delle origini divine dello zio tutti sanno qualcosa e nessuno dice niente. Non voglio stare con lui perché Zeus gli è padre, e nemmeno perché è destinato a imprese eroiche.
Voglio stare con lui perché devo, lo esige un desiderio forte dentro di me. Lo stesso che è dentro di lui.
*Aquilino Salvadore (nome d’arte Aquilino) è nato a Tradate (VA). Ha pubblicato sia romanzi per adulti che libri per bambini e ragazzi con le maggiori case editrici italiane, alcuni tradotti in coreano, russo, ucraino, portoghese, spagnolo. Drammaturgo, scrive testi sia per ragazzi sia per adulti. Ha vinto numerosi premi. Conduce laboratori di teatro e di scrittura creativa.
https://www.aquilino.biz/teatro2.htm
La donna e l’eroe nel mito di Eracle
Paola Angeli Bernardini

Bernardini, Paola Angeli. « La donna e l’eroe nel mito di Eracle ». Héros et héroïnes dans les mythes et les cultes grecs, édité par Vinciane Pirenne-Delforge et Emilio Suárez de la Torre, Presses universitaires de Liège, 2000, https://doi.org/10.4000/books.pulg.766.
Per gentile concessione dell’Autrice.
1 Nel settore degli studi su Eracle e più in particolare su Eracle e il mondo femminile il lavoro che negli ultimi venti anni ha maggiormente influenzato l’impostazione della ricerca è senz’altro quello di N. Loraux, dal titolo ormai a tutti noto: “Héraklès: le surmâle et le féminin”[1]. Si tratta di una ricostruzione rigorosa del modo eracleo di rapportarsi all’altro sesso, partendo dai dati mitici e dagli elementi rituali.
2 Un’analisi che ha avuto il merito principale di scalfire l’immagine di un Eracle sempre e comunque virile, rappresentante dell’uomo dorico e delle sue qualità fisiche e morali. Non era facile, dopo il Wilamowitz [2], porre in discussione in maniera credibile e soprattutto documentata, cioè sulla base di testimonianze letterarie, archeologiche ed epigrafiche, l’immagine di un Eracle per così dire “pindarico” e riproporre un modello di eroe contraddittorio, ambiguo, dai contorni contrastanti, in bilico tra una mascolinità prorompente e una femminilità nascosta e intrigante. E tutto questo cercando conferma nei rituali di luoghi diversi della Grecia e in una valutazione comparativa di tradizioni mitiche locali [3]. L’indagine della Loraux ha in tal senso raccolto e presentato in una visione unitaria e sincronica tanti diversi indizi, delineando un ritratto globale dell’eroe in cui le varie tessere hanno già trovato una loro collocazione.
3 Lo scopo della presente ricerca è un altro. Applicando il criterio, più volte enunciato da H. Blumenberg, che i miti sono “procedure narrative”, cioè un prodotto frutto di selezione e variazione di diversi elementi in una dimensione fortemente storica [4], in questa sede ci accingiamo a ripercorrere il cammino attraverso il quale è possibile una ricostruzione del mitologema di ‘Eracle e l’altro sesso’. Una ricostruzione che nel nostro caso riguarda soprattutto la Grecia arcaica e classica.
4 Come Blumenberg riconosce che per il mitologema di Prometeo, alla cui analisi è dedicata la parte finale del volume Arbeit am Mythos, la versione di Esiodo e poi quella di Eschilo mostrano due aspetti uguali e diversi, in ogni caso successivi, della tradizione [5], così per il rapporto di Eracle con la figura femminile credo che sia importante partire dalle fonti più antiche, per poi procedere secondo un ordine rigorosamente cronologico. Sono esse che documentano la ricezione dell’episodio avventuroso/erotico nelle varie epoche e poi la riproduzione del medesimo nel corso del tempo. L’esigenza di storicizzazione ci porterà a scomporre la ricostruzione della Loraux, nel tentativo di individuare un nucleo mitico più antico, limitato al momento alla testimonianza che ne danno i poemi omerici, e poi via via elaborato e arricchito nei secoli, attraverso l’aggiunta di altri motivi.
5 Ho così delineato e circoscritto i limiti della presente ricerca che sostanzialmente si pone due obiettivi:
- ricostruire il percorso attraverso il quale, in un complesso mitico così ricco e vario come quello di Eracle [6], affiora nei documenti poetici ed iconografici l’idea di un rapporto fuori della norma dell’eroe con l’altro sesso;
- individuare nell’ambito della produzione letteraria e artistica in oggetto la diversità di ricezione del racconto mitico; diversità connessa con l’occasione in cui esso veniva divulgato mediante l’esposizione o mediante la rappresentazione. Come osserva proprio la Loraux a proposito dell’avventura di Eracle presso Onfale, il racconto cambia a seconda che figuri in una tragedia o in un dramma satiresco o addirittura in una commedia o, infine, in un racconto di tardi mitografi. Parimenti l’odio insanabile di Era per Eracle è, come vedremo, tema epico e lirico, ma diventerà anche tema comico e poi satirico.
6 I condizionamenti del genere poetico non vanno sottovalutati.
Omero e l’eroe conteso
7 Due sono le dee che segnano il destino di Eracle e ne condizionano il rapporto con la donna: Era, l’irriducibile nemica, ed Atena, l’amica e la fedele protettrice, due “archétypes de la féminité”, secondo la definizione di C. Jourdain-Annequin [7]. Nei poemi omerici sono ambedue presenti in questo ruolo che sarà poi fissato nella tradizione. Se la funzione di Atena è più trasparente e senza equivoci (Il, VIII, 362-369; XX, 144-148) [8], quella di Era è più complessa, perché segnata da un’inquietante trasformazione. Da ingannatrice (Il., XIX, 95 sg.) e ostile (Il., XVIII, 117-119) la dea diventa benevola e concede all’eroe la propria figlia Ebe, accogliendolo nell’Olimpo (Od., XI, 601-604). Sia l’episodio dell’anticipo della nascita di Euristeo e del ritardo di quella di Eracle (Il., XIX, 95 sg.), sia il ruolo di Era nell’apoteosi dell’eroe sono stati interpretati in vario modo. Quasi sempre i due episodi, emblematici di una forte contraddizione, sono stati messi in rapporto con l’atteggiamento ambiguo dell’eroe verso l’universo femminile, vuoi come rapporto conflittuale con il ventre materno (donna/madre), vuoi come proiezione di una doppiezza di comportamento nei confronti della donna amica/nemica. Di qui tutta una serie di violenze sessuali, di danni inferti e subiti, di matrimoni disastrosi, di tentativi di mortificare la propria mascolinità, che sarebbero originati dall’ambiguo rapporto dell’eroe con Era [9]. Ma ha ragione N. Loraux di osservare, a questo proposito, che la pluralità di donne con le quali Eracle ha un’avventura non è riconducibile ad un unico modello di donna/madre, perché ogni eroina ha un suo carattere e una sua configurazione mitica e, aggiungerei, una sua storia locale.
8 Cosa percepiva, allora, l’uomo arcaico, o meglio il fruitore dell’epica arcaica, della natura straordinaria di Eracle, conteso tra due dee, punito prima ancora di nascere e poi premiato? Che idea si faceva della sua sessualità abnorme? Purtroppo molto dell’epica arcaica sull’eroe è perduta (si pensi all’Herakleia di Pisandro di Rodi e i Cinetone di Sparta o a quella di Paniassi di Alicarnasso), ma da quel che possiamo ricavare da Omero, da Esiodo e in particolare dall’episodio del rapimento da parte dell’eroe di Astiochea, madre di Tlepolemo, presente in ambedue [10], si può dedurre che l’aspetto privilegiato in relazione al tema dell’avventura amorosa con un’eroina era quello della violenza e della conquista. Se c’è un elemento prevalente nella raffigurazione dell’Eracle arcaico è proprio quello agonale. La figura femminile si presenta come un premio per una vittoria, come un oggetto di gratificazione dopo la lotta. La presa di Ecalia, ascritta a Creofilo di Samo, trattava della distruzione di Ecalia e dell’amore dell’eroe per Iole. Una conquista che può essere fatta con la forza, con il coraggio, ma anche con la metis. In questo senso Atena ha la meglio su Era. Si pensi a Stesicoro e alla scena della Gerioneide in cui Atena, - sempre lei -, cerca di convincere Posidone a non intervenire in aiuto di Gerione contro Eracle (S 14 Page). O si rilegga il fr. 298 Page di Ibico in cui Eracle combatte “insieme all’intrepida Pallade”. La natura agonale dell’eroe arcaico non ha bisogno di essere illustrata. Basti pensare alla consuetudine comune di celebrare il vincitore nei giochi Olimpici con il ritornello dell’inno di Archiloco in onore di Eracle: “Tenella. O tu dalla bella vittoria, salve, o signore Eracle!” [11]
9 Nell’immaginario collettivo prevale la rappresentazione dell’eroe virile e vigoroso, di fronte ad un avversario da vincere con ogni mezzo. La donna in questa rappresentazione ha un ruolo secondario e funzionale alla dimostrazione di mascolinità dell’eroe (a meno che non appartenga essa stessa a categorie straordinarie come le Esperidi o le Amazzoni), ma non marginale, perché è destinata a dare vita alla discendenza dell’eroe. Ecco i due dati che caratterizzano le vittime della sfrenatezza sessuale di Eracle: la conquista attraverso la lotta e il conseguente concepimento di una stirpe illustre. È sufficiente ricordare alcuni casi. Calciope, figlia di Euripilo, re di Cos, viene conquistata con la forza da Eracle, dopo la sua vittoria sui Meropi, e genera Tessalo. Xenodice, figlia di Sileo, viene sedotta dopo che il padre è ucciso dall’eroe. Auge, figlia di Aleo e sacerdotessa di Atena, viene stuprata e genera Telefo che diventerà re della Misia. Da Onfale l’eroe ha come figlio Agelao (o secondo altre fonti Lamo o, ancora, Acheles), che diviene re dei Lidî. [12]
Eracle, eroe pindarico senza macchia
10 L’Eracle pindarico raccoglie l’eredità del passato [13]. Per quel che ne sappiamo, sono estranei all’opera del poeta tebano sia l’interesse per le avventure galanti dell’eroe, sia ogni traccia di riprovazione per qualche sua impresa. Ritroviamo, invece, la problematica relativa alla sua duplice dipendenza da Era e da Atena, ma questa condizione di sottomissione a figure femminili, anche se dee, non è mai vista nei suoi risvolti di tipo psicologico o emotivo, ma solo ed unicamente sotto il profilo narratologico, cioè come elemento di un racconto teso a fare dell’eroe un personaggio esemplare. Nella biografia pindarica di Eracle le due dee giocano un ruolo molto importante, ma è un ruolo che Pindaro deriva dalla tradizione e che egli ripresenta al suo uditorio, selezionando e accentuando quegli aspetti paradigmatici che favoriscono l’esaltazione del suo più illustre concittadino. Un’esaltazione alla quale non è estraneo, appunto, il peso della comune provenienza da Tebe: l’eroe e il poeta hanno la stessa patria. In N. 1, 33-50 Eracle strozza, ancora in fasce, i serpenti mandati da Era; in I. 4, 60 è definito suo γαμβρός (genero) e sempre in Ν. 1, 71-72 è celebrata la sua apoteosi accanto ad Ebe. L’aiuto di Atena è meno esplicito, ma è sottinteso in varie imprese (N. 4, 27-30 nella sconfitta di Alcioneo; Ol. 10, 15 nella lotta con Cicno). Imprese eroiche in cui, ripeto, la donna come conquista erotica o come avventura sessuale ha poco spazio.
Tra philogynia e misogynia
11 È proprio sul piano della narrazione mitica, più volte dedicata ad Eracle (Ep. 5; Dith. 16; fr. 4, 21-49; 44; 64; 66 Snell-Maehler), che va imputata a Bacchilide una nuova concezione del rapporto eracleo uomo/donna. Credo che il senso di questo passaggio non sia stato ancora evidenziato con la convinzione dovuta [14]. Ricorderò solo che il Ditirambo 16 si incentra sulla gelosia di una implacabile Deianira e sulla morte dell’eroe per opera della moglie tradita e che il fr. 64 affronta il tema dell’uccisione del centauro Nesso, dopo la violenza su Deianira, ad opera dell’eroe. L’Epinicio 5 si conclude, dopo il pianto di Eracle alla vista di Meleagro, con la richiesta di poterne sposare la sorella, se pari a lui in bellezza [15]. Con Bacchilide comincia ad affiorare una problematica nuova che vede un Eracle combattuto, diviso, “simonideo”, come è stato definito da G. Cerri a proposito dell’Eracle di Euripide [16]: un uomo, anzi un eroe, violentato “dall’assillo indomabile di Afrodite tessitrice di inganni”, per usare un’espressione simonidea (fr. 541, 9-10 Page). Si rilegga il brano di Bacchilide:
Dicono che solo allora
il figlio spavaldo di Anfitrione
cedette al pianto,
e dell’infelice eroe commiserò la sorte.
E come risposta gli rivolse queste parole:
“Per l’uomo è meglio non essere nato
e non vedere la luce del sole. Ma se non v’è
conforto nei lamenti,
parliamo, almeno, di ciò che si può compiere in futuro.
Vive nella casa di Eneo,
caro ad Ares,
una figlia vergine, pari a te nell’aspetto?
Io, lieto, la farei mia florida sposa”. (Ep. 5, 155-169).
12 Secondo ricerche che sono state condotte sulle fonti archeologiche ed epigrafiche, in questo periodo, tra il vi e il v sec. a.C, si fissa il ruolo di Eracle come “god of marriage”. Dietro al miracoloso concepimento, raccontato da Pausania (VI, 11, 2) dell’atleta Teogene di Taso, vincitore olimpico per la prima volta nel 480 a.C, si dovrebbe vedere, secondo M. Launey [17], un “mariage sacré”, una ierogamia tra il sacerdote di Eracle (il quale assume il ruolo dell’eroe-dio che, comunque, risulta il vero padre del grande atleta Teogene) e una vergine che veniva consacrata all’eroe. La documentazione epigrafica [18], e poi la testimonianza di Plutarco, Quaest. Gr. 58, attestano senza dubbio che Eracle a Cos era una divinità protettrice del matrimonio [19]. Si può concludere che tra il vi e il v sec. a.C. all’eroe veniva già assegnato il ruolo di protettore delle nozze. Egli era un eroe non solo regolarmente sposato, ma coinvolto in riti nuziali.
13 Se Bacchilide nel Ditirambo 16, Sofocle nelle Trachinie ed Euripide nell’Eracle presentano al pubblico un personaggio coniugato prima con Megara, poi con Deianira, in regolare successione [20], si deve pensare che per il pubblico questo coinvolgimento dell’eroe nello statuto matrimoniale non fosse una sorpresa. Le nozze di Eracle con Ebe non fanno che coronare questa vocazione dell’eroe per il matrimonio. Non bisogna dimenticare che il mito contempla anche nozze regolarmente promesse, ma poi non ottenute per l’opposizione del padre della futura sposa. Si pensi, ad esempio, a Iole, negata da Eurito [21]. Ma la tragedia che meglio consacra questo ruolo di Eracle come protettore delle nozze è senz’altro l’Alcesti di Euripide. La riaffermazione del legame matrimoniale, interrotto dalla morte della sposa per propria scelta e ristabilito dopo la vittoria di Eracle sulla Morte, compete all’eroe che ne sancisce la sacralità, stabilendo che Admeto non potrà risposarsi che con Alcesti, sua legittima sposa [22]. Estia (v. 163-169) ed Eracle (v. 1024) sono i difensori dell’unità dell’oικoς. È lo stesso Eracle che, impersonando il ruolo del κύριος·, riconduce Alcesti dal suo legittimo sposo e ricelebra le loro nozze (v. 1113-1120) [23].
14 Sempre tra il VI e il V sec. a.C, proprio nella produzione teatrale (non solo tragedia, ma anche dramma satiresco e commedia) vengono portati sulla scena gli aspetti contrastanti e contraddittorii della personalità eroica di Eracle e in questo modo, davanti agli occhi dello spettatore, le virtù e i vizi del più grande degli eroi diventano materia di spettacolo. I. Gallo in una puntuale ricostruzione della presenza del tema dell’ ’Eracle derubato’ nel dramma satiresco attico si interroga su quella che può essere stata “la complessa trafila compiuta dall’eroe, dal mito al teatro, in tutte le sue manifestazioni e forme” [24], e conclude che proprio il contrasto tra la serietà e la gravità dell’eroe, e la buffoneria, la dicacità e infine la vigliaccheria dei satiri era un ingrediente adatto al dramma satiresco. Questa opposizione di natura drammaturgica può spiegare l’origine dell’ingresso di Eracle sulla scena come soggetto satirico, ma credo che la fortuna di questo personaggio nella commedia e nel dramma satiresco sia sostanzialmente legata agli aspetti eccessivi e contrastanti della sua personalità. Aspetti contrastanti che, come ha indicato A. Brelich [25], sono presenti in tutti gli eroi, ma che in Eracle sono fortemente esasperati. Il conflitto tra philogynia e misogynia rientra tra questi caratteri antitetici che possono essere sfruttati con fortuna sulla scena.
15 Sappiamo di Epicarmo che alla fine del vi sec. a.C. sbeffeggia l’ingordigia eraclea di cibo, di vino, di donne e di ragazzi [26]. Sappiamo di commediografi come Nicocare, Ferecrate, Cratino che affrontano temi legati alla bulimia e all’appetito sessuale dell’eroe e alla sua schiavitù presso Onfale [27]. Alessi nell’Estone ridicolizza la passione dell’eroe per i ragazzi e nel Lino la sua passione per la gastronomia. Filillio e Eubulo scrivono un’Auge sullo stupro della vergine consacrata ad Atena. Cratino il giovane ed Antifane compongono un’Onfale; Archippo Le nozze di Eracle [28]. Per non parlare degli Uccelli e delle Rane di Aristofane. Autori di drammi satireschi come Ione di Chio, che presenta un’Onfale [29] e Acheo, a sua volta autore di un’Onfale [30], portano sulla scena le avventure dell’eroe e della regina di Lidia. Eracle è protagonista anche di drammi satireschi di Eschilo (I nunzi), Sofocle (Eracle al Tenaro) ed Euripide (Sileo), andati quasi completamente perduti [31], e forse di qualche tragedia di cui restano miseri frammenti [32].
16 Un’attenzione particolare dal nostro punto di vista merita la tragedia di Euripide, Auge. Nei frammenti superstiti si profila una serie di conflitti di grande interesse tra emozioni opposte: da un lato l’adikia commessa da Eracle probabilmente nei confronti della fanciulla o della dea Atena e la rivendicazione dell’involontarietà dell’operato (fr. 265 Nauck), dall’altro la potenza trascinatrice dell’amore (fr. 269). Le vane speranze di Auge (fr. 271) si contrappongono al riconoscimento della debolezza femminile (fr. 276). Sono tematiche che fanno rimpiangere la perdita della tragedia. L’empietà compiuta dall’eroe nei confronti di una sacerdotessa di Atena e il parto della giovane nel tempio della dea dovevano aggiungere all’intreccio una nota fortemente scandalosa [33].
17 Come si vede, una produzione teatrale molto ampia e varia che si incentra su un personaggio, in cui si assommano grandi pregi e grandi vizi. Il fatto che i titoli comici e satirici siano di gran lunga più numerosi di quelli tragici si spiega perché, mentre la tragedia non può prescindere dall’esaltazione dei meriti e delle qualità dell’eroe, sempre grandi anche nella disgrazia, la commedia e la satira possono demistificarne gli aspetti eroici, riducendoli - pur in una dimensione ingigantita - a livello umano.
18 I tratti che più vengono presi di mira sono, come abbiamo visto, la gola e la sessualità smodata dell’eroe. Abbiamo a che fare con l’esagerazione di due dati strutturali della figura eraclea, in bilico, come ha rilevato G.S. Kirk, tra natura e cultura [34]. La loro rappresentazione provoca la risata perché perten-gono alla stessa sfera umana; sono amplificati ed esagerati, ma non estranei all’uomo greco comune.
