Rien. Niente.

Jean-Pierre Filiu è storico, esperto del Medio Oriente, professore a Sciences Po Paris. Insieme ad una missione di Medici senza Frontiere, ha trascorso un intero mese a Gaza, dove nessun giornalista straniero è ammesso. Ne affida il racconto a un libro, Un historien à Gaza (2025): un libro che non è un semplice diario di bordo ma testimonianza, lezione d’umanità, monito a non distogliere lo sguardo.
Traduciamo l’incipit.
Niente.
Niente mi preparava a ciò che ho visto e vissuto a Gaza.
Niente di niente. Niente.
Niente, nemmeno i miei soggiorni regolari dal 1980 nell’enclave palestinese, gli studi, le ricerche, le inchieste, le relazioni, le amicizie, le fedeltà, tessute nel corso degli anni.
Niente, nemmeno le creazioni degli artisti di Gaza, che tanto mi hanno ispirato, i loro film, le poesie, le opere o i manifesti contro “l’incubo dentro l’incubo” del dominio islamista sotto l’occupazione israeliana.
Niente, e soprattutto non i ricordi, carichi e intensi, di quella Gaza prima della Catastrofe attuale, oggi fantasmata come un paradiso perduto, ma già mutilata dalla guerra, l’una o l’altra delle quindici guerre condotte da Israele contro questo territorio dopo la Nakba, la “Catastrofe” palestinese del 1948.

Niente, malgrado la mia convinzione, molte volte argomentata, che Gaza, a dispetto della sua situazione periferica si trovi storicamente nel cuore della Palestina e che, così come ogni pace autentica con Israele dovrà essere ancorata a Gaza, ogni conflitto avviato a Gaza può trascinare i due popoli in abissi d’orrore.
Niente, malgrado i miei appelli, ripetuti e insistenti, alla rimozione del blocco imposto a Gaza dal 2007, quando il mondo intero si era abituato al fatto che più di due milioni di uomini e donne di questa “striscia” assediata vivessero, nella migliore delle ipotesi, ai margini dell’umanità.
Niente, malgrado i miei avvertimenti lanciati per un decennio sull'“impasse di sicurezza” di Israele che, credendo di garantire la propria sicurezza grazie alla totale insicurezza degli abitanti di Gaza, non solo commetteva un delitto morale, ma anche un errore strategico.
Niente tuttavia mi preparava a ciò che ho visto e vissuto a Gaza.
Certo, dal 7 ottobre 2023, qualche ora dopo l’inizio della campagna terrorista di Hamas, avevo chiamato alla solidarietà con tutte le vittime, quale che fosse la loro origine, nel presentimento che questa guerra israelo-palestinese sarebbe stata la più spaventosa nel conflitto che da più di un secolo oppone i due popoli. Avevo lanciato un appello appassionato alla liberazione incondizionata di tutti gli ostaggi israeliani, che allora si contavano a decine, senza sapere che alla fine sarebbero stati 251.
Certo, dal 22 ottobre 2023, avevo messo in guardia Israele e i suoi alleati contro i rischi di un’offensiva terrestre, esortandoli a “non cadere nella trappola di Hamas a Gaza”, un grido d’allarme spazzato via, cinque giorni più tardi, dall’inizio della rioccupazione di Gaza da parte dell’armata israeliana.
Certo, avevo in seguito espresso “il timore che, dietro la volontà ostentata di rappresaglia, si nasconda il disegno di eliminare non più solamente Hamas ma la striscia di Gaza in quanto tale”. E aggiungevo che “riducendo Gaza a un campo di rovine, l’offensiva israeliana sta distruggendo i fondamenti stessi di un’opposizione sociale e politica ad Hamas”.
Certo, avevo partecipato a decine di incontri con i cittadini in tutta la Francia, ero intervenuto nelle Università e nei licei, nei Municipi e nei circoli giovanili, nelle librerie e nei caffè associativi, per ricordare, ogni volta, la necessità di un cessate il fuoco a Gaza come condizione preliminare a un rilancio, finalmente deciso, della soluzione dei due Stati, che è l'unica strada percorribile per entrambi i popoli.