19 Fuori della esagerazione comica, la misogynia dell’eroe, che si traduce in violenza sulla donna e nella sua utilizzazione, trova conferma in culti sparsi in territorio greco, di cui alcuni attestati fin dal vi sec. a.C. L’epiclesi Μισόγυνος con cui Eracle era venerato in Focide, compare in una serie di iscrizioni, databili alla fine del vi sec. a.C, e in una serie di testimonianze più tarde, ma chiaramente risalenti a fonti precedenti. L’attributo Μισόγυνος prevede da un lato l’interdizione alle donne dai templi di Eracle, iscrizionalmente ben attestata, dall’altro la castità, temporale (un anno) o definitiva (l’intera vita), dei sacerdoti che amministravano in Focide il culto dell’eroe (Plut., De or. pyth., 20 [403f-404a]), o a Tespie di una fanciulla che doveva rispettare la verginità durante tutta la sua esistenza (Paus., IX, 27, 6). Soffermiamoci sulle epigrafi. L’analisi di Ch. Picard porta a risultati degni di nota [35]. Nell’iscrizione, trovata a Taso, da collocare almeno alla fine del vi sec. a.C, tra i divieti imposti ai praticanti del culto di Eracle (non è permesso di offrire capre e porci, di offrire la nona parte del sacrificio, di offrire porzioni tagliate), alle 1. 3-4 figura l’interdizione alle donne. A questa si aggiungono almeno altre due epigrafi che confermano in altre zone, cioè a Mileto [36] e a Cos [37], l’esclusione delle donne o, quanto meno nell’iscrizione di Cos, la separazione tra uomini e donne nelle cerimonie cultuali per Eracle Diomedonteios. Le fonti letterarie attestano l’esclusione parziale o totale per le donne anche a Eritre Ionica (Paus., VII, 5, 8), a Gades (Sil. Ital., Pun., III, 21-22), a Roma (Plut., Quaest. Rom., 60; Macrob., Saturn., I, 12, 28). Il divieto diventa addirittura proverbiale (Γυνή είς ’ Ηρακλέους·οὐ φοιτᾷ [38]), con un’allusione all’impresa poco gloriosa di Eracle durante la servitù presso Onfale. L’esclusione femminile dai templi di Eracle diventa anche oggetto di storielle riguardanti animali domestici [39].
La femminilizzazione di Eracle
20 Ci resta da trattare brevemente il tema più controverso e direi più delicato di questa ricostruzione. Concordo con C. Jourdain-Annequin sulla felicità dell’intuizione di N. Loraux quando afferma che “avec Héraclès nous tenons l’une des figures grecques de la féminité dans l’homme”, ma anche io nutro qualche perplessità, se non sul valore complessivo da dare a certi elementi del mito, almeno sull’epoca in cui l’immaginario comune se ne appropria sottolineandone, in un certo senso, la stravaganza. Essi comprendono: a) il dono del peplo all’eroe da parte di Atena [40], b) il suo travestimento in abiti femminili presso Onfale [41] e presso la donna trace di cui parla Plutarco [42], c) la tunica mandata in dono da Deianira, d) l’allattamento al seno di Eracle da parte di Era [43], che è stato interpretato sia come un’adozione benevola da parte della dea [44], sia come riflesso del conflittuale rapporto dell’eroe con Era [45]. La Jourdain-Annequin riconduce sostanzialmente questi fatti alla “logique de l’initiation”, ravvisando nel fenomeno d’inversione sessuale e nell’adozione dell’eroe il simbolo dell’ambiguità che caratterizza la fase della pubertà [46].
21 Individuare il periodo a partire dal quale questi indizi di transessualità e di travestitismo dell’eroe vengono utilizzati nella poesia e nell’arte figurativa può essere utile per decifrarne “le pouvoir de pénétration” e comprendere, così, il percorso di questo tema mitico.
22 La poesia greca ci ha lasciato, grazie ad Anacreonte, vissuto nella seconda metà del vi sec. a.C, il ricordo di un furfante arricchito, un certo Anemone, che indossava monili vistosi e portava “un ombrellino d’avorio come le femmine” (fr. 82 Gentili) e il corpus dei cosiddetti “vasi Anacreontici”, prodotti tra il 510 e il 460 a.C, mostra tutta una serie di personaggi maschili in abiti femminili che J. Boardman e D.C. Kurtz [47] hanno riconosciuto di foggia lidia [48]. Verso la fine del vi sec. quasi tutte le fonti greche che parlano dei costumi dei Lidî ne evidenziano la τρυφή e l’ἀβροσύνη, rilevandone il carattere manifestamente esotico. Il poeta tragico Ione di Chio nel dramma satiresco Onfale, del quale restano circa ventiquattro versi [49], descriveva Eracle, giunto in Lidia, alle prese col lusso del banchetto (fr. 25 L.), dei canti e della musica (fr. 26a-b) e soprattutto dei molli costumi lidî, contrapposti a quelli severi del Peloponneso (fr. 27: “è meglio conoscere gli unguenti profumati e gli olii odorosi e gli ornamenti del corpo che la maniera di vivere nell’isola di Pelope”). Né veniva smentita la bulimia dell’eroe (fr. 30-33). Credo che un nuovo esame dei frammenti dell’Onfale e una diversa interpretazione del fr. 28 (“e il nero rimmel che segna gli occhi”, non riferito ad Eracle [50], ma alle donne della corte di Onfale) potrebbero aprire nuovi orizzonti, consentendo di ricostruire quali erano gli aspetti più scandalosi di questa storia da ridicolizzare sulla scena.
23 Nell’immaginario del cittadino ateniese del v sec. a.C. l’idea del travestimento di Eracle presso i Lidî era probabilmente suggerita anche da quella della mollezza dei costumi e dei piaceri che si godono lontano dalla guerra. Anche le mansioni servili al comando di una donna suggerivano abiti femminili. Questo secondo aspetto non era meno discutibile del primo. L’asservimento del maschio alla donna era ritenuto vergognoso, come risulta dall’affermazione di Democrito ὑπò γυναικòς· ἂρχεσθαι ὑβρις- εἴη ἂν ἀνδρὶ ἐσχατη (“essere comandato da una donna sarebbe per un uomo estremo oltraggio”) [51]. Sta di fatto che nelle fonti più antiche si parla di imprese (i Cercopi, Sileo) alle quali l’eroe si dedica durante la servitù e poi di amore da parte dell’eroe per il lusso, non di scambio vero e proprio di vesti tra l’eroe e la regina [52].
24 Nella polemica tra quanti ritengono che lo scambio di vestiti e di ruoli tra Eracle e Onfale non sia attestato in archeologia prima del IV/III sec. e quanti, invece, retrodatano alcune raffigurazioni al v sec, hanno forse ragione i primi. Qui non è in discussione l’antichità della storia di Onfale [53], ma solo l’epoca in cui essa compare sui documenti nei suoi risvolti erotici, sessualmente ambigui e trasgressivi. In effetti quasi tutte le raffigurazioni che evidenziano lo scambio di attributi sono di età tardo ellenistica e soprattutto di età imperiale (nell’epoca tra Augusto e i Severi) [54]. La propaganda di qualche effemminato imperatore romano non deve essere stata estranea a tale diffusione.
25 Quanto all’interessantissima iscrizione di Didima n° 501 [55], vi sono indicazioni chiare che il responso del dio, interrogato da una richiedente, riguarda il culto di Eracle, caratterizzato da tre prerogative: a) bagni termali; tí) danze e canti di fanciulle vergini; c) aspetto femmineo dell’eroe (θηλυπρεποῦς·φωτός·). La presenza di Era nello stesso santuario conferma che si tratta proprio di Eracle. L’iscrizione, tuttavia, risale al ii sec. a.C. ed è di provenienza ionica.
26 Ma il testo che, a mio avviso, va valutato con più cautela è quello di Diodoro Siculo (IV, 14, 3), perché è sì tardo (i sec. a. C), ma, come tutti sappiamo, riassume fonti storiografiche e mitografiche più antiche, da Erodoto a Duride, cioè fonti a partire dall’inizio del v sec, riadattandole con l’apporto di testi più tardi. Scrive Diodoro: “Quando, al ritorno dalla guerra, abbandonandosi al riposo, Eracle si mostrò nelle riunioni solenni, dove si celebravano giochi e feste, ognuno degli dei l’onorò con un dono. Atena gli donò un peplos, Efesto una mazza e una corazza e queste due divinità usavano al proposito le arti che praticavano; l’una per accrescere la gioia e il piacere di Eracle durante la pace; l’altra per accrescere la sua sicurezza in mezzo ai pericoli della guerra” [56]. La contrapposizione tra la pace e la guerra è evidente. Inoltre, come osserva C. Bonnet, non si deve dimenticare che il peplo è un elemento caratterizzante il culto di Atena nella città di Atene [57]. Né è da escludere, come abbiamo visto da ultimo, il ricordo dei costumi molli e raffinati che Eracle può aver appreso in Lidia. Come negare, infine, che il peplo possa diventare uno strumento di equilibrio in una personalità eroica ambivalente, opponendo “a surplus of femininity against an excess of masculinity”? [58] Il peplo, insomma, riassume in sé vari simboli che assumono un valore diverso a seconda dei vari contesti.
27 Muovendo da quest’ultima osservazione, credo che ormai sia giunto il momento di trarre qualche conclusione.
28 Come abbiamo visto per il peplo di Eracle, un elemento del mito si presta a più interpretazioni, anche contrastanti. Proporre una costruzione coerente attraverso elementi così diversamente interpretabili è difficile e rischioso. Sembra più prudente – e forse più produttiva - una lettura del dato mitico nelle sue varianti e nella sua diacronia. In conformità a questo criterio, nella trattazione del tema del rapporto di Eracle con le donne, abbiamo privilegiato l’analisi, evitando ogni forma di sintesi. Abbiamo altresì privilegiato le fonti poetiche arcaiche e classiche per avere un quadro del problema in un arco di tempo circoscritto. In ultima analisi abbiamo fatto solo un tentativo di costringere, entro delle coordinate a noi meglio note, una materia – quella della vicenda eroica di Eracle – quasi senza confini cronologici e geografici.
Note:
1. Herakles: the Super-male and the Femmine, in D.M. Halperin, J.J. Winkler, F.I. Zeitlin (eds), Before Sexuality. The Construction of Erotic Experience in the Ancient Greek World, Princeton, 1990, p. 21-52 (= Rev. française de psychanalyse, 46 [1982], p. 697-729).
2. Cf. U. von Wilamowitz-Moellendorff, Euripides Herakles II, Berlin 1889 (= Darmstadt, 1968).
3. Credo che per nessun altro eroe come per Eracle, panellenico, ma al tempo stesso locale, le tradizioni epicoriche e le relative pratiche cultuali siano da tenere nel massimo conto. L’interesse crescente per un approccio topografico nello studio del mito, che ha dato risultati notevoli per altre figure eroiche (ad es. quelle del mito tebano come Tiresia o Anfiarao) non può che rivelarsi utile per Eracle.
4. Cf. H. Blumenberg, Wirklichkeitsbegriff und Wirkungspotential des Mythos, in M. Fuhrmann(ed.), Terror und Spiel. Problème der Mythenrezeption, Miünchen, 1971, p. 34.
5. Cf. H. Blumenberg, Arbeit am Mythos, Frankfurt/M., 1979 (tr. it. Elaborazione del mito, Bologna, 1991).
6. È doveroso almeno ricordare lo sforzo esegetico e l’opera di sistemazione di C. Jourdain-Annequin, Héraclès aux portes du soir. Mythe et Histoire, Besançon/Paris, 1989 e ancora C. Bonnet, C. Jourdain-Annequin (eds), Héraclès d’une rive à l’autre de la Méditerranée. Bilan et perspectives, Bruxelles/Roma, 1992.
7. Nel contributo di C. Jourdain-Annequin, Héraclès et les divinités féminines, in C. Jourdain-Annequin, C. Bonnet (eds), Héraclès, les femmes et le féminin. Actes du Colloque de Grenoble 22-23 octobre 1992, Bruxelles, 1996, p. 267-87, si trova, tra l’altro, un utile esame delle varianti mitiche in rapporto ai culti e alle tradizioni locali e un appropriato richiamo alla memoria indigena.
8. Sui consigli di Atena all’eroe cf. Hes., Theog., 313-318 e sul suo ruolo di protettrice cf. Scut., 124-126.
9. Il libro, a dire il vero ormai datato, di P.E. Slater, The Glory of Hera. Greek Mythology and the Greek Family, Princeton, 1971 offre un esempio significativo di questo modo di interpretare il racconto omerico. Egli parte da un’osservazione che sembra ineccepibile: “the contradictions in Heracles begin with his ambivalent relationship with Hera” (p. 342), ma poi allinea sia l’episodio del parto ritardato, sia quello dell’accoglienza di Eracle nell’Olimpo con altri racconti di stupri, di nozze disgraziate, di travestitismo, sparsi nel corso dei secoli fino al III, IV sec. d.C, spiegando gli uni con gli altri, come se tutti i racconti fossero della stessa epoca e come se tutti provenissero da una stessa fonte e tutti riguardassero un solo uomo nel corso della sua esistenza.
10. Hom., Il., II, 657-660; Hes., fr. 232 Merkelbach-West.
11. Fr. 207 Tarditi = 324 West.
12. Si rinvia all’elenco dei figli di Eracle e delle loro madri fatto da Apollodoro, II, 7, 8. Per le fonti antiche più significative sulle singole eroine cf. infra, p. 191-192 nelle pagine dedicate al loro ruolo nel teatro.
13. Molto è stato scritto sulla configurazione dell’eroe in Pindaro ed anch’io, altrove, non sono sfuggita a questa tentazione: cf. P. Angeli Bernardini, Mito e attualità nelle odi di Pindaro. La Nemea 4, l’Olimpica 9, l’Olimpica 7, Roma, 1983, p. 56-62; 100-107; 127-135. Cf. anche: Eracle mangione: Pindaro, fr. 168 Snell-Maehler, in QUCC, 21 (1976), p. 49-52.
14. G.K. Galinsky, The Herakles Theme, Oxford, 1972, parla a questo proposito di un ’Herakles in transition’ (p. 27-28), fornendo uno spunto felice per future ricerche.
15. II fr. 4 è troppo lacunoso per poter ricostruire con precisione il ruolo di Eracle. Vi si narrava l’arrivo dell’eroe nella casa del cugino Ceice, re di Trachis, al momento di una festa; la guerra tra l’eroe e i Driopi; la sconfitta dei nemici e il loro trasferimento nel Peloponneso dove fondano la città di Asine (cf. W.S. Barrett, Bacchylides, Asine and Apollo Pythaieus, in Hermes, 82 (1954), p. 421-444. Non sembra che nel carme vi fosse spazio per avventure d’altro tipo.
16. L’etica di Simonide nell’Eracle di Euripide: l’opposizione mitica Atene-Tebe, in P. Angeli Bernardini (ed.), Presenza e funzione della città di Tebe nella cultura greca, Pisa/Roma, 2000, p. 233-263.
17. L’athlète Théogène et le ίερòς γάμος· d’Héraclès thasien, in RA, 18 (1941), p. 22-49.
18. Cf. L. Ziehen, Leges Graecorum Sacrae e Titulis Collectae, Lipsiae, 1906, n. 144C.
19. Probabilmente è nel giusto W.R. Halliday, The Greek Questions of Plutarch, Oxford, 1928, p. 217-219, quando sostiene che il rito matrimoniale descritto da Plutarco risulta confuso nella forma, ma che nella sostanza tratteggia la figura di Eracle a Cos come “god of marriage” (p. 219).
20. Si veda il racconto di Diod. Sic, IV, 31 e Apollod., II, 6, 1 in cui Megara viene ripudiata da Eracle e fatta sposare a Iolao prima che egli stesso si risposi con Deianira.
21. Cf. D. Pralon, Héraclès-Lole, in Héraclès, op. cit. (η. 7), p. 51-75.
22. Sullo stretto legame nell’Alcesti dei motivi ‘morte’ e ‘matrimonio’ si rinvia all’analisi di R. Rehm, Marriage to Death. The Conflation of Wedding and Funeral Rituals in Greek Tragedy, Princeton, 1994, p. 72-96.
23. Sul rituale nuziale sotteso nella scena cf. M.R. Halleran, Text and Ceremony at the Close of Euripides’ Alkestis, in Éranos, 86 (1988), p. 123-129.
24. Cf. I. Gallo, Ricerche sul teatro greco, Napoli, 1992, p. 33-34.
25. Gli eroi greci. Un problema storico-religioso, Roma, 1958, p. 230 sg.
26. Qualche titolo di commedie di Epicarmo: Busiride, Le nozze di Ebe, Eracle alla conquista del cinto di Ippolita, Eracle presso Fola.
27. Per l’episodio della schiavitù cf. Apollod., II, 6, 2-3; Diod. Sic, IV, 31, 5-8.
28. Per i frammenti di questi commediografi si rinvia all’edizione di R. Kassel, C. Austin, Poetae Comici Graeci I-VII, Berolini et Novi Eboraci, 1983.
29. TrGF 19 F 17a-33. Vd. anche A. Leurini, Ionis Chii testimonia et fragmenta collegit, disposuit, adnotatione critica instruxit, Amsterdam, 1992, fr. 22-38.
30. TrGF 20 F 32-35.
31. Per un panorama d’insieme cf. Galinski, op. cit. (n. 14), p. 80-100.
32. Cf. T. Zielinski, De Hercule tragico deque Heraclidarum Tetralogia Aeschylea, in Eos (1921/2), p. 59 sq. Più scettico M.S. Silk, Heracles and Greek Tragedy, in G&R, 32 (1985), p. 4.
33. Cf. Aristoph., Ran., 1080. Si veda da ultimo: Fr. Jouan, H. van Looy, Euripide. Tome III. Fragments, 1re partie Aigeus-Autolykos, Paris, 1998, p. 309-328.
34. Methodological Reflexions on the Myth of Heracles, in Il mito greco. Atti del Convegno Internazionale (Urbino 7-12 maggio 1973), Roma, 1977, p. 290-291.
35. Cf. Ch. Picard, Rituel archaïque d’Héraclès thasien, in BCH, 47 (1923), p. 246-249.
36. Cf. A. Rehm, Milet III, Delphinion, Berlin 1914, n° 132a, p. 276 sg.
37. Cf. L. Ziehen, Leges sacrae, op. cit. (n. 18), n° 144C, p. 356. Sempre a Cos, secondo Plutarco (Quaest. Gr., 58), il sacerdote di Eracle compiva il sacrificio nuziale vestito da donna e con i capelli agghindati.
38. E.L. Leutsch, F.G. Schneidewin, Corpus Paroemiographorum Graecorum I, Gôttingen, 1839, App. I, 88.
39. Eliano (De nat. anim., XVII, 46) racconta che galline e polli erano separati in due santuari limitrofi di Eracle ed Ebe. Le galline non erano ammesse nel santuario di Eracle.
40. Apollod., II, 4, 11; Diod. Sic, XV, 14, 3.
41. Ovid., Her., LX, 101-102.
42. Quaest. Gr, 58 (304c-e).
43. Lykoph., Alex., 39, 1328; Diod. Sic, IV, 9, 6-7; Paus., IX, 25, 2.
44. Cf. M. Delcourt, Hermaphroditea, Bruxelles, 1966, p. 22.
45. La Loraux, art. cit. (n. 1), p. 48, interpreta l’allattamento in relazione al ferimento della dea al seno destro da parte dell’eroe durante la battaglia (Hom., Il., V, 392-394): “She pays the trice through the incurable pain in her right brest, the pain of the mother stricken in her body, and perhaps also through the suffering of the masculine element within her.”
46. Jourdain-Annequin, Héraclès aux portes du soir, op. cit. (n. 6), p. 399-403. Per altre indicazioni in tal senso cf. C. Bonnet, Héraclès travesti, in Héraclès, les femmes, op. cit. (n. 7), p. 121, n. 3.
47. J. Boardman, D.C. Kurtz, Booners, in Greek Vases in the J. Paul Getty Museum. Occasional Papers on Antiquities, 3, Malibu, 1986, p. 35-70.
48. Sull’insieme del corpus cf. F. Frontisi-Ducroux, F. Lissarague, From Ambiguity to Ambivalence: a Dionysiac Excursion through the “Anakreontic” vases, in Before Sexuality, op. cit. (n. 1), p. 211-256.
49. TrGF 19 F 17a-33a. Si segue qui l’edizione di Leurini, op. cit. (n. 28).
50. Cf. H. van Herwerden, Observationes criticae in fragmenta comicorum Graeco-rum, Lugduni Batavorum, 1855, p. 130.
51. Dem., 68 Β 111 Diels-Kranz.
52. L’attribuzione del fr. *73 L. (“Indossando il corto mantello di lino a metà coscia”) M’Onfale di Ione abbastanza sicura. Più incerto il riconoscimento del personaggio proprietario del chitonisco.
53. Sull’antichità della storia, confrontata con altri racconti mitologici, si esprime senza riserve F. Wulff Alonso, in Héraclès, les femmes, op. cit. (n. 7), p. 104.
54. Si veda in proposito S. Ritter, Eracle e Onfale nell’arte romana dell’età tardo-repubblicana e augustea, in Héraclès, les femmes, op. cit. (n. 7), p. 89-102 (in particolare p. 90-91).
55. Th. Wiegand, Didyma II: die Inschriflen von A. Rehm, Berlin 1958, p. 301.
56. In Apollod., II, 4, 11 Eracle riceve dagli dei le armi che compongono la sua panoplia e da Atena un peplo, ma poco sopra si legge che l’eroe nella guerra contro Ergino e i Mini aveva ricevuto dalla dea un’armatura.
57. Cf. Bonnet, art. cit. (n. 46), p. 123.
58. Loraux, art. cit. (n. 1), p. 39.
Misura e dismisura: da Don Juan a Caligola
Agnès Cousin de Ravel