Certo, avevo accumulato dati, testimonianze, documenti, statistiche, inchieste, registrazioni, fotografie, mappe per cercare di comprendere il più possibile l’ampiezza e i dettagli delle distruzioni inflitte a quella che fu, fino alla metà del XX secolo, una delle oasi più prospere del Medio Oriente.
Niente tuttavia mi preparava a ciò che ho visto e vissuto a Gaza.
Era necessario che io vedessi e vivessi, tanto mi era diventato insopportabile il susseguirsi da quattordici mesi di macabri resoconti e di analisi allarmanti e sentivo di smarrirmi davanti ad una realtà che cominciava a sfuggirmi, mentre le organizzazioni internazionali non sapevano più quali tragici superlativi usare per descrivere un orrore a loro avviso senza pari.
Era necessario che io vedessi e vivessi per poter ritrovare il senso delle parole nella realtà di Gaza, mentre altri, lontano, molto lontano da Gaza, preferivano farsi a pezzi con le parole, esaltandosi nel loro buon diritto, ubriacandosi nell’alzare la posta, pronti a fare la guerra fino all'ultimo palestinese e fino all'ultimo israeliano.
Era necessario che io vedessi e vivessi, perché Israele vieta Gaza alla stampa internazionale, nonostante le ripetute proteste e, a Gerusalemme, vieta i ricorsi alla Corte Suprema, mentre a Gaza decine di giornalisti palestinesi vengono uccisi, a volte in attacchi mirati.
Era necessario che io vedessi e vivessi là, poiché avevo soggiornato due volte in Ucraina nel 2023, per diverse settimane che erano state indispensabili per impregnarmi della realtà di quella guerra, anche se i media di tutto il mondo vi compivano un lavoro straordinario (cosa capiremmo della guerra in Ucraina se ne dessero conto solo i giornalisti accreditati a Mosca?)
Era necessario che io vedessi e vivessi, e l'unico modo era far parte di un'organizzazione umanitaria, in questo caso Medici Senza Frontiere (MSF), che mi ha accordato la sua fiducia e a cui saranno integralmente ceduti i diritti di questo libro, anche se questo testo, insisto, impegna solo me e il mio editore.
Era necessario che io vedessi e vivessi, per ritrovare a Gaza non solo il significato delle parole, ma anche i semplici valori della nostra umanità comune.
Niente tuttavia mi preparava a ciò che ho visto e vissuto a Gaza.
(trad. di Angela Peduto)
Rien.
Rien ne me préparait à ce que j’ai vu et vécu à Gaza.
Rien de rien. De rien.
Rien, ni mes séjours réguliers depuis 1980 dans l’enclave palestinienne, ni mes études, ni mes recherches, ni mes enquêtes, ni mes relations, ni mes amitiés, ni mes fidélités, tissées au fil des années.
Rien, même pas les créations des artistes de Gaza, qui m’ont tellement inspiré, leurs films, leurs poèmes, leurs œuvres ou leur manifeste contre le « cauchemar dans le cauchemar » de la domination islamiste sous occupation israélienne.
Rien, et surtout pas les souvenirs, chargés et intenses de cette Gaza d’avant la Catastrophe actuelle, aujourd’hui fantasmée comme un paradis perdu, mais déjà mutilée par la guerre, l’une ou l’autre des quinze guerres livrées par Israël à ce territoire depuis la Nakba, la « Catastrophe » palestinienne de 1948.
Rien, malgré ma conviction, maintes fois argumentée, que Gaza se trouve historiquement au cœur de la Palestine, en dépit de sa situation périphérique, et que, de même que toute paix authentique avec Israël devra être ancrée à Gaza, tout conflit enclenché à Gaza peut entraîner les deux peuples dans des abîmes d’horreur.