Introduzione
Euripide ci offre una lettura particolare del mito, inscritta in un certo tempo storico, le cui parole, come ha detto Roland Barthes, "sono un messaggio": Eracle, pur non essendo libero perché le sue fatiche gli sono imposte da Euristeo e pur essendo soggetto al caso, al fato e al destino, sembra, in virtù delle sue imprese, poter respingere costantemente i limiti della vita, e quindi della morte, con una forza e una vitalità che sembrano illimitate e una generosità spesso non priva di violenza. Alla fine, egli conquisterà l'immortalità grazie ad una serie di iniziazioni, in uno slancio verso il “sempre più”, che possiamo pensare come una particolare forma di conoscenza di sé.
La figura di Eracle fa parte della storia e della letteratura francesi da secoli. Nella nostra storia, il mito di un Ercole gallico che incarna forza e coraggio si crea durante il regno di Francesco I, nato nel settembre 1494. Ha 25 anni quando, nel giugno 1520, si incontra con Enrico VIII, re d'Inghilterra, al Camp du drap d'or, per ottenere un’alleanza con l’Inghilterra. L’incontro prevede feste sontuose; nel corso di una di esse, una festa in maschera dedicata ad Eracle, entrambi immaginano di avere la forza di Eracle. L’ultimo giorno, il 24 giugno, Enrico VIII arriva coperto da una pelle di leone fatta con tessuto d'oro.
Il mito di Eracle continua ad evolvere fino a Luigi XIV e serve a rappresentare la forza, l'intelligenza e il successo politico e militare dei re. Nel 1672, un'incisione di Robert Nanteuil raffigura il volto di Luigi XIV incorniciato da foglie d’alloro, ai lati due zampe di leone sormontate da gigli e da un muso di leone. Sembra un nuovo Eracle alla vigilia dell'invasione dell'Olanda. A Versailles, il Salon d'Hercule, con "L'Apothéose d'Hercule" sul soffitto, onora il semidio.
Il mito si perpetua durante la Rivoluzione, quando l'idra da uccidere diventa la Monarchia.
Nella letteratura francese del Seicento, dell'Ottocento e del Novecento, non è il mito in quanto tale ad essere utilizzato, ma i valori ad esso legati: il coraggio, la forza, l'intelligenza, ma anche la dismisura, il superamento dei limiti e l'idea di trasgressione, a volte persino la sottomissione a forze occulte che precipitano la vita dell'eroe verso la morte. Il suo uso nelle opere letterarie dal XVII al XX secolo è polifonico.
Tema del mio intervento sarà la dismisura. I personaggi chiave dei romanzi e delle opere teatrali che vi presenterò non devono compiere le stesse imprese di Eracle, ma superare, volontariamente o involontariamente, per desiderio di onnipotenza o di trasgressione, i limiti imposti dall'ordine sociale, dalla realtà o da forze intrinsecamente incontrollabili.
L'individuo e la società: la prova dei limiti
Il dizionario Treccani offre la seguente definizione di limite: 1. "Confine, linea terminale 2. Il termine spaziale o temporale o comunque quantitativo che non può o non deve essere superato, o il cui superamento ha per effetto un mutamento di condizioni". Superare i limiti significa superare la misura che la società impone a tutti.
Due personaggi illustrano questa nozione con la loro determinazione a uscire dai limiti della società e a ribaltarli: Julien Sorel, che li mette alla prova per approfittarne e salire il più in alto possibile nella società e Don Juan, col suo disprezzo per tutti i valori della società.
La seduzione attraverso la bellezza e l'intelligenza: Julien Sorel
Julien Sorel è il protagonista del celebre romanzo Il rosso e il nero di Stendhal. Figlio di un incolto legnaiolo del Giura, che lo picchiava quando lo vedeva immerso nei suoi libri, è "ebbro di ambizione”. Il suo idolo è Napoleone, di cui conserva segretamente il ritratto. È ferocemente determinato a cambiare completamente la sua condizione sociale e, così facendo, il suo destino, infrangendo le norme sociali, liberandosi dei limiti che esse impongono e che limitano il suo sogno di gloria e di potere. Giovane intelligente e di bell’aspetto, vuole salire gradualmente nella società grazie alle donne, alla religione e allo studio.
Diventato precettore dei Rênal, una nobile famiglia di provincia, seduce Madame de Rênal, una giovane donna nobile, bella e ricca, sposata con il sindaco del comune di Verrières. Quando l'intrigo è scoperto e scoppia lo scandalo, Julien potrebbe rinunciare; un amico gli offre un lavoro modesto ma sicuro, lui rifiuta perché:
Non si trovava come Ercole tra vizio e virtù, ma tra mediocrità con un benessere assicurato e gli eroici sogni della sua giovinezza.
Dopo questo scandalo entra in seminario, il che gli darà l'opportunità di diventare a Parigi il segretario privato del marchese de la Môle, uomo influente e ricco. Con Mathilde de la Môle, figlia del marchese, Julien mette in atto il gioco spesso perverso dell'ambizione e della passione, vera o finta a seconda delle circostanze. Mathilde è sedotta ma, scoperto che lui sta corteggiando una delle sue rivali, è a tratti consapevole del gioco di Julien. Tuttavia, l’impresa di lui sta per avere successo: Mathilde è incinta e il marchese decide di nobilitarlo dandogli in dono delle terre. La sua ambizione sembra soddisfatta, ma Madame de Rênal comunica al suo confessore la relazione con Julien e lo denuncia al marchese de la Môle. A seguito dello scandalo il marchese rifiuta il matrimonio previsto, Mathilde fa leggere a Julien la lettera di Madame de Rênal. Egli parte a cavallo per Verrières e qui, durante una messa domenicale, al momento dell'elevazione, uccide Madame de Rênal con due colpi di pistola. Viene imprigionato e condannato a morte. Mathilde lo perdona e lo aiuta a prepararsi per il processo, durante il quale egli si difende con un discorso dal tono politico. Nato come semplice contadino, dichiara di essersi "ribellato all’umiltà della sua sorte" e denuncia coloro che vogliono
scoraggiare per sempre quella categoria di giovani che, nati in una classe inferiore, e oppressi in certo qual modo dalla povertà, hanno la fortuna di procurarsi una buona educazione e l'audacia di intrufolarsi in quella che l'orgoglio dei ricchi chiama la buona società.
Le sue smisurate ambizioni sociali lo portano alla ghigliottina.
Interrogarsi sui fondamenti della società: Don Juan
Vi parlerò ora di Don Juan, il protagonista di una commedia tragica di Molière scritta nel 1662 durante il regno di Luigi XIV e rappresentata nel 1665. Don Juan mette in discussione tre dei fondamenti della società di quel periodo storico: 1) il matrimonio 2) il rispetto degli obblighi dovuti al proprio rango (in effetti egli appartiene alla nobiltà) 3) la religione, intesa come fede cattolica e rispetto dovuto ai morti.
1. Il matrimonio.
Don Juan, il provocatore, rovescia completamente i valori della società del suo tempo: la fedeltà nel matrimonio e il rispetto per le donne. Sganarello, il suo servo, dice del padrone che passa la vita
come una bestia vera e propria, un maiale d'Epicuro, un autentico Sardanapalo. Sposarsi non gli costa nulla; è la trappola di cui si serve per catturare le donne, ed è un marito a piene mani.
Per don Juan “tutto il piacere dell'amore è nella novità". Abbandona senza scrupoli Elvira, la donna che ha appena sposato, e seduce due contadine che si conoscono tra di loro, promettendo a entrambe contemporaneamente il matrimonio.
2. Il mancato rispetto degli obblighi dovuti al rango
Il padre di Don Juan, che sostiene i valori tradizionali della nobiltà, gli ricorda che la nascita in una famiglia nobile non autorizza nessuno degli eccessi a cui si abbandona: “La nascita non vale niente dove non c'è la virtù”.
Ricordiamo che nel XVII secolo, la virtù era definita come "coraggio fisico o morale; fortezza, valore, forza morale applicata al rispetto delle regole". Don Juan, falsamente, fa credere al padre di essere pentito. Ma intanto dice a Sganarello:
L'ipocrisia è un vizio alla moda, e tutti i vizi alla moda sono presi per virtù. [...] Insomma, questo è l'unico modo per fare impunemente ciò che voglio.
Nell'atto finale, svela la sua strategia:
È un disegno che ho architettato per pura politica, un utile stratagemma, una recita necessaria cui mi sono piegato per manovrare un padre di cui ho bisogno e mettermi al riparo.
Come si può facilmente comprendere, siamo al colmo della doppiezza.
3. La fede
All'epoca la fede era un pilastro della società. All'inizio dell'atto III, Don Juan e Sganarello hanno dovuto nascondersi nella foresta per sfuggire ai loro inseguitori.
Sganarello interroga il suo padrone su ciò a cui crede, per scoprire che non crede né in Dio né nel diavolo né tantomeno nella vita eterna. “Credo che due più due fa quattro, Sganarello; e che quattro più quattro fa otto”.
Alla fine del terzo atto, Don Juan chiama in causa il sacro, ciò che non deve essere toccato, il rispetto che si deve ai morti, uno dei fondamenti di ogni società. Nella foresta, si trova insieme a Sganarello presso la statua del Commendatore che sovrasta la tomba dell'uomo che lui ha ucciso. Per provocazione e derisione, Don Juan lo invita a cena. Sganarello è terrorizzato: la statua infatti li fissa e questo gli pare un avvertimento del cielo, di cui Don Juan si fa beffe. È allora che il destino di Don Juan si rovescia. La statua del Commendatore appare nella sua casa e lo invita a cenare insieme il giorno dopo.
Nelle ultime due scene del V atto, prima appare uno spettro che chiede a Don Juan di pentirsi, cosa che egli rifiuta. Poi appare la statua del Commendatore e gli afferra la mano. Don Juan diventa allora "un braciere ardente". La terra si apre e lo inghiotte tra le fiamme.
In definitiva, abbandonandosi all'eccesso dei suoi desideri, nella trasgressione di tutto ciò che è a fondamento della società, Don Juan si esclude da essa definitivamente. La morte pone fine alla sua dismisura.
Il desiderio di onnipotenza
Affrontiamo ora un’altra forma di dismisura, l'onnipotenza politica. Essa è perfettamente incarnata da due personaggi: Caligola, imperatore romano del I secolo d.C. e Don Carlos, re di Spagna e futuro imperatore Carlo V.
Potenza senza limiti: Caligola e la beffa della vita
Quello che era un desiderio per Don Juan diventa una realtà per Caligola: il tiranno appena salito al potere moltiplica le esperienze per soddisfare la sua sete di eccessi.
Non sono folle. Anzi, non sono mai stato così lucido. Semplicemente ho improvvisamente sentito un bisogno di impossibile. Le cose così come sono non mi soddisfano.
Questo mondo, così com'è, è insopportabile. Perciò ho bisogno della luna, o della felicità, o dell'immortalità, qualcosa di folle forse, ma che non sia di questo mondo.
Si tratta di rendere possibile ciò che non lo è.
Caligola cerca insomma di superare i limiti imposti dalla condizione umana e dalla natura, dando prova in questo modo del suo potere:
Caligola: A che mi giova la mano ferma, a che mi serve questo stupefacente potere se non posso cambiare l’ordine delle cose, far sì che il sole tramonti a oriente, che diminuisca il dolore, che gli esseri non muoiano più?
Cesonia, la moglie: Ma è voler uguagliare gli Dei. Non conosco peggiore pazzia.
Caligola Tu pure mi credi folle. E che cos’è, dopo tutto, un Dio, perché io desideri essergli uguale? Ciò che ora desidero con tutte le mie forze è al di sopra degli dei. Prendo jn mano un regno in cui regna l'impossibile. [...] Voglio mescolare cielo e mare; confondere bruttezza e bellezza; far zampillare il riso dalla pena. [...] E quando tutto sarà fatto, e l'impossibile sarà sulla terra, la luna nelle mie mani, allora, forse, io stesso sarò trasformato e il mondo con me, e gli uomini non moriranno e saranno felici. […]
Per un uomo che ama il potere la rivalità degli dei è irritante. Io l’ho soppressa. Ho dimostrato a questi dèi illusori che un uomo, se vuole, può esercitare senza doverlo apprendere il loro ridicolo mestiere.
Caligola fu indiscriminatamente crudele con i suoi sudditi. Ordinò la morte di patrizi, funzionari di corte e persino della moglie Cesonia, che strangolò lui stesso.
La vita non è altro per lui che un gioco macabro, il cui esito è la morte. Questo è ciò che Camus ci insegna attraverso il processo di mise en abyme tipico del teatro: Camus mette in scena Caligola, che a sua volta mette in scena la propria dismisura. Caligola è consapevole della vanità di questa dismisura; sa perfettamente che tutto ciò che fa, la sua sete di eccessi, non è altro che un gioco sinistro e mortale. La vita è solo un immenso palcoscenico. Un gioco truccato, perché la morte attende tutti, prima o poi. Come dice a Cesonia alla fine del primo atto:
L'amore, Cesonia! Ho imparato che non è niente. [...] Ah, ora comincio a vivere. Vivi, Cesonia; vivere è il contrario di amare. Io te lo dico; e ti invito a una festa smisurata, a un processo totale; allo spettacolo più bello. E ho bisogno di pubblico, di spettatori, di vittime e di colpevoli! (Raggiunge d'un balzo il gong e comincia a battere, senza interruzione, raddoppiando i colpi sullo strumento. Sempre battendo) Fate entrare i colpevoli! Ho bisogno di colpevoli. E tutti sono colpevoli. (sempre battendo il gong) Voglio che siano introdotti i condannati a morte. E un pubblico Voglio il mio pubblico. Giudici, testimoni, imputati, tutti condannati in anticipo. Ah Cesonia, mostrerò a tutti ciò che non hanno mai visto: Il solo uomo libero di questo Impero!
Infine, all'inizio del terzo atto, Caligola è al centro della scena. Travestito da Venere, è adorato in questo costume dai patrizi. Alla fine della scena, li arringa così:
E ora signori potete andare e diffondere in città la notizia dello sbalorditivo miracolo a cui vi è stato concesso di assistere. Avete visto Venere, con i vostri occhi. E Venere vi ha parlato. Signori, andate (Movimento tra i patrizi). Un momento! Uscendo, prendete il corridoio a sinistra. In quello di destra ho appostato delle guardie per farvi assassinare.
Nella scena successiva:
Non comprendiamo il destino e per questo ho fatto di me stesso il destino. Ho preso l'aspetto stupido e incomprensibile degli Dei: ed è quello che loro hanno appena adorato.
[…] L'errore di tutta quella gente è di non credere abbastanza al teatro. Se ci credessero saprebbero che è consentito, al primo che passa, recitare le tragedie celesti e diventare Dio. Basta indurire il cuore.
Alla fine della commedia, Caligola viene assassinato.
Il miraggio dell'onnipotenza e la vanità dell'eccesso: Don Carlos
Don Carlos è un personaggio della tragedia Ernani, di Victor Hugo. È il futuro Carlo V, e Hugo lo rappresenta nel momento in cui sta per diventare imperatore e realizzare così il suo sogno di onnipotenza sulla terra. Nell'opera di Hugo Don Carlos ha diciannove anni.
La scena prima del IV atto si svolge ad Aquisgrana, presso la tomba di Carlo Magno. Vi si accede da un'unica porticina illuminata da una lampada. Don Carlos, inseguito dai suoi assassini, è accompagnato da alcuni fedeli mentre l'assemblea che deve eleggere il futuro imperatore delibera. Esaltato perché sta per ottenere un potere quasi illimitato, data l'estensione dell'impero, esprime il suo disprezzo per i rivali, tra cui Francesco I, anch'egli in lizza per l'impero, e insieme la sua ambizione e il desiderio di essere eletto imperatore, quale che sia il prezzo da pagare, oltre ogni misura.
Eleggeranno Francesco I o il loro sassone, il loro Federico il Saggio! [...] principi dell'Assia, più piccoli delle loro province! giovani imbecilli! vecchi viziosi! Corone, sì, certo! Ma le teste? Cercatele! Un ridicolo concilio di nani, che io potrei portarmi via, come Ercole, nella mia pelle di leone! E che, spogliati del loro manto viola, non raggiungerebbero la statura del mio buffone! Ricardo, mi mancano tre voti! Mi manca tutto! Oh Ricardo, amico mio, se solo volessero io gli darei Gand, Toledo e Salamanca, tre città a loro scelta, in cambio di tre voti! Sì, per quei tre miserabili voti cederei tre delle mie città di Castiglia o delle Fiandre! Salvo riprendermele più tardi!
Nella scena successiva Don Carlos, solo, accanto alla tomba di Carlo Magno, si rivolge a lui con un lungo monologo in cui ricorda il potere politico quasi illimitato dell'imperatore, pari solo a quello del Papa con il consenso di Dio.
Il papa e l'imperatore sono tutto. Non esiste nulla sulla terra che non venga da loro e per loro. In loro vive un mistero supremo e il cielo, da cui hanno tutti i diritti, prepara per loro un grande banchetto di popoli e re. E li tiene sotto la sua cupola, da cui romba il tuono, soli, seduti alla tavola dove Dio serve loro il mondo. L'uno sta accanto all'altro, misurando e tagliando, ordinando l'universo come un mietitore il proprio campo[...]
Essi fanno e disfano. Uno scioglie i nodi, l'altro li trancia. Uno è la verità, l'altro la forza. [...] l'universo abbagliato contempla con terrore le due facce di Dio: l'imperatore e il papa. L'imperatore! L'imperatore! Essere imperatore! O rabbia, non poterlo essere! E sentire il cuore colmo di coraggio!
Insegnami i tuoi segreti per vincere e regnare, dimmi che la grandezza sta più nel castigo che nel perdono!
Ma subito dopo Don Carlos fa i conti con la realtà della morte. Carlo Magno, l'uomo più potente del suo tempo, davanti all'eternità è solo polvere.
Che fortuna ha avuto chi dorme in questa tomba! Quanto è stato grande! Ai suoi tempi la gloria era ancora più grande. Il Papa e l’imperatore! [...] Che destino! E questa è la sua tomba! [...] Guardate! essere stato principe, imperatore e re! [...] Essere stato la spada e la legge, essere stato il gigante che usava la Germania come piedistallo! Essersi chiamato Carlo Magno ed essere stato insignito della dignità di Cesare. Essere stato più grande di Annibale e Attila, grande come l’universo … per far confluire tutto questo là dentro! Affannatevi a conquistare un impero e vedrete di quanta polvere è fatto un imperatore! [...] Sapete cosa resterà un giorno? Che follia! Solo questa pietra.
Alla fine del quarto atto, Don Carlos è di nuovo solo davanti alla tomba di Carlo Magno, dopo essere stato affrontato dai cospiratori guidati da Ernani, il suo rivale politico e amoroso. Ernani gli rivolge parole d’odio.
Ascoltami: tuo padre ha fatto morire mio padre, io ti odio. Mi hai sottratto il titolo, le ricchezze: ti odio. Amiamo entrambi la stessa donna: ti odio, ti odio. Sì, ti odio dal profondo dell'anima.
Inizialmente, avvolto nella sua pelle di leone Don Carlos aveva pensato, di spazzare via tutti i pretendenti all’impero, in preda a un’aggressività irrazionale benché umana. Ma davanti alla tomba di Carlo Magno ne raccoglie il messaggio di clemenza e rinuncia ad ogni pensiero di vendetta. L’umanità ha la meglio sulla violenza. La sua dignità di imperatore non sarà macchiata dalla vendetta.
In definitiva, come Eracle, Don Carlos viene a simboleggiare la condizione umana, tra miseria e speranza. Dal suo progetto di potere quasi assoluto, don Carlos conquista finalmente la sua vera grandezza come Eracle che conquista la sua felicità al prezzo di eccessi e sofferenze durante i dodici lavori.
La forza del destino
Treccani (ant. distino) s. m. [der. di destinare]. - 1. La predeterminazione fatale dell'accadere; il succedersi degli eventi ritenuto come preordinato e necessario, al disopra dell'umana capacità di volere e di potere. fatalità, fato.
Il destino assume molte forme. Nell'opera di Euripide, Eracle, che fino ad allora era stato guidato solo dalla giustizia, uccide la moglie e tre dei suoi figli accecato da Lyssa, la furia e la mano armata di Era. Vedremo che il destino è una forza indomabile per Paul d'Aspremont, nel quale si manifesta come jettatura, simboleggiando l'opposizione tra volontà del soggetto e forze irrazionali che lo governano.
Paul d'Aspremont, un giovane "jettatore" francese, è il protagonista di un romanzo di Gautier, che si intitola Jettatura.
Il dizionario Treccani dà due definizioni: IETTATURA Parola napoletana (dal lat. iactare "gettare", cioè appunto il malocchio) divenuta di uso comune per indicare la presunta capacità di alcuni individui (e talvolta animali: rospo, ecc.) di nuocere altrui, senza volerlo, con lo sguardo. Fàscino s. m. [dal lat. fascĭnum "maleficio; amuleto"]. - 1. Malia, influenza malefica che si ritiene possa emanare dallo sguardo degli invidiosi, degli adulatori, degli affetti da qualche morbo.
Nel romanzo, "il fascino è l'influenza perniciosa che esercita la persona dotata, o piuttosto afflitta, dal malocchio".
Una nave da crociera proveniente da Marsiglia attracca nel porto di Napoli. Sbarcano degli stranieri, eleganti, inglesi e francesi, tra cui un giovane uomo, Paul d'Aspremont, dal volto enigmatico; egli produce "un effetto di terrore", anche se è impossibile dire perché, dato che i suoi tratti sono belli anche se irregolari.
Tutto il suo aspetto, "la sua enigmatica fisionomia", il suo sguardo possono far pensare a uno jettatore.
Se i suoi occhi si fissavano su qualche persona o qualche oggetto, le sopracciglia si riavvicinavano, s’increspavano ed appariva allora nella fronte una fitta ruga perpendicolare: le pupille, da grigie divenivano verdi, si tigravano di punti neri, si striavano di fibrille gialle: lo sguardo vi scintillava acuto quasi volendo ferire; poi tutto ad un tratto, riprendeva la sua prima placidità ed il nostro personaggio mefistofelico ritornava un giovanotto elegante.
In lui la dismisura non si manifesta in azioni eclatanti, ma in piccoli eventi quotidiani che si distinguono dalla norma, dalle cose comuni, dal solito. E, come Eracle, anche Paul d'Aspremont è in bilico tra la propria volontà e le forze irrazionali che lo abitano.
In effetti, in sua presenza, si verificano fenomeni curiosi: dal ponte della barca, all'arrivo nel golfo di Napoli, Paul d'Aspremont osserva un'imbarcazione, il vento si alza improvvisamente quando fino a quel momento tutto era calmo, e la barca si rovescia. Al teatro San Carlino, in uno spettacolo intitolato "tutto da ridere", l'attore si confonde, rimane "basso"; i vicini di Paul lasciano il teatro mormorando che è uno "jettatore". Se ne rendono conto anche i domestici e le cameriere che hanno a che fare con lui. Mangia poco, anche se è ricco, ha i capelli rossi e "gli occhi un po' sporgenti". Sono convinti che gli basti guardare una nuvola per far piovere a dirotto.
Paul d'Aspremont è incuriosito dalla mimica e dalle imprecazioni dei napoletani nei suoi confronti. Per approfondire l'argomento legge il libro di Nicola Valletta Cicalata sul fascino volgarmente detto jettatura, pubblicato nel 1820, facilmente reperibile a Napoli. Deve arrendersi all’evidenza: è uno jettatore. Fin dall'infanzia ha seminato morte (della madre, degli amici).
Io sono dunque un assassino, un demonio, un vampiro! Io uccido questa creatura celeste, e getto nella disperazione questo vecchio!
Con il passare delle settimane, Alicia, la ragazza che lui ama, impallidisce e si indebolisce sotto il suo sguardo inquieto. Durante una visita, lei gli chiede di guardarla dritta negli occhi per dimostrare la sincerità del suo amore. Poco dopo si sente male. Per lei è l'inizio della fine.
Felipe Comte d'Altavilla, un giovane nobile napoletano che frequenta Alicia, si rende subito conto del potere malefico di Paul e offre immediatamente alla giovane le corna: "ciò serviva come protezione contro il fascino". Alicia si rifiuta di credere a ciò che considera irrazionale: “tutto ciò è chimera, stravaganza, superstizione" mentre Altavilla le dice:
Che c'è d'assurdo nel supporre che si sviluppi da questo disco, nero, bleu, o grigio, un raggio propizio o fatale?
Felipe farà di tutto per salvare Alicia, anche sfidare Paul a duello. Il duello si svolge con gli occhi bendati su richiesta di Aspremont, che progetta un duello "leale e corretto" nelle antiche terme di Pompei, "città morta, cadavere di città” per non indebolire il suo compagno. Nonostante tutto, Altavilla viene ferito a morte. Aspremont torna a vedere Alicia per l'ultima volta, dopo essersi accecato per non farle del male. Quando arriva, Alicia è appena morta. Lui stesso morirà: mentre cammina cieco nella campagna perde l'equilibrio su una roccia a picco sul mare e precipita.
Conclusione
Don Juan, Julien Sorel, don Carlos, Caligola, Aspremont non sono semidei. Alla fine dell’opera di cui sono protagonisti muoiono, come ogni essere umano. Julien Sorel muore per troppa ambizione, in balia delle sue pulsioni di morte e in totale opposizione alla società di cui ha voluto infrangere le regole. Don Juan e Caligola vogliono vivere appieno le loro esperienze, rovesciando l'ordine sociale stabilito; non si preoccupano minimamente dell'altro, ne negano perfino l’esistenza, negando l'elemento umano nell’altro e, in definitiva, in sé stessi. Nessuno di loro diventa un dio come Eracle. Anche Don Carlos, che all’inizio sogna di ottenere un potere quasi assoluto sulla terra, una volta diventato imperatore esercita il suo potere non in uno spirito di vendetta o di odio ma secondo la grandezza della sua carica. Paul d'Aspremont, infine, come Eracle che è vittima della vendetta di Era, è vittima delle circostanze e del destino. Come Eracle, questi eroi si confrontano in un modo o nell'altro con la questione dei limiti. Come Eracle, ci raccontano le difficoltà e le peregrinazioni dell'azione umana quando si confronta con l'ordine del mondo.
Opere letterarie studiate:
Molière (1622-1673), Don Giovanni. Questa commedia in cinque atti fu scritta nel 1665 e rappresentata per la prima volta durante il regno di Luigi XIV, che era un mecenate degli artisti e in particolare di Molière, che apprezzava. La trama drammatica si basa su tre fondamenti della società sotto il regno di Luigi XIV: il matrimonio, i valori della nobiltà e la religione, fondamenti che Don Giovanni mette costantemente in discussione.
Hugo (1802-1885), Hernani, 1830; un anno politicamente travagliato in Francia (Rivoluzione di luglio del 1830, i "Tre anni gloriosi"). Luigi Filippo sale al trono), ma è anche un anno di intensa creazione letteraria e artistica, con forti opposizioni tra antichi e moderni. In Hernani, Hugo riprende la storia di Carlo V (1500-1558) nel momento in cui sognava di diventare imperatore con il voto degli elettori del 28 giugno 1519. Essere imperatore era per lui un sogno di onnipotenza sulla terra. La scena si svolge nel 1519. Il futuro Carlo V, Don Carlos, re di Spagna, nell'opera di Hugo ha diciannove anni. Una parte dell'opera si svolge ad Aix-la-Chapelle, dove si tiene il conclave per eleggere il futuro imperatore. La trama è molto complessa, con uno sfondo di lotte politiche tra Don Carlos ed Ernani (il fuorilegge che si rivela essere Don Giovanni di Aragona) e di lotte amorose, poiché sia Don Carlos che l'anziano Don Ruy Gomez da Silva, grande di Spagna, amano la stessa donna, Doña Sol, nipote e fidanzata di Don Ruy Gomez.
Stendhal (1783-1842), Il rosso e il nero, 1830. È l'epoca della Restaurazione, poco prima dei "Tre anni gloriosi". Stendhal si ispira all'affare Berthet, in cui un giovane di estrazione sociale piuttosto povera, proveniente da un gruppo di artigiani, si vendica della sua amante per non aver raggiunto il successo sociale che desiderava. La uccide e viene condannato a morte. Nel romanzo, Julien Sorel, figlio di un boscaiolo, vuole salire la scala sociale e infrangere tutti i limiti dell'ordine sociale, attraverso le sue relazioni amorose e grazie alla sua intelligenza, cultura e bellezza.
Gautier (1811-1872), Jettatura, 1856, racconto apparso a puntate dal 25 giugno al 23 luglio 1856 su "Le Moniteur universel", in un periodo di sviluppo della stampa. eIl racconto si svolge durante il Secondo Impero, dopo la breve Seconda Repubblica. Jettatura riprende la credenza nella jettatura nell'Italia meridionale dei secoli passati, in particolare a Napoli. Un francese, Paul d'Aspremont, giovane uomo di mondo, raggiunge a Napoli la fidanzata Alicia Ward, nipote del commodoro Ward. Si scopre che è uno "jettatore", un essere soggetto a un destino di morte, impotente a rimanere padrone della propria vita.
Camus (1913-1960), Caligola, 1945. Scritta nel 1944, con riferimento alla Storia dei dodici Cesari di Svetonio, da cui Camus riprende alcuni passaggi e fatti, l'opera fu rappresentata per la prima volta il 7 settembre 1945, subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale. L'opera narra la storia romana dell'imperatore Caligola (12 d.C.-41 d.C.), che regnò dal 16 marzo 37 al 24 gennaio 41. (3 anni, 10 mesi e 8 giorni). Caligola, tiranno appena salito al potere, moltiplica gli esperimenti trasgressivi per soddisfare il suo bisogno dell'impossibile.
Tra virilità e femminilità: un eroe dalla doppia natura?
Angela Peduto
Prologo

Quando Eracle, venendo da là, arrivò nella regione attualmente chiamata Scizia, sorpreso dall'inverno e dal gelo, si avvolse nella sua pelle di leone e si addormentò; nel frattempo, per un caso voluto dagli dei, le sue cavalle, staccate dal carro, scomparvero mentre stavano pascolando.
Eracle, appena si svegliò, si mise a cercarle e dopo aver percorso tutto il paese giunse infine nella terra chiamata Ilea; là, in un antro, trovò un essere dalla doppia natura, metà ragazza e metà serpente”: la parte superiore, dai fianchi in su, era di donna, la parte inferiore di serpente. Guardandola pieno di meraviglia, le chiese se avesse visto da qualche parte vagare delle cavalle. Lei rispose che erano in suo possesso e che non gliele avrebbe restituite prima che avesse fatto l’amore con lei: a tale prezzo Eracle acconsentì. Ma essa, desiderando stare insieme a Eracle il più a lungo possibile, rimandava la restituzione, mentre lui voleva recuperare le cavalle e andarsene. Alla fine gliele rese e disse: «Io ti ho salvato queste cavalle che erano arrivate fino a qui e tu me ne hai pagato il prezzo: da te ho concepito tre figli. Dimmi che cosa devo farne quando saranno diventati adulti, se devo tenerli a vivere qui, dato che regno su questa regione, o se devo mandarli da te». Lei gli pose questa domanda ed Eracle, narrano, le rispose: «Quando vedrai che i ragazzi saranno ormai uomini, comportati come ti dico e non sbaglierai: quello che vedrai tendere quest’arco come lo tendo io e cingere così questa cintura, lascialo abitare in questo paese; invece quello che non riuscirà a compiere le azioni che dico, mandalo via. Se agirai così, avrai motivo di rallegrartene tu stessa e nello stesso tempo avrai eseguito i miei ordini». Eracle dunque tese uno dei suoi archi (fino ad allora ne portava due) e le mostrò come allacciare la cintura; poi le consegnò sia l'arco sia la cintura, che aveva una coppa d’oro sulla punta della fibbia; e, dopo averle donato questi oggetti, partì. (Erodoto, IV, UTET, trad. Fiorenza Bevilacqua)
Questo racconto di Erodoto ci introduce nel nostro discorso, che avrà come tema il rapporto di Eracle con le donne ma soprattutto, al di là di esse, col femminile.
Nel racconto si annuncia tutta la costruzione mitico-ideologica ulteriore intorno all’eroe colonizzatore: Eracle passa, feconda la straniera e dà così origine a una discendenza che regnerà su quelle terre. Ma il punto che qui ci interessa è un altro, ed è l’atteggiamento di Eracle verso la donna che non è affatto congiunturale: al contrario, lo caratterizza.

Egli vede la mixoparthenos, la creatura ibrida, si stupisce del prodigio ma pensa solo alle sue cavalle perdute. Lei gli propone un commercio, o meglio un misthòs (un compenso, una retribuzione): lei gli restituirà le cavalle in cambio della loro unione. Lui esegue. Lei vuole trattenerlo. Lui, recuperate le cavalle, vuole partire. Non una parola per la donna-serpente, non un cenno al suo desiderio: sarebbe questo il philogunes, l’amante delle donne, colui che ha “un vigoroso gusto per le donne”? La figura femminile tratteggiata da Erodoto ha uno spessore e una personalità di cui tutte le altre saranno sprovviste: è lei che prende l’iniziativa in materia d’amore, è lei che propone lo scambio – le cavalle in cambio dell’unione -, è lei che ritarda il tempo del commiato. In qualche modo si contrappone con la sua autonomia alla pulsione senza lirismo che spinge Eracle a possedere non tanto delle donne o quella donna, quanto, forse, l’elemento femminile nel suo insieme.
Le donne, nella vicenda terrena di Eracle, sono figure anonime, assenti. Sono poche quelle che fanno eccezione: Onfale, la regina che osa vestire la pelle di leone e brandire la clava, Dejanira, che lo uccide. Perfino Iole, la fanciulla che causerà la morte dell’eroe suscitando la gelosia di Dejanira, resta avvolta dal silenzio. Le donne valgono non per ciò che sono o rappresentano, ma perché sono la posta in gioco di qualcosa.
Eracle le feconda al suo passaggio per fondare una nuova discendenza, oppure le affronta con la forza per sottrarre loro qualcosa (come Ippolita, regina delle Amazzoni, a cui deve sottrarre la cintura) o per ucciderle. Eccoci dunque davanti a un Eracle misogino o, per essere più precisi, espressione della misoginia greca. E tuttavia … le cose sono più complesse di quanto possa apparire a prima vista.

Una lettura diffusa dell’avventura di Onfale – i tre anni di sottomissione alla regina di Lidia durante i quali l’eroe rinuncia alla clava e alla leonté, attributi classici della sua forza e della sua virilità, per fare cose da donna – ci consegna un Eracle asservito a una donna e svilito nella sua mascolinità. È un episodio poco amato dai difensori della virilità di Eracle, cui piace considerarlo soltanto una sovrapposizione tardiva di epoca ellenistica. Ora, non c’è dubbio che Eracle sia l’eroe per eccellenza della forza e della virilità: ma siamo certi che tra forza e virilità esista un’equivalenza così stretta? Siamo certi che per i Greci “femminilizzarsi” abbia un senso così strettamente “antimaschile” e “antieroico”?
A voler troppo separare ‘l’arcimaschio’ da ogni femminilità - scrive Nicole Loraux -, non si rischia di cancellare tutto il rapporto ambivalente che l’eroe della forza – e forse ogni eroe, dall’epoca omerica in poi – intrattiene con la femminilità? Ampliando la questione: a insistere soltanto sulla paura dell’uomo greco davanti alle donne e sulla minaccia di femminilizzazione che esse farebbero pesare su di lui, non si riduce drasticamente il peso di certe cerimonie (a cominciare da quelle teatrali, dove l’identificazione col femminile teneva gran posto) o di certe rappresentazioni, che assegnano al femminile un valore positivo in seno ad una cultura comunque largamente maschile? (N. Loraux, 1989)
Così, al di là del rapporto di Eracle con le donne, c’è un altro aspetto, più sottile, meno studiato, ed è il suo rapporto con la femminilità, il modo con cui l’eroe è attraversato, lavorato dal femminile nella sua stessa intimità.
Di questo ci occuperemo, affidandoci a un lavoro col quale Nicole Loraux partecipò nell’ottobre del 1981 alle Giornate di Douville dedicate al mito.
Nicole Loraux, storica dell’antichità e filologa greca, è tra le maggiori intellettuali francesi del secondo Novecento. Si forma all’École des hautes études en sciences sociales, dove poi insegna “Storia e antropologia della città greca” dal 1981 al 1994. Il suo campo di ricerca è la città greca arcaica e classica ed elettivamente la città ateniese del V secolo, all’apogeo dell’organizzazione civica e del sistema democratico.
Insofferente alle frontiere tra le discipline, che considerava limiti alla creatività dello studioso, ha avuto l’audacia di trasgredirle, polverizzando le ripartizioni tradizionali della ricerca. Ha mobilitato il teatro, la poesia, la storia, la filosofia e soprattutto la psicoanalisi, creando nel campo degli studi greci un nuovo approccio epistemologico, aperto alla multidisciplinarità e sorretto da un profondo rigore filologico. Mescolando deliberatamente i tempi storici, ha interrogato il presente a partire dalla città greca e la città greca alla luce della contemporaneità, perché “si deve comprendere il presente con il passato e il passato con il presente”.
Si è occupata del concetto di democrazia, da lei intesa come esito dell’oblio del conflitto nella polis; si è occupata del femminile, concepito come “operatore” che “sovverte l’ordine della città dominato dal maschile e la cui negazione è costitutiva della politica ateniese”.
Non si tratta dunque di indagare la storia delle donne, impresa quasi impossibile, poiché “nessuna figura è più difficile da raggiungere, nessuna vita più chiusa sul segreto della sua quotidianità, di quanto siano la figura e la vita di una donna Greca senza storia”. Esclusa dalla storia, che sia quella delle guerre o quella dello spirito, la donna greca si disegna solo attraverso lo sguardo e il discorso degli uomini. In effetti quello che interessa Nicole Loraux è il femminile come costruzione: qualcosa che trascende le donne reali e le loro vite sociali. Questo spostamento dalla donna al femminile le permette di non limitare la sua riflessione alle differenze fisiologiche tra i sessi o alle differenze dei ruoli sociali. Per Nicole Loraux sono sempre in gioco operazioni di pensiero. In quanto tale, in quanto costruzione psichica, il femminile può abitare l’uomo così come il maschile la donna.
A Deauville Nicole Loraux presentò un lavoro affascinante, in cui mise in luce l’ambivalenza del personaggio di Eracle e mostrò come l’eroe sembri costantemente oscillare tra “supermascolinità” e “femminilità”, al punto da far pensare che sia “una delle figure greche della femminilità nell’uomo”: figura tanto più emblematica in quanto, se c’è un eroe per eccellenza della virilità, è proprio Eracle.
È ben noto che la rappresentazione dell’immagine femminile nel mondo greco è quasi sempre connotata da attributi negativi; la donna è naturalmente viziosa e manchevole e quando viene connotata positivamente, è solo perché accondiscende al ruolo di obbediente domesticità che le viene imposto.
E tuttavia – questa è la tesi di Nicole Loraux -, il problema della differenza e del rapporto tra i sessi nel mondo greco non si comprende né si risolve fermandosi alla semplice opposizione tra uomini e donne, espressa attraverso i rispettivi ruoli sociali. Il pensiero greco antico non si riduce a una tabella di opposizioni; esso sfida la ripartizione binaria di una mascolinità ideale e di una femminilità pura, rigidamente divise. Le formulazioni greche della differenza tra i sessi sono molto più complesse e intricate di quanto appaia dalle fonti ufficialmente formulate e consegnate ai posteri; per comprenderle occorre scavare altre fonti, occorre scavare l’epopea e la tragedia. Lì si trovano luoghi immaginari dove l’opposizione tra maschile e femminile non si mostra affatto così netta come farebbero pensare i testi antichi ufficiali e più edificanti. La figura di Eracle è uno di questi luoghi: il mito e la tragedia restituiscono un eroe attraverso cui il mondo culturale greco, al di là della realtà istituzionale della polis, al di là dei ruoli prescritti e trasmessi, al di là della storiografia ufficiale, non smette di interrogarsi sulla spinosa questione del rapporto tra i sessi e del rapporto dell’uomo con la femminilità.
Sotto l’evidente esaltazione dell’anḗr (cioè l’uomo definito dalla sua mascolinità) io scopro la preoccupazione di definire l’uomo-cittadino attraverso una virilità che nulla di femminile potrebbe scalfire. E in questa preoccupazione vedo lo sforzo duraturo della politica greca (forse, più in generale, della politica?) di rimuovere ai suoi margini una tradizione contraria, o quanto meno altra. Un’altra tradizione, ugualmente greca che, dall’epopea omerica alla leggenda eroica, postula che un uomo degno di questo nome sia più virile se ospita in sé della femminilità. (ET, p. 8)
Al colloquio di Deauville partecipavano psicoanalisti ed ellenisti. Non dimentichiamo che la relazione tra psicoanalisi e cultura greca è originaria. Freud era imbevuto di cultura greca, e questa è presente dappertutto nella sua opera, ben oltre la nota formulazione del complesso di Edipo tratta da Sofocle. Quanto a Nicole Loraux, scrive: “Storici e antropologi della Grecia generalmente si guardano da ogni riferimento alla psicoanalisi […] Da parte mia, ho concepito questo riferimento come un supplemento di libertà. Non si tratta di prendere in prestito delle tesi o applicarle ad ogni costo, ma di un invito a costruire. Costruire per soddisfare la pulsione di comprendere e per raggiungere un oggetto nella sua specificità”. Così non si tratta affatto di imporre ad Eracle un “plus di psicologia”. Il personaggio tragico è come il personaggio di un sogno: sprovvisto di vita propria, è espressione dell’interiorità del sognatore. Il mito stesso, come ha detto Freud, può essere pensato come l’equivalente collettivo di un sogno, un sogno che scaturisce dall’immaginario greco a cui la storica dell’antichità si accosterà senza negare né l’alterità di questo mondo né le analogie col presente, muovendosi alla frontiera tra alterità radicale e illusione di familiarità. Scrive, ripercorrendo il suo percorso intellettuale: “Per penetrare le categorie greche occorreva che, in un modo o nell’altro, noi condividessimo qualcosa dei loro pensieri e dei loro sentimenti. Questo comportava anche che non si facesse tabula rasa delle molteplici letture che, da loro a noi, erano state date della Grecia antica: perché queste letture, soprattutto se recenti, come quelle di Nietzsche o di Freud, non potevano passare sotto silenzio: sono parte integrante di una tradizione sedimentata che ci lavora senza che nemmeno ce ne rendiamo conto”.
Le contraddizioni di Eracle: filogino o misogino?
Eracle è tutto nei suoi atti, nelle vicissitudini eroiche e dolorose di una storia dove una forza smisurata è consegnata alla volontà di qualcun altro, sottomessa a un destino deciso nel momento stesso in cui egli viene concepito.
Eroe della forza, la sua natura è costantemente contraddittoria. “Lo splendente eroe è insieme schiavo, donna e folle”, ha scritto Burkert nel suo studio sui Greci (Walter Burkert, I Greci). Serio e burlesco, giudizioso e folle, salvatore e distruttore, libero e schiavo, umano e divino, Eracle è tanto l’eroe culturale che fonda città, giochi, rituali e civilizza il mondo, quanto l’animalesco divoratore di bestiame, il brutale violentatore di donne, i cui appetiti, in fatto di cibo, bevande e sesso, ricordano più un toro o una bestia che un eroe sul cammino della divinizzazione. Eroe del ponos, del lavoro faticoso e duro, ma anche amante del piacere, dei bagni caldi e dei letti morbidi, la sua stessa forza ha un carattere ambivalente. Possiede quella qualità di menos, di valore e coraggio, che gli dei concedono agli eroi omerici nell’Iliade. Ma il menos in eccesso può sfociare nella ferocia e nella violenza, come quando ancora giovanissimo, infuriato per una punizione ricevuta, uccide Lico, il maestro di musica. Oppure può diventare mania: allora quella stessa forza prodigiosa che gli consente di sconfiggere creature mostruose si trasforma in follia distruttiva.
Nel mondo greco della guerra e delle imprese, forza e virilità coincidono e nessun dubbio che Eracle sia portatore di una sessualità pari alla sua forza, prepotente e instancabile.

Il re di Tespie era figlio di Eretteo e di Prassitea, sua moglie era Megamede. Nel periodo in cui Eracle stava cacciando il leone di Citerone fu suo ospite; il re aveva 50 figlie molto irrequiete e temendo che potessero darsi ad amori sconvenienti decise di approfittare della presenza di Eracle per far generare un figlio ad ognuna. Gli offrì perciò la primogenita Procri come compagna di letto ed Eracle ben felice non disdegnò tanta ospitalità. Ma Tespio ogni notte gli mandava una figlia diversa tranne l'ultima che volle serbare vergine.
Un'altra versione dice che Eracle le possedette tutte in una notte. In questa versione, solo quarantanove dormirono con l'eroe, mentre la cinquantesima fu destinata a servire come sacerdotessa vergine di un tempio di Eracle, come punizione per il suo rifiuto di dormire con lui. Nell'Antologia Palatina si racconta di tale episodio come la sua tredicesima fatica e che la più giovane e la più anziana partorirono due gemelli. (fonti antiche: Apollodoro, Biblioteca II; Antologia palatina XVI; Diodoro Siculo, Biblioteca storica, IV:29)

Questo eroe in perpetuo movimento passa, deflora e feconda le ragazze che trova sul suo cammino, oppure si sposa, in ogni caso genera figli, poi se ne va. Oggetto di conquista e di godimento, il corpo femminile è per lui sempre nuovo, sempre mutevole. Philogunès, si dice di Eracle: amante delle donne. Ma vale per lui anche la definizione esattamente opposta: misogunès: Eracle è un misogino convinto. Nelle Argonautiche la sua misoginia è palese: non solo, al contrario dei compagni, si tiene lontano dalle donne, ma è tutto preso dall’amore omosessuale per il giovane Ila. E se mai avessimo bisogno di altri elementi, ricorderemo che il mito registra a suo carico solo figli maschi: il maschio si perpetua e si moltiplica nel maschio.

Eracle non sfugge insomma alla misoginia che caratterizza la cultura greca e che comporta e implica una rigida separazione tra i sessi: a Delfi e in altre città greche alle donne è vietato entrare nel suo tempio.
E tuttavia … il mito scompiglia, confonde, ingarbuglia.
L’indifferenza del misogino è pari alla passione che talvolta lo afferra e lo spinge ad azioni selvagge, come quando, davanti al rifiuto di Euristo, il padre di Iole, di dargli la figlia, lo uccide, saccheggia la città e poi, contravvenendo ad ogni norma, invia alla propria moglie la fanciulla per la quale arde di desiderio.
Misogino, ma anche schiavo delle donne. Misogino, ma anche paladino e protettore delle donne: Dejanira, la donna funesta che lo uccide, è lui che la salva sottraendola alle voglie lascive del centauro.
Eracle le ama e le respinge, le desidera e le abbandona, le sposa e le uccide, le possiede e ne è posseduto: è come se dovesse delle donne prendere tutto, come se alle donne dovesse tutto, la sua statura eroica o la sua stessa identità. Nel celebre racconto attribuito a Prodico e riportato da Senofonte (Memorabili), la scelta di Eracle tra vizio e virtù si compie incontrando due donne. Un giovane Eracle si trova al bivio della sua vita: ci sono due strade e deve decidere quale imboccare. Due donne gli si fanno incontro, la Virtù e la Felicità – o Vizio come la chiama chi la disprezza –, ognuna cerca di persuaderlo a imboccare la via che essa rappresenta.
Se per Edipo il crocicchio è il luogo d’incontro con la figura della Sfinge, cioè con l’enigma del desiderio, la colpa e la ricerca della verità, per Eracle è il luogo dove due donne lo confrontano con due diverse versioni di sé stesso e due diversi destini.
Il mito scompiglia e scombina le carte: è ora di seguirlo in una delle sue svolte inattese. Il passo è denso di significato: Eracle, l’eroe maschile per eccellenza, femminilizzato?
Eracle donna?

Un racconto è centrale per il nostro percorso. Venduto a Onfale come punizione per aver ucciso Ifisto, figlio del re Euristo, l’eroe resta presso la regina di Lidia per tre anni. In questo tempo essi si abbandonano ai giochi erotici più stravaganti. Fanno parte di questi giochi i travestimenti.
Lei indossa la pelle di leone e brandisce la clava; lui fila la lana e indossa la crocotta, la tunica color zafferano delle donne.
La Meonide era bellissima mentre camminava, nella sua veste dorata e coi capelli profumati sciolti sulle spalle. Si riparava dai raggi del sole con un ombrello d’oro ed era la mano di Ercole a reggerlo. Avevano ormai raggiunto il bosco di Bacco e i vigneti del Tmolo quando Vespero galoppò nell’umidità della sera sul suo scuro cavallo. Entrarono in una caverna con il soffitto di tufo e di roccia lavica; all’ingresso scorreva scrosciando un ruscello. Mentre i servitori preparano il cibo e il vino da bere, lei fa indossare all’Alcide le proprie vesti. Gli dà la sua sottile tunica tinta con porpora della Getulia, gli dà l’elegante cintura che indossava poco prima. La cintura è troppo corta per il suo ventre; della tunica allenta la cucitura per far passare le sue grandi mani; i bracciali, non adatti a braccia siffatte, li rompe, con i suoi grossi piedi strappa i lacci dei sandali. Lei afferra invece la pesante clava, la pelle di leone e le armi minori sistemate nella faretra. Consumano così il pranzo e vanno a dormire, stendendosi su due letti separati, l’uno al fianco dell’altra. Il motivo è che si preparavano ai riti in onore di colui che ha introdotto la vite, riti da celebrarsi al levare del giorno in condizione di castità. (Ovidio, I fasti, l. 2, vv. 310-331, Utet)
Siamo davanti a un completo capovolgimento della virilità dell’eroe! Eracle vestito da donna, Eracle che si abbandona ad attività femminili.
Se ora dal mito ci volgiamo all’elaborazione letteraria, vediamo apparire un insieme di tracce che Nicole Loraux insegue con la stessa abilità e finezza con cui Freud inseguiva le tracce dell’inconscio quando si misurava con l’enigma dei sogni.

Siamo nelle Trachinie, di Sofocle: Eracle riceve da Dejanira la tunica che lo ucciderà. Ebbene, è alla sposa che si offre un abito come dono nuziale: l’eroe si trova dunque collocato nella posizione della sposa. L’abito è ripetutamente indicato da Sofocle come un “peplo”, tipicamente femminile, in opposizione al chitone, che è maschile (torneremo su questo punto). Questo peplo è dunque velo di morte ma anche abbigliamento ambiguo, che fa di Eracle una semplice donna, prima che egli riprenda il controllo di sé per dominarsi nell’agonia del veleno che lo uccide e delle fiamme che ne consumano il corpo.
Ancora Trachinie: siamo nel momento in cui Sofocle descrive la sua morte. Ebbene, Eracle oltrepassa i propri limiti di uomo e soffre da donna, soffre come una donna.
Pietà di me, cui già si volse
pietà di molti, ché con alte grida
piango come fanciulla. E questa cosa
nessuno mai dirà d’averla vista
fare a quest’uomo: senza un solo gemito
io seguivo la via dei miei dolori.
Ed ora, vedi, da quello che fui,
tanto soffrendo, mi ritrovo femmina.
(Sofocle, Trachinie)
“Tanto soffrendo mi ritrovo femmina”: la sofferenza che Eracle conosce durante la sua agonia è un’esperienza della femminilità, un modo di vivere e perciò accogliere la femminilità nel proprio corpo. Attraverso il dolore e la perdita di sé che accompagna tanto il dolore quanto la follia, il femminile fa irruzione nell’identità virile di Eracle.
E se la follia può essere interpretata come l’eccesso di menos – di violenza - che si converte in furore delirante, l’uccisione dei figli, l’infanticidio, è un crimine da donne. Lo troviamo ben espresso da Euripide quando, nella tragedia, accosta l’eroe alle madri assassine. È il coro a dirlo evocando “la morte inferta da Procne al figlio unigenito”. Procne, ricordiamolo, uccide il figlioletto Iti e ne dà le carni in pasto al marito Tereo per vendicarsi della sua brutalità.
Tornato in sé dopo l’accesso di follia l’eroe spossato resta, così dice Diodoro, “a lungo inattivo all’interno della casa”, come una donna, prima di affrontare di nuovo i pericoli degni dell’uomo; ma già Euripide lo aveva descritto sperduto, rannicchiato come una donna, come una donna velato per sfuggire allo sguardo.
Dolore, follia, strazio: così l’esperienza del femminile investe e altera l’ideologia greca del maschile.
Se proseguiamo il nostro percorso di decifrazione della femminilità di Eracle scopriamo altri elementi inattesi. Occorre interrogare alcuni segni distintivi della donna nel mondo greco.
La donna, il ventre, il peplo

Da Esiodo in poi, due sono gli elementi che contraddistinguono la donna: un corpo, essenzialmente ridotto al ventre, e un abbigliamento, che sovente comprende un velo. Ora, Eracle, mangiatore smisurato, non è forse un ventre? Quanto al peplo femminile, come abbiamo già anticipato, non è certamente estraneo al suo abbigliamento.
Il ventre di Eracle

Il mostruoso appetito dell’eroe, capace di mangiare un bue intero, è ben noto e largamente sfruttato dagli autori comici. Per esprimere la fame di Eracle, Callimaco usa la parola nèdus (νηδύς), che vuol dire appunto “ventre”. Certo, sulla scena comica la voracità di Eracle è l’equivalente della sua vigorosa sessualità virile. Ma, da Omero ai tragici, se si segue il sentiero tracciato dalle parole, si vede il significato di questa parola allontanarsi dalla sessualità maschile e oscillare tra il ventre come sede della fame, il ventre come luogo viscerale ma anche il ventre come matrice, dunque luogo femminile per eccellenza.
Per seguire questa pista, occorre ricordare che nella tradizione mitica c’è un altro illustre divoratore, caratterizzato dalla nédus: Kronos che, dice Esiodo, inghiotte nella propria nédus, nel proprio ventre, i figli usciti dalla nédus, dal ventre, della madre. Certo, qui Rea è matrice e Kronos è stomaco, ma davvero possiamo negare l’ambivalenza del termine?
E come non citare lo stesso Zeus? Zeus inghiotte nella propria nédus Metis incinta, per poi partorire Atena dalla testa. Con un’accezione ancora più esplicita accoglie Dioniso nella propria coscia: Euripide senza ambiguità designa la coscia come “nédus maschile”, in questo caso dunque vera e propria matrice nel corpo maschile.

Ora, non si tratta di fare della nédus di Eracle una matrice, ma vedere in essa semplicemente lo stomaco, negando ogni connotazione femminile, significa negare un’ampia catena associativa di significanti che oscillano tra maschile e femminile.
Il peplo di Eracle
A Eracle che torna dalla guerra e vuole godere del piacere della festa e dei giochi, ciascuno degli dei fa un dono. Atena gli dona un peplo. Efesto una clava e una corazza, Poseidone dei cavalli, Hermes una spada, Apollo arco e frecce, Demetra lo inizia ai Misteri eleusini.
Questo narra Diodoro Siculo (IV): Eracle riceve da Atena un peplo, un dono decisamente femminile. Che senso dare a questo dono? Se rinunciamo a interpretazioni generiche (per es. il fatto che il peplo sia un attributo tipico del culto della dea ad Atene) e ci volgiamo ad altre tradizioni, che assegnano all’eroe l’uso più o meno prolungato di abiti femminili, scopriamo particolari interessanti. Abbiamo già incontrato l’episodio di Eracle presso Onfale. Ma ce n’è un altro, riportato da Plutarco.
Eracle, arrivato con le sue navi sull’isola di Kos, fu attaccato dai Meropi e fu sopraffatto. Si salvò nascondendosi presso una donna tracia, vestito da donna. Infine, affrontati nuovamente e vinti i suoi avversari, sposò la figlia del re, abbigliato ancora una volta con un abito femminile a fiori. Per questo motivo a Kos il sacerdote del tempio di Eracle ad Antimachea dà inizio alle cerimonie del sacrificio vestito in abiti femminili e con il capo cinto da una fascia. Per lo stesso motivo i giovani sposi del luogo accolgono le loro spose anch’essi vestiti da donna. (Plutarco, “Questioni greche” in Moralia).
Gli antropologi della Grecia conoscono bene l’uso rituale del travestitismo e sanno bene che il dono o l’uso di certi abiti gioca un ruolo importante nella congiunzione e nel buon funzionamento dello scambio tra i sessi. Ma la tesi che Nicole Loraux espone è diversa: il gioco degli abiti serve a drammatizzare lo scambio tra maschile e femminile e di questo scambio lui, l’eroe della virilità, è incarnazione. Rivelazione della debolezza che sta nascosta dietro la forza, occasione per la forza di accogliere e circoscrivere in sé la femminilità: questo è il peplo di Eracle.
Eracle invincibile, che piange lacerato dal dolore; Eracle misogino, campione della separazione tra i sessi, che è schiavo delle donne e asservito al loro potere; Eracle il cui ventre è come l’utero femminile; Eracle vestito da donna. Eracle è tutto questo: ideale del maschio virile e insieme figura della femminilità nell’uomo, eroe dell’ambiguità e della contraddizione.
Per concludere

Il maschile mondo greco è regolato dalla logica di opposizione e di rigida separazione tra i sessi; tuttavia questa logica non risolve il problema del rapporto e della differenza dei sessi, problema che continua ad assillarlo.
Così, al di là delle rappresentazioni ufficiali, al di là dei discorsi istituzionali,
l’immaginario greco cerca altre vie che permettano un contatto col femminile. Mentre il pensiero civico esalta un’andreia pura, intatta, una virilità libera da ogni contatto col femminile, esiste un’altra tradizione dove la virilità appare riservata a chi ha saputo accogliere in sé la femminilità. Quest’altra tradizione presenta il modello di un maschio virile completato dalla componente femminile, che sfuma e insieme rafforza l’andreia. L’Iliade, le narrazioni eroiche, il mito, le tragedie sono altrettanti luoghi dell’immaginario dove si genera uno squilibrio, dove le antitesi si confondono, dove le opposizioni non reggono e la differenza tra i sessi abbandona la logica binaria per accogliere sregolatezze.
Ecco un senso da raccogliere nel nostro incontro di oggi con la figura di Eracle: il più popolare tra gli eroi greci, l’eroe della virilità, svelando la sua relazione stretta e multiforme con attributi e condotte classicamente poste nella categoria del femminile, mostra che l’equilibrio tra maschile e femminile, apparentemente ben regolato e deciso una volta per tutte, non lo è affatto: i Greci tornano incessantemente sulla spinosa constatazione che ci sono due sessi, non uno, e imboccano vie che ne sovvertono la canonica distribuzione.
In questi luoghi dell’immaginario la cultura greca opera un “disturbo”, un’”alterazione” nella “normale” distribuzione dei caratteri maschili e femminili e apre altre possibilità – l’esperienza del femminile vissuta dagli uomini o la terribile appropriazione del maschile da parte delle donne. Per comprendere questa alterazione della logica binaria che il mito, l’epopea, la tragedia, introducono, occorre passare per il registro dello scambio. Uno scambio che però non si esaurisce nelle procedure di mescolanza o di inversione come quelle praticate nelle feste religiose o nelle pratiche iniziatiche dove, alla fine, tutto ritrova il suo posto e l’ordine è ristabilito. Lo scambio dev’essere inteso come qualcosa di più profondo, qualcosa che apre una breccia nella ripartizione binaria delle categorie greche. Occorre pensare al teatro, tragico o comico, in piena epoca classica, dove il cittadino attore, l’uomo greco, che pure resta il destinatario delle pratiche sociali e delle operazioni di pensiero, nel tempo di una rappresentazione entra in un rapporto con la femminilità che scavalca tutti i ruoli socialmente e culturalmente stabiliti aprendo la sua identità ad emozioni spesso proibite, come quelle del terrore o della pietà, oppure rivelando a sé stesso e agli spettatori la fragilità che si annida nella forza.
Attraverso le rielaborazioni mitiche e letterarie della figura di Eracle i Greci hanno interrogato il rapporto intimo dell’eroe – forse di tutti gli eroi - con la femminilità. Hanno interrogato la coesistenza di maschile e femminile, le transazioni tra l’uno e l’altro, le perturbazioni di un equilibrio sempre mutevole. Al di là dell’opposizione tra i sessi hanno fatto esistere una modalità di relazione fatta di scambi, di interferenze, di disturbi, giocata sul terreno della relazione intima con la propria femminilità. Gli uomini possono, e a volte devono, accogliere in sé la femminilità (e viceversa le donne), come elemento costitutivo della loro stessa identità maschile: Eracle mostra che la parte femminile, lungi dall’indebolire la sua forza virile, ne è costitutiva.
L’Eracle tramandato da Prodico (460 a.C.) nell’atto della scelta tra vizio e virtù inaugura una lunga tradizione filosofica all’interno della quale egli diventerà un modello di saggezza e rettitudine, ben definito anche nella sua identità maschile; ma c’è un altro Eracle, quello che, prima della scelta, resta incerto sulla via da seguire, chino sulle sue contraddizioni e sui paradossi della sua natura. “Io definisco il temperamento eroico, scrive Nicole Loraux, come quello la cui identità una e indivisibile si costituisce nelle contraddizioni”.
All’Eracle di Prodico preferiamo un Eracle la cui identità eroica, che costantemente oscilla tra bestiale e civilizzato, tra umano e divino, tra comico e tragico, tra ragione e follia, tra forza e fragilità, nella sua natura costantemente duplice e contraddittoria ospita anche la doppia polarità maschile/femminile: un Eracle capace di parlarci, in questo modo, dell’intera esperienza umana.
Addendum

La nozione di bisessualità psichica è presente nel pensiero di Freud ma – e questo ne è il carattere distintivo – nulla ha a che fare né con la biologia né con l’idea di una sessualità diretta a partner dei due sessi. Essa deriva da processi psichici. In modo molto sintetico possiamo dire che è la presenza congiunta in ciascuno di noi di disposizioni psicosessuali opposte, le une coscienti, le altre inconsce. Se l’anatomia è il destino sessuale – un uomo non partorirà mai, una femmina non feconderà mai -, essere uomo ma portatore di disposizioni femminili, essere donna con disposizioni maschili, significa scoprirsi dotati di un’alterità virtuale e con ciò portatori di indeterminatezza. Se Nicole Loraux non esita a sostenere che Freud ha teorizzato una bisessualità generalizzata e costitutiva del genere umano alla scuola dei Greci, l’originalità di Freud rispetto al mito e alle elaborazioni greche consiste nell’aver legato la nozione di bisessualità all’inconscio, cioè di averne integrato la rappresentazione in una concezione rivoluzionaria della vita psichica.
Lo psicoanalista Christian David si è lungamente occupato di bisessualità: “Il fatto di portare in sé una replica dell’altro sesso come potenzialità psichica non elimina affatto il riconoscimento della differenza tra i sessi; al contrario, sono l’assenza o l’insufficienza di tale replica che alterano o proibiscono questo riconoscimento. La bisessualità, ed è uno dei suoi paradossi, è sorgente di alterità, e perciò si offre come accesso all’altro”. (C. David, 1975)
Transitando dall’eroe dell’antichità a una figura della contemporaneità, desidero evocare un bellissimo passaggio tratto dal suo libro. L’autore ha ascoltato, durante un concerto, una meravigliosa voce di contralto:
“Questa voce offriva all’ascoltatore un misto indicibile di mascolinità e di femminilità, non soltanto in virtù delle sue inflessioni e del suo timbro così singolari, ma in virtù della sua capacità di trasmettere quanto di peculiare c’è nell’essere artista. Ora, questo cantante, con la sua statura, il suo viso, la sua parola, si presenta come un personaggio eminentemente virile e la qualità della sua voce, per quanto sia così vicina a quella dei castrati di una volta, è il frutto, se dobbiamo credere alle indicazioni date dal cantante stesso, di un paziente e appassionante lavoro destinato a far uscire e portare alla perfezione quella ‘voce di testa’ di cui tutti gli uomini in grado di cantare dispongono virtualmente ma inconsapevolmente, senza avere il coraggio di sfruttarla o senza immaginare di farlo”.
https://youtu.be/SL0rT09hVFg (dallo Stabat Mater di Vivaldi, controtenore Philippe Yaroussky
Fonti principali:
- Nicole Loraux, Les expériences de Tirésias, le féminin et l'homme grec, Paris, Gallimard, 1989.
- C. David, La biséxualité psychique, Revue Française de Psychanalyse, 5-6, 1975.
La donna e l’eroe nel mito di Eracle
Paola Angeli Bernardini

Bernardini, Paola Angeli. « La donna e l’eroe nel mito di Eracle ». Héros et héroïnes dans les mythes et les cultes grecs, édité par Vinciane Pirenne-Delforge et Emilio Suárez de la Torre, Presses universitaires de Liège, 2000, https://doi.org/10.4000/books.pulg.766.
Per gentile concessione dell’Autrice.
1 Nel settore degli studi su Eracle e più in particolare su Eracle e il mondo femminile il lavoro che negli ultimi venti anni ha maggiormente influenzato l’impostazione della ricerca è senz’altro quello di N. Loraux, dal titolo ormai a tutti noto: “Héraklès: le surmâle et le féminin”[1]. Si tratta di una ricostruzione rigorosa del modo eracleo di rapportarsi all’altro sesso, partendo dai dati mitici e dagli elementi rituali.
2 Un’analisi che ha avuto il merito principale di scalfire l’immagine di un Eracle sempre e comunque virile, rappresentante dell’uomo dorico e delle sue qualità fisiche e morali. Non era facile, dopo il Wilamowitz [2], porre in discussione in maniera credibile e soprattutto documentata, cioè sulla base di testimonianze letterarie, archeologiche ed epigrafiche, l’immagine di un Eracle per così dire “pindarico” e riproporre un modello di eroe contraddittorio, ambiguo, dai contorni contrastanti, in bilico tra una mascolinità prorompente e una femminilità nascosta e intrigante. E tutto questo cercando conferma nei rituali di luoghi diversi della Grecia e in una valutazione comparativa di tradizioni mitiche locali [3]. L’indagine della Loraux ha in tal senso raccolto e presentato in una visione unitaria e sincronica tanti diversi indizi, delineando un ritratto globale dell’eroe in cui le varie tessere hanno già trovato una loro collocazione.
3 Lo scopo della presente ricerca è un altro. Applicando il criterio, più volte enunciato da H. Blumenberg, che i miti sono “procedure narrative”, cioè un prodotto frutto di selezione e variazione di diversi elementi in una dimensione fortemente storica [4], in questa sede ci accingiamo a ripercorrere il cammino attraverso il quale è possibile una ricostruzione del mitologema di ‘Eracle e l’altro sesso’. Una ricostruzione che nel nostro caso riguarda soprattutto la Grecia arcaica e classica.
4 Come Blumenberg riconosce che per il mitologema di Prometeo, alla cui analisi è dedicata la parte finale del volume Arbeit am Mythos, la versione di Esiodo e poi quella di Eschilo mostrano due aspetti uguali e diversi, in ogni caso successivi, della tradizione [5], così per il rapporto di Eracle con la figura femminile credo che sia importante partire dalle fonti più antiche, per poi procedere secondo un ordine rigorosamente cronologico. Sono esse che documentano la ricezione dell’episodio avventuroso/erotico nelle varie epoche e poi la riproduzione del medesimo nel corso del tempo. L’esigenza di storicizzazione ci porterà a scomporre la ricostruzione della Loraux, nel tentativo di individuare un nucleo mitico più antico, limitato al momento alla testimonianza che ne danno i poemi omerici, e poi via via elaborato e arricchito nei secoli, attraverso l’aggiunta di altri motivi.
5 Ho così delineato e circoscritto i limiti della presente ricerca che sostanzialmente si pone due obiettivi:
- ricostruire il percorso attraverso il quale, in un complesso mitico così ricco e vario come quello di Eracle [6], affiora nei documenti poetici ed iconografici l’idea di un rapporto fuori della norma dell’eroe con l’altro sesso;
- individuare nell’ambito della produzione letteraria e artistica in oggetto la diversità di ricezione del racconto mitico; diversità connessa con l’occasione in cui esso veniva divulgato mediante l’esposizione o mediante la rappresentazione. Come osserva proprio la Loraux a proposito dell’avventura di Eracle presso Onfale, il racconto cambia a seconda che figuri in una tragedia o in un dramma satiresco o addirittura in una commedia o, infine, in un racconto di tardi mitografi. Parimenti l’odio insanabile di Era per Eracle è, come vedremo, tema epico e lirico, ma diventerà anche tema comico e poi satirico.
6 I condizionamenti del genere poetico non vanno sottovalutati.
Omero e l’eroe conteso
7 Due sono le dee che segnano il destino di Eracle e ne condizionano il rapporto con la donna: Era, l’irriducibile nemica, ed Atena, l’amica e la fedele protettrice, due “archétypes de la féminité”, secondo la definizione di C. Jourdain-Annequin [7]. Nei poemi omerici sono ambedue presenti in questo ruolo che sarà poi fissato nella tradizione. Se la funzione di Atena è più trasparente e senza equivoci (Il, VIII, 362-369; XX, 144-148) [8], quella di Era è più complessa, perché segnata da un’inquietante trasformazione. Da ingannatrice (Il., XIX, 95 sg.) e ostile (Il., XVIII, 117-119) la dea diventa benevola e concede all’eroe la propria figlia Ebe, accogliendolo nell’Olimpo (Od., XI, 601-604). Sia l’episodio dell’anticipo della nascita di Euristeo e del ritardo di quella di Eracle (Il., XIX, 95 sg.), sia il ruolo di Era nell’apoteosi dell’eroe sono stati interpretati in vario modo. Quasi sempre i due episodi, emblematici di una forte contraddizione, sono stati messi in rapporto con l’atteggiamento ambiguo dell’eroe verso l’universo femminile, vuoi come rapporto conflittuale con il ventre materno (donna/madre), vuoi come proiezione di una doppiezza di comportamento nei confronti della donna amica/nemica. Di qui tutta una serie di violenze sessuali, di danni inferti e subiti, di matrimoni disastrosi, di tentativi di mortificare la propria mascolinità, che sarebbero originati dall’ambiguo rapporto dell’eroe con Era [9]. Ma ha ragione N. Loraux di osservare, a questo proposito, che la pluralità di donne con le quali Eracle ha un’avventura non è riconducibile ad un unico modello di donna/madre, perché ogni eroina ha un suo carattere e una sua configurazione mitica e, aggiungerei, una sua storia locale.
8 Cosa percepiva, allora, l’uomo arcaico, o meglio il fruitore dell’epica arcaica, della natura straordinaria di Eracle, conteso tra due dee, punito prima ancora di nascere e poi premiato? Che idea si faceva della sua sessualità abnorme? Purtroppo molto dell’epica arcaica sull’eroe è perduta (si pensi all’Herakleia di Pisandro di Rodi e i Cinetone di Sparta o a quella di Paniassi di Alicarnasso), ma da quel che possiamo ricavare da Omero, da Esiodo e in particolare dall’episodio del rapimento da parte dell’eroe di Astiochea, madre di Tlepolemo, presente in ambedue [10], si può dedurre che l’aspetto privilegiato in relazione al tema dell’avventura amorosa con un’eroina era quello della violenza e della conquista. Se c’è un elemento prevalente nella raffigurazione dell’Eracle arcaico è proprio quello agonale. La figura femminile si presenta come un premio per una vittoria, come un oggetto di gratificazione dopo la lotta. La presa di Ecalia, ascritta a Creofilo di Samo, trattava della distruzione di Ecalia e dell’amore dell’eroe per Iole. Una conquista che può essere fatta con la forza, con il coraggio, ma anche con la metis. In questo senso Atena ha la meglio su Era. Si pensi a Stesicoro e alla scena della Gerioneide in cui Atena, - sempre lei -, cerca di convincere Posidone a non intervenire in aiuto di Gerione contro Eracle (S 14 Page). O si rilegga il fr. 298 Page di Ibico in cui Eracle combatte “insieme all’intrepida Pallade”. La natura agonale dell’eroe arcaico non ha bisogno di essere illustrata. Basti pensare alla consuetudine comune di celebrare il vincitore nei giochi Olimpici con il ritornello dell’inno di Archiloco in onore di Eracle: “Tenella. O tu dalla bella vittoria, salve, o signore Eracle!” [11]
9 Nell’immaginario collettivo prevale la rappresentazione dell’eroe virile e vigoroso, di fronte ad un avversario da vincere con ogni mezzo. La donna in questa rappresentazione ha un ruolo secondario e funzionale alla dimostrazione di mascolinità dell’eroe (a meno che non appartenga essa stessa a categorie straordinarie come le Esperidi o le Amazzoni), ma non marginale, perché è destinata a dare vita alla discendenza dell’eroe. Ecco i due dati che caratterizzano le vittime della sfrenatezza sessuale di Eracle: la conquista attraverso la lotta e il conseguente concepimento di una stirpe illustre. È sufficiente ricordare alcuni casi. Calciope, figlia di Euripilo, re di Cos, viene conquistata con la forza da Eracle, dopo la sua vittoria sui Meropi, e genera Tessalo. Xenodice, figlia di Sileo, viene sedotta dopo che il padre è ucciso dall’eroe. Auge, figlia di Aleo e sacerdotessa di Atena, viene stuprata e genera Telefo che diventerà re della Misia. Da Onfale l’eroe ha come figlio Agelao (o secondo altre fonti Lamo o, ancora, Acheles), che diviene re dei Lidî. [12]
Eracle, eroe pindarico senza macchia
10 L’Eracle pindarico raccoglie l’eredità del passato [13]. Per quel che ne sappiamo, sono estranei all’opera del poeta tebano sia l’interesse per le avventure galanti dell’eroe, sia ogni traccia di riprovazione per qualche sua impresa. Ritroviamo, invece, la problematica relativa alla sua duplice dipendenza da Era e da Atena, ma questa condizione di sottomissione a figure femminili, anche se dee, non è mai vista nei suoi risvolti di tipo psicologico o emotivo, ma solo ed unicamente sotto il profilo narratologico, cioè come elemento di un racconto teso a fare dell’eroe un personaggio esemplare. Nella biografia pindarica di Eracle le due dee giocano un ruolo molto importante, ma è un ruolo che Pindaro deriva dalla tradizione e che egli ripresenta al suo uditorio, selezionando e accentuando quegli aspetti paradigmatici che favoriscono l’esaltazione del suo più illustre concittadino. Un’esaltazione alla quale non è estraneo, appunto, il peso della comune provenienza da Tebe: l’eroe e il poeta hanno la stessa patria. In N. 1, 33-50 Eracle strozza, ancora in fasce, i serpenti mandati da Era; in I. 4, 60 è definito suo γαμβρός (genero) e sempre in Ν. 1, 71-72 è celebrata la sua apoteosi accanto ad Ebe. L’aiuto di Atena è meno esplicito, ma è sottinteso in varie imprese (N. 4, 27-30 nella sconfitta di Alcioneo; Ol. 10, 15 nella lotta con Cicno). Imprese eroiche in cui, ripeto, la donna come conquista erotica o come avventura sessuale ha poco spazio.
Tra philogynia e misogynia
11 È proprio sul piano della narrazione mitica, più volte dedicata ad Eracle (Ep. 5; Dith. 16; fr. 4, 21-49; 44; 64; 66 Snell-Maehler), che va imputata a Bacchilide una nuova concezione del rapporto eracleo uomo/donna. Credo che il senso di questo passaggio non sia stato ancora evidenziato con la convinzione dovuta [14]. Ricorderò solo che il Ditirambo 16 si incentra sulla gelosia di una implacabile Deianira e sulla morte dell’eroe per opera della moglie tradita e che il fr. 64 affronta il tema dell’uccisione del centauro Nesso, dopo la violenza su Deianira, ad opera dell’eroe. L’Epinicio 5 si conclude, dopo il pianto di Eracle alla vista di Meleagro, con la richiesta di poterne sposare la sorella, se pari a lui in bellezza [15]. Con Bacchilide comincia ad affiorare una problematica nuova che vede un Eracle combattuto, diviso, “simonideo”, come è stato definito da G. Cerri a proposito dell’Eracle di Euripide [16]: un uomo, anzi un eroe, violentato “dall’assillo indomabile di Afrodite tessitrice di inganni”, per usare un’espressione simonidea (fr. 541, 9-10 Page). Si rilegga il brano di Bacchilide:
Dicono che solo allora
il figlio spavaldo di Anfitrione
cedette al pianto,
e dell’infelice eroe commiserò la sorte.
E come risposta gli rivolse queste parole:
“Per l’uomo è meglio non essere nato
e non vedere la luce del sole. Ma se non v’è
conforto nei lamenti,
parliamo, almeno, di ciò che si può compiere in futuro.
Vive nella casa di Eneo,
caro ad Ares,
una figlia vergine, pari a te nell’aspetto?
Io, lieto, la farei mia florida sposa”. (Ep. 5, 155-169).
12 Secondo ricerche che sono state condotte sulle fonti archeologiche ed epigrafiche, in questo periodo, tra il vi e il v sec. a.C, si fissa il ruolo di Eracle come “god of marriage”. Dietro al miracoloso concepimento, raccontato da Pausania (VI, 11, 2) dell’atleta Teogene di Taso, vincitore olimpico per la prima volta nel 480 a.C, si dovrebbe vedere, secondo M. Launey [17], un “mariage sacré”, una ierogamia tra il sacerdote di Eracle (il quale assume il ruolo dell’eroe-dio che, comunque, risulta il vero padre del grande atleta Teogene) e una vergine che veniva consacrata all’eroe. La documentazione epigrafica [18], e poi la testimonianza di Plutarco, Quaest. Gr. 58, attestano senza dubbio che Eracle a Cos era una divinità protettrice del matrimonio [19]. Si può concludere che tra il vi e il v sec. a.C. all’eroe veniva già assegnato il ruolo di protettore delle nozze. Egli era un eroe non solo regolarmente sposato, ma coinvolto in riti nuziali.
13 Se Bacchilide nel Ditirambo 16, Sofocle nelle Trachinie ed Euripide nell’Eracle presentano al pubblico un personaggio coniugato prima con Megara, poi con Deianira, in regolare successione [20], si deve pensare che per il pubblico questo coinvolgimento dell’eroe nello statuto matrimoniale non fosse una sorpresa. Le nozze di Eracle con Ebe non fanno che coronare questa vocazione dell’eroe per il matrimonio. Non bisogna dimenticare che il mito contempla anche nozze regolarmente promesse, ma poi non ottenute per l’opposizione del padre della futura sposa. Si pensi, ad esempio, a Iole, negata da Eurito [21]. Ma la tragedia che meglio consacra questo ruolo di Eracle come protettore delle nozze è senz’altro l’Alcesti di Euripide. La riaffermazione del legame matrimoniale, interrotto dalla morte della sposa per propria scelta e ristabilito dopo la vittoria di Eracle sulla Morte, compete all’eroe che ne sancisce la sacralità, stabilendo che Admeto non potrà risposarsi che con Alcesti, sua legittima sposa [22]. Estia (v. 163-169) ed Eracle (v. 1024) sono i difensori dell’unità dell’oικoς. È lo stesso Eracle che, impersonando il ruolo del κύριος·, riconduce Alcesti dal suo legittimo sposo e ricelebra le loro nozze (v. 1113-1120) [23].
14 Sempre tra il VI e il V sec. a.C, proprio nella produzione teatrale (non solo tragedia, ma anche dramma satiresco e commedia) vengono portati sulla scena gli aspetti contrastanti e contraddittorii della personalità eroica di Eracle e in questo modo, davanti agli occhi dello spettatore, le virtù e i vizi del più grande degli eroi diventano materia di spettacolo. I. Gallo in una puntuale ricostruzione della presenza del tema dell’ ’Eracle derubato’ nel dramma satiresco attico si interroga su quella che può essere stata “la complessa trafila compiuta dall’eroe, dal mito al teatro, in tutte le sue manifestazioni e forme” [24], e conclude che proprio il contrasto tra la serietà e la gravità dell’eroe, e la buffoneria, la dicacità e infine la vigliaccheria dei satiri era un ingrediente adatto al dramma satiresco. Questa opposizione di natura drammaturgica può spiegare l’origine dell’ingresso di Eracle sulla scena come soggetto satirico, ma credo che la fortuna di questo personaggio nella commedia e nel dramma satiresco sia sostanzialmente legata agli aspetti eccessivi e contrastanti della sua personalità. Aspetti contrastanti che, come ha indicato A. Brelich [25], sono presenti in tutti gli eroi, ma che in Eracle sono fortemente esasperati. Il conflitto tra philogynia e misogynia rientra tra questi caratteri antitetici che possono essere sfruttati con fortuna sulla scena.
15 Sappiamo di Epicarmo che alla fine del vi sec. a.C. sbeffeggia l’ingordigia eraclea di cibo, di vino, di donne e di ragazzi [26]. Sappiamo di commediografi come Nicocare, Ferecrate, Cratino che affrontano temi legati alla bulimia e all’appetito sessuale dell’eroe e alla sua schiavitù presso Onfale [27]. Alessi nell’Estone ridicolizza la passione dell’eroe per i ragazzi e nel Lino la sua passione per la gastronomia. Filillio e Eubulo scrivono un’Auge sullo stupro della vergine consacrata ad Atena. Cratino il giovane ed Antifane compongono un’Onfale; Archippo Le nozze di Eracle [28]. Per non parlare degli Uccelli e delle Rane di Aristofane. Autori di drammi satireschi come Ione di Chio, che presenta un’Onfale [29] e Acheo, a sua volta autore di un’Onfale [30], portano sulla scena le avventure dell’eroe e della regina di Lidia. Eracle è protagonista anche di drammi satireschi di Eschilo (I nunzi), Sofocle (Eracle al Tenaro) ed Euripide (Sileo), andati quasi completamente perduti [31], e forse di qualche tragedia di cui restano miseri frammenti [32].
16 Un’attenzione particolare dal nostro punto di vista merita la tragedia di Euripide, Auge. Nei frammenti superstiti si profila una serie di conflitti di grande interesse tra emozioni opposte: da un lato l’adikia commessa da Eracle probabilmente nei confronti della fanciulla o della dea Atena e la rivendicazione dell’involontarietà dell’operato (fr. 265 Nauck), dall’altro la potenza trascinatrice dell’amore (fr. 269). Le vane speranze di Auge (fr. 271) si contrappongono al riconoscimento della debolezza femminile (fr. 276). Sono tematiche che fanno rimpiangere la perdita della tragedia. L’empietà compiuta dall’eroe nei confronti di una sacerdotessa di Atena e il parto della giovane nel tempio della dea dovevano aggiungere all’intreccio una nota fortemente scandalosa [33].
17 Come si vede, una produzione teatrale molto ampia e varia che si incentra su un personaggio, in cui si assommano grandi pregi e grandi vizi. Il fatto che i titoli comici e satirici siano di gran lunga più numerosi di quelli tragici si spiega perché, mentre la tragedia non può prescindere dall’esaltazione dei meriti e delle qualità dell’eroe, sempre grandi anche nella disgrazia, la commedia e la satira possono demistificarne gli aspetti eroici, riducendoli - pur in una dimensione ingigantita - a livello umano.
18 I tratti che più vengono presi di mira sono, come abbiamo visto, la gola e la sessualità smodata dell’eroe. Abbiamo a che fare con l’esagerazione di due dati strutturali della figura eraclea, in bilico, come ha rilevato G.S. Kirk, tra natura e cultura [34]. La loro rappresentazione provoca la risata perché perten-gono alla stessa sfera umana; sono amplificati ed esagerati, ma non estranei all’uomo greco comune.
19 Fuori della esagerazione comica, la misogynia dell’eroe, che si traduce in violenza sulla donna e nella sua utilizzazione, trova conferma in culti sparsi in territorio greco, di cui alcuni attestati fin dal vi sec. a.C. L’epiclesi Μισόγυνος con cui Eracle era venerato in Focide, compare in una serie di iscrizioni, databili alla fine del vi sec. a.C, e in una serie di testimonianze più tarde, ma chiaramente risalenti a fonti precedenti. L’attributo Μισόγυνος prevede da un lato l’interdizione alle donne dai templi di Eracle, iscrizionalmente ben attestata, dall’altro la castità, temporale (un anno) o definitiva (l’intera vita), dei sacerdoti che amministravano in Focide il culto dell’eroe (Plut., De or. pyth., 20 [403f-404a]), o a Tespie di una fanciulla che doveva rispettare la verginità durante tutta la sua esistenza (Paus., IX, 27, 6). Soffermiamoci sulle epigrafi. L’analisi di Ch. Picard porta a risultati degni di nota [35]. Nell’iscrizione, trovata a Taso, da collocare almeno alla fine del vi sec. a.C, tra i divieti imposti ai praticanti del culto di Eracle (non è permesso di offrire capre e porci, di offrire la nona parte del sacrificio, di offrire porzioni tagliate), alle 1. 3-4 figura l’interdizione alle donne. A questa si aggiungono almeno altre due epigrafi che confermano in altre zone, cioè a Mileto [36] e a Cos [37], l’esclusione delle donne o, quanto meno nell’iscrizione di Cos, la separazione tra uomini e donne nelle cerimonie cultuali per Eracle Diomedonteios. Le fonti letterarie attestano l’esclusione parziale o totale per le donne anche a Eritre Ionica (Paus., VII, 5, 8), a Gades (Sil. Ital., Pun., III, 21-22), a Roma (Plut., Quaest. Rom., 60; Macrob., Saturn., I, 12, 28). Il divieto diventa addirittura proverbiale (Γυνή είς ’ Ηρακλέους·οὐ φοιτᾷ [38]), con un’allusione all’impresa poco gloriosa di Eracle durante la servitù presso Onfale. L’esclusione femminile dai templi di Eracle diventa anche oggetto di storielle riguardanti animali domestici [39].
La femminilizzazione di Eracle
20 Ci resta da trattare brevemente il tema più controverso e direi più delicato di questa ricostruzione. Concordo con C. Jourdain-Annequin sulla felicità dell’intuizione di N. Loraux quando afferma che “avec Héraclès nous tenons l’une des figures grecques de la féminité dans l’homme”, ma anche io nutro qualche perplessità, se non sul valore complessivo da dare a certi elementi del mito, almeno sull’epoca in cui l’immaginario comune se ne appropria sottolineandone, in un certo senso, la stravaganza. Essi comprendono: a) il dono del peplo all’eroe da parte di Atena [40], b) il suo travestimento in abiti femminili presso Onfale [41] e presso la donna trace di cui parla Plutarco [42], c) la tunica mandata in dono da Deianira, d) l’allattamento al seno di Eracle da parte di Era [43], che è stato interpretato sia come un’adozione benevola da parte della dea [44], sia come riflesso del conflittuale rapporto dell’eroe con Era [45]. La Jourdain-Annequin riconduce sostanzialmente questi fatti alla “logique de l’initiation”, ravvisando nel fenomeno d’inversione sessuale e nell’adozione dell’eroe il simbolo dell’ambiguità che caratterizza la fase della pubertà [46].
21 Individuare il periodo a partire dal quale questi indizi di transessualità e di travestitismo dell’eroe vengono utilizzati nella poesia e nell’arte figurativa può essere utile per decifrarne “le pouvoir de pénétration” e comprendere, così, il percorso di questo tema mitico.
22 La poesia greca ci ha lasciato, grazie ad Anacreonte, vissuto nella seconda metà del vi sec. a.C, il ricordo di un furfante arricchito, un certo Anemone, che indossava monili vistosi e portava “un ombrellino d’avorio come le femmine” (fr. 82 Gentili) e il corpus dei cosiddetti “vasi Anacreontici”, prodotti tra il 510 e il 460 a.C, mostra tutta una serie di personaggi maschili in abiti femminili che J. Boardman e D.C. Kurtz [47] hanno riconosciuto di foggia lidia [48]. Verso la fine del vi sec. quasi tutte le fonti greche che parlano dei costumi dei Lidî ne evidenziano la τρυφή e l’ἀβροσύνη, rilevandone il carattere manifestamente esotico. Il poeta tragico Ione di Chio nel dramma satiresco Onfale, del quale restano circa ventiquattro versi [49], descriveva Eracle, giunto in Lidia, alle prese col lusso del banchetto (fr. 25 L.), dei canti e della musica (fr. 26a-b) e soprattutto dei molli costumi lidî, contrapposti a quelli severi del Peloponneso (fr. 27: “è meglio conoscere gli unguenti profumati e gli olii odorosi e gli ornamenti del corpo che la maniera di vivere nell’isola di Pelope”). Né veniva smentita la bulimia dell’eroe (fr. 30-33). Credo che un nuovo esame dei frammenti dell’Onfale e una diversa interpretazione del fr. 28 (“e il nero rimmel che segna gli occhi”, non riferito ad Eracle [50], ma alle donne della corte di Onfale) potrebbero aprire nuovi orizzonti, consentendo di ricostruire quali erano gli aspetti più scandalosi di questa storia da ridicolizzare sulla scena.
23 Nell’immaginario del cittadino ateniese del v sec. a.C. l’idea del travestimento di Eracle presso i Lidî era probabilmente suggerita anche da quella della mollezza dei costumi e dei piaceri che si godono lontano dalla guerra. Anche le mansioni servili al comando di una donna suggerivano abiti femminili. Questo secondo aspetto non era meno discutibile del primo. L’asservimento del maschio alla donna era ritenuto vergognoso, come risulta dall’affermazione di Democrito ὑπò γυναικòς· ἂρχεσθαι ὑβρις- εἴη ἂν ἀνδρὶ ἐσχατη (“essere comandato da una donna sarebbe per un uomo estremo oltraggio”) [51]. Sta di fatto che nelle fonti più antiche si parla di imprese (i Cercopi, Sileo) alle quali l’eroe si dedica durante la servitù e poi di amore da parte dell’eroe per il lusso, non di scambio vero e proprio di vesti tra l’eroe e la regina [52].
24 Nella polemica tra quanti ritengono che lo scambio di vestiti e di ruoli tra Eracle e Onfale non sia attestato in archeologia prima del IV/III sec. e quanti, invece, retrodatano alcune raffigurazioni al v sec, hanno forse ragione i primi. Qui non è in discussione l’antichità della storia di Onfale [53], ma solo l’epoca in cui essa compare sui documenti nei suoi risvolti erotici, sessualmente ambigui e trasgressivi. In effetti quasi tutte le raffigurazioni che evidenziano lo scambio di attributi sono di età tardo ellenistica e soprattutto di età imperiale (nell’epoca tra Augusto e i Severi) [54]. La propaganda di qualche effemminato imperatore romano non deve essere stata estranea a tale diffusione.
25 Quanto all’interessantissima iscrizione di Didima n° 501 [55], vi sono indicazioni chiare che il responso del dio, interrogato da una richiedente, riguarda il culto di Eracle, caratterizzato da tre prerogative: a) bagni termali; tí) danze e canti di fanciulle vergini; c) aspetto femmineo dell’eroe (θηλυπρεποῦς·φωτός·). La presenza di Era nello stesso santuario conferma che si tratta proprio di Eracle. L’iscrizione, tuttavia, risale al ii sec. a.C. ed è di provenienza ionica.
26 Ma il testo che, a mio avviso, va valutato con più cautela è quello di Diodoro Siculo (IV, 14, 3), perché è sì tardo (i sec. a. C), ma, come tutti sappiamo, riassume fonti storiografiche e mitografiche più antiche, da Erodoto a Duride, cioè fonti a partire dall’inizio del v sec, riadattandole con l’apporto di testi più tardi. Scrive Diodoro: “Quando, al ritorno dalla guerra, abbandonandosi al riposo, Eracle si mostrò nelle riunioni solenni, dove si celebravano giochi e feste, ognuno degli dei l’onorò con un dono. Atena gli donò un peplos, Efesto una mazza e una corazza e queste due divinità usavano al proposito le arti che praticavano; l’una per accrescere la gioia e il piacere di Eracle durante la pace; l’altra per accrescere la sua sicurezza in mezzo ai pericoli della guerra” [56]. La contrapposizione tra la pace e la guerra è evidente. Inoltre, come osserva C. Bonnet, non si deve dimenticare che il peplo è un elemento caratterizzante il culto di Atena nella città di Atene [57]. Né è da escludere, come abbiamo visto da ultimo, il ricordo dei costumi molli e raffinati che Eracle può aver appreso in Lidia. Come negare, infine, che il peplo possa diventare uno strumento di equilibrio in una personalità eroica ambivalente, opponendo “a surplus of femininity against an excess of masculinity”? [58] Il peplo, insomma, riassume in sé vari simboli che assumono un valore diverso a seconda dei vari contesti.
27 Muovendo da quest’ultima osservazione, credo che ormai sia giunto il momento di trarre qualche conclusione.
28 Come abbiamo visto per il peplo di Eracle, un elemento del mito si presta a più interpretazioni, anche contrastanti. Proporre una costruzione coerente attraverso elementi così diversamente interpretabili è difficile e rischioso. Sembra più prudente – e forse più produttiva - una lettura del dato mitico nelle sue varianti e nella sua diacronia. In conformità a questo criterio, nella trattazione del tema del rapporto di Eracle con le donne, abbiamo privilegiato l’analisi, evitando ogni forma di sintesi. Abbiamo altresì privilegiato le fonti poetiche arcaiche e classiche per avere un quadro del problema in un arco di tempo circoscritto. In ultima analisi abbiamo fatto solo un tentativo di costringere, entro delle coordinate a noi meglio note, una materia – quella della vicenda eroica di Eracle – quasi senza confini cronologici e geografici.
Note:
1. Herakles: the Super-male and the Femmine, in D.M. Halperin, J.J. Winkler, F.I. Zeitlin (eds), Before Sexuality. The Construction of Erotic Experience in the Ancient Greek World, Princeton, 1990, p. 21-52 (= Rev. française de psychanalyse, 46 [1982], p. 697-729).
2. Cf. U. von Wilamowitz-Moellendorff, Euripides Herakles II, Berlin 1889 (= Darmstadt, 1968).
3. Credo che per nessun altro eroe come per Eracle, panellenico, ma al tempo stesso locale, le tradizioni epicoriche e le relative pratiche cultuali siano da tenere nel massimo conto. L’interesse crescente per un approccio topografico nello studio del mito, che ha dato risultati notevoli per altre figure eroiche (ad es. quelle del mito tebano come Tiresia o Anfiarao) non può che rivelarsi utile per Eracle.
4. Cf. H. Blumenberg, Wirklichkeitsbegriff und Wirkungspotential des Mythos, in M. Fuhrmann(ed.), Terror und Spiel. Problème der Mythenrezeption, Miünchen, 1971, p. 34.
5. Cf. H. Blumenberg, Arbeit am Mythos, Frankfurt/M., 1979 (tr. it. Elaborazione del mito, Bologna, 1991).
6. È doveroso almeno ricordare lo sforzo esegetico e l’opera di sistemazione di C. Jourdain-Annequin, Héraclès aux portes du soir. Mythe et Histoire, Besançon/Paris, 1989 e ancora C. Bonnet, C. Jourdain-Annequin (eds), Héraclès d’une rive à l’autre de la Méditerranée. Bilan et perspectives, Bruxelles/Roma, 1992.
7. Nel contributo di C. Jourdain-Annequin, Héraclès et les divinités féminines, in C. Jourdain-Annequin, C. Bonnet (eds), Héraclès, les femmes et le féminin. Actes du Colloque de Grenoble 22-23 octobre 1992, Bruxelles, 1996, p. 267-87, si trova, tra l’altro, un utile esame delle varianti mitiche in rapporto ai culti e alle tradizioni locali e un appropriato richiamo alla memoria indigena.
8. Sui consigli di Atena all’eroe cf. Hes., Theog., 313-318 e sul suo ruolo di protettrice cf. Scut., 124-126.
9. Il libro, a dire il vero ormai datato, di P.E. Slater, The Glory of Hera. Greek Mythology and the Greek Family, Princeton, 1971 offre un esempio significativo di questo modo di interpretare il racconto omerico. Egli parte da un’osservazione che sembra ineccepibile: “the contradictions in Heracles begin with his ambivalent relationship with Hera” (p. 342), ma poi allinea sia l’episodio del parto ritardato, sia quello dell’accoglienza di Eracle nell’Olimpo con altri racconti di stupri, di nozze disgraziate, di travestitismo, sparsi nel corso dei secoli fino al III, IV sec. d.C, spiegando gli uni con gli altri, come se tutti i racconti fossero della stessa epoca e come se tutti provenissero da una stessa fonte e tutti riguardassero un solo uomo nel corso della sua esistenza.
10. Hom., Il., II, 657-660; Hes., fr. 232 Merkelbach-West.
11. Fr. 207 Tarditi = 324 West.
12. Si rinvia all’elenco dei figli di Eracle e delle loro madri fatto da Apollodoro, II, 7, 8. Per le fonti antiche più significative sulle singole eroine cf. infra, p. 191-192 nelle pagine dedicate al loro ruolo nel teatro.
13. Molto è stato scritto sulla configurazione dell’eroe in Pindaro ed anch’io, altrove, non sono sfuggita a questa tentazione: cf. P. Angeli Bernardini, Mito e attualità nelle odi di Pindaro. La Nemea 4, l’Olimpica 9, l’Olimpica 7, Roma, 1983, p. 56-62; 100-107; 127-135. Cf. anche: Eracle mangione: Pindaro, fr. 168 Snell-Maehler, in QUCC, 21 (1976), p. 49-52.
14. G.K. Galinsky, The Herakles Theme, Oxford, 1972, parla a questo proposito di un ’Herakles in transition’ (p. 27-28), fornendo uno spunto felice per future ricerche.
15. II fr. 4 è troppo lacunoso per poter ricostruire con precisione il ruolo di Eracle. Vi si narrava l’arrivo dell’eroe nella casa del cugino Ceice, re di Trachis, al momento di una festa; la guerra tra l’eroe e i Driopi; la sconfitta dei nemici e il loro trasferimento nel Peloponneso dove fondano la città di Asine (cf. W.S. Barrett, Bacchylides, Asine and Apollo Pythaieus, in Hermes, 82 (1954), p. 421-444. Non sembra che nel carme vi fosse spazio per avventure d’altro tipo.
16. L’etica di Simonide nell’Eracle di Euripide: l’opposizione mitica Atene-Tebe, in P. Angeli Bernardini (ed.), Presenza e funzione della città di Tebe nella cultura greca, Pisa/Roma, 2000, p. 233-263.
17. L’athlète Théogène et le ίερòς γάμος· d’Héraclès thasien, in RA, 18 (1941), p. 22-49.
18. Cf. L. Ziehen, Leges Graecorum Sacrae e Titulis Collectae, Lipsiae, 1906, n. 144C.
19. Probabilmente è nel giusto W.R. Halliday, The Greek Questions of Plutarch, Oxford, 1928, p. 217-219, quando sostiene che il rito matrimoniale descritto da Plutarco risulta confuso nella forma, ma che nella sostanza tratteggia la figura di Eracle a Cos come “god of marriage” (p. 219).
20. Si veda il racconto di Diod. Sic, IV, 31 e Apollod., II, 6, 1 in cui Megara viene ripudiata da Eracle e fatta sposare a Iolao prima che egli stesso si risposi con Deianira.
21. Cf. D. Pralon, Héraclès-Lole, in Héraclès, op. cit. (η. 7), p. 51-75.
22. Sullo stretto legame nell’Alcesti dei motivi ‘morte’ e ‘matrimonio’ si rinvia all’analisi di R. Rehm, Marriage to Death. The Conflation of Wedding and Funeral Rituals in Greek Tragedy, Princeton, 1994, p. 72-96.
23. Sul rituale nuziale sotteso nella scena cf. M.R. Halleran, Text and Ceremony at the Close of Euripides’ Alkestis, in Éranos, 86 (1988), p. 123-129.
24. Cf. I. Gallo, Ricerche sul teatro greco, Napoli, 1992, p. 33-34.
25. Gli eroi greci. Un problema storico-religioso, Roma, 1958, p. 230 sg.
26. Qualche titolo di commedie di Epicarmo: Busiride, Le nozze di Ebe, Eracle alla conquista del cinto di Ippolita, Eracle presso Fola.
27. Per l’episodio della schiavitù cf. Apollod., II, 6, 2-3; Diod. Sic, IV, 31, 5-8.
28. Per i frammenti di questi commediografi si rinvia all’edizione di R. Kassel, C. Austin, Poetae Comici Graeci I-VII, Berolini et Novi Eboraci, 1983.
29. TrGF 19 F 17a-33. Vd. anche A. Leurini, Ionis Chii testimonia et fragmenta collegit, disposuit, adnotatione critica instruxit, Amsterdam, 1992, fr. 22-38.
30. TrGF 20 F 32-35.
31. Per un panorama d’insieme cf. Galinski, op. cit. (n. 14), p. 80-100.
32. Cf. T. Zielinski, De Hercule tragico deque Heraclidarum Tetralogia Aeschylea, in Eos (1921/2), p. 59 sq. Più scettico M.S. Silk, Heracles and Greek Tragedy, in G&R, 32 (1985), p. 4.
33. Cf. Aristoph., Ran., 1080. Si veda da ultimo: Fr. Jouan, H. van Looy, Euripide. Tome III. Fragments, 1re partie Aigeus-Autolykos, Paris, 1998, p. 309-328.
34. Methodological Reflexions on the Myth of Heracles, in Il mito greco. Atti del Convegno Internazionale (Urbino 7-12 maggio 1973), Roma, 1977, p. 290-291.
35. Cf. Ch. Picard, Rituel archaïque d’Héraclès thasien, in BCH, 47 (1923), p. 246-249.
36. Cf. A. Rehm, Milet III, Delphinion, Berlin 1914, n° 132a, p. 276 sg.
37. Cf. L. Ziehen, Leges sacrae, op. cit. (n. 18), n° 144C, p. 356. Sempre a Cos, secondo Plutarco (Quaest. Gr., 58), il sacerdote di Eracle compiva il sacrificio nuziale vestito da donna e con i capelli agghindati.
38. E.L. Leutsch, F.G. Schneidewin, Corpus Paroemiographorum Graecorum I, Gôttingen, 1839, App. I, 88.
39. Eliano (De nat. anim., XVII, 46) racconta che galline e polli erano separati in due santuari limitrofi di Eracle ed Ebe. Le galline non erano ammesse nel santuario di Eracle.
40. Apollod., II, 4, 11; Diod. Sic, XV, 14, 3.
41. Ovid., Her., LX, 101-102.
42. Quaest. Gr, 58 (304c-e).
43. Lykoph., Alex., 39, 1328; Diod. Sic, IV, 9, 6-7; Paus., IX, 25, 2.
44. Cf. M. Delcourt, Hermaphroditea, Bruxelles, 1966, p. 22.
45. La Loraux, art. cit. (n. 1), p. 48, interpreta l’allattamento in relazione al ferimento della dea al seno destro da parte dell’eroe durante la battaglia (Hom., Il., V, 392-394): “She pays the trice through the incurable pain in her right brest, the pain of the mother stricken in her body, and perhaps also through the suffering of the masculine element within her.”
46. Jourdain-Annequin, Héraclès aux portes du soir, op. cit. (n. 6), p. 399-403. Per altre indicazioni in tal senso cf. C. Bonnet, Héraclès travesti, in Héraclès, les femmes, op. cit. (n. 7), p. 121, n. 3.
47. J. Boardman, D.C. Kurtz, Booners, in Greek Vases in the J. Paul Getty Museum. Occasional Papers on Antiquities, 3, Malibu, 1986, p. 35-70.
48. Sull’insieme del corpus cf. F. Frontisi-Ducroux, F. Lissarague, From Ambiguity to Ambivalence: a Dionysiac Excursion through the “Anakreontic” vases, in Before Sexuality, op. cit. (n. 1), p. 211-256.
49. TrGF 19 F 17a-33a. Si segue qui l’edizione di Leurini, op. cit. (n. 28).
50. Cf. H. van Herwerden, Observationes criticae in fragmenta comicorum Graeco-rum, Lugduni Batavorum, 1855, p. 130.
51. Dem., 68 Β 111 Diels-Kranz.
52. L’attribuzione del fr. *73 L. (“Indossando il corto mantello di lino a metà coscia”) M’Onfale di Ione abbastanza sicura. Più incerto il riconoscimento del personaggio proprietario del chitonisco.
53. Sull’antichità della storia, confrontata con altri racconti mitologici, si esprime senza riserve F. Wulff Alonso, in Héraclès, les femmes, op. cit. (n. 7), p. 104.
54. Si veda in proposito S. Ritter, Eracle e Onfale nell’arte romana dell’età tardo-repubblicana e augustea, in Héraclès, les femmes, op. cit. (n. 7), p. 89-102 (in particolare p. 90-91).
55. Th. Wiegand, Didyma II: die Inschriflen von A. Rehm, Berlin 1958, p. 301.
56. In Apollod., II, 4, 11 Eracle riceve dagli dei le armi che compongono la sua panoplia e da Atena un peplo, ma poco sopra si legge che l’eroe nella guerra contro Ergino e i Mini aveva ricevuto dalla dea un’armatura.
57. Cf. Bonnet, art. cit. (n. 46), p. 123.
58. Loraux, art. cit. (n. 1), p. 39.