Rien, en dépit de mes appels, répétés et insistants, à la levée du blocus imposé à Gaza depuis 2007, alors que le monde entier s’était habitué à ce que les plus de deux millions de femmes et d’hommes de cette « bande » assiégée vivent, au mieux, en marge de l’humanité.
Rien, malgré mes avertissements lancés durant une décennie sur « l’impasse sécuritaire » d’Israël qui, en croyant gager sa sécurité sur l’insécurité totale des habitants
habitants de Gaza, commettait non seulement une faute morale, mais aussi une erreur stratégique.
Rien ne me préparait pourtant à ce que j’ai vu et vécu à Gaza.
Certes, dès le 7 octobre 2023, quelques heures après le début de la campagne terroriste du Hamas, j’avais appelé à la solidarité avec toutes les victimes, quelle que soit leur origine, pressentant que cette guerre israélo-palestinienne serait la plus épouvantable du conflit opposant les deux peuples depuis plus d’un siècle. J’avais alors lancé un appel aussi vibrant à la libération inconditionnelle de tous les otages israéliens, que l’on chiffrait, à ce moment-là, en dizaines, sans imaginer qu’ils seraient finalement 251.
Certes, dès le 22 octobre 2023, j’avais mis en garde Israël et ses alliés contre les risques d’une offensive terrestre, leur enjoignant de « ne pas tomber dans le piège du Hamas à Gaza », un cri d’alarme balayé, cinq jours plus tard, avec le début de la réoccupation de Gaza par l’armée israélienne.
Certes, j’avais ensuite exprimé « la crainte que, derrière la volonté affichée de représailles, se cache le dessein d’éliminer non plus seulement le Hamas, mais la bande de Gaza en tant que telle ». Et j’ajoutais que, « en réduisant Gaza à un champ de ruines, l’offensive israélienne est en train de détruire les fondements mêmes d’une opposition sociale et politique au Hamas ».
Certes, j’avais participé à des dizaines de rencontres citoyennes dans toute la France, intervenant dans des universités et des lycées, des mairies et des MJC, des librairies et des cafés associatifs pour, chaque fois, rappeler l’impératif d’un cessez-le-feu à Gaza, préalable à une relance enfin déterminée de la solution à deux États, elle-même seule perspective d’avenir pour les deux peuples.
Certes, j’avais accumulé les bases de données, les témoignages, les documents, les statistiques, les enquêtes, les enregistrements, les photographies, les cartes pour essayer de saisir au plus près l’ampleur et les détails des ravages infligés à ce qui fut, jusqu’au milieu du XXe siècle, une des oasis les plus prospères du Moyen-Orient.
Rien ne me préparait pourtant à ce que j’ai vu et vécu à Gaza.
Car il me fallait le voir et y vivre, tant je ne supportais plus d’enchaîner depuis quatorze mois les macabres bilans et les analyses alarmantes, sentant que je perdais pied face à une réalité qui commençait de m’échapper, tandis que les organisations internationales ne savaient plus quel tragique superlatif employer pour décrire une horreur selon elles inégalée.
Car il me fallait le voir et y vivre, pour que mes mots retrouvent leur sens dans la réalité de Gaza, pendant que d’autres, loin, si loin de Gaza, préféraient s’écharper pour des mots, s’exaltant de leur bon droit et s’enivrant de leurs surenchères, prêts à faire la guerre jusqu’au dernier Palestinien et jusqu’au dernier Israélien.
Car il me fallait le voir et y vivre, parce qu’Israël interdit Gaza à la presse internationale, malgré les protestations répétées et, à Jérusalem, les recours devant la Cour suprême, tandis que des dizaines de journalistes palestiniens sont tués à Gaza, parfois dans des frappes ciblées.
Car il me fallait le voir et y vivre, puisque j’avais séjourné à deux reprises en Ukraine en 2023, plusieurs semaines indispensables pour m’imprégner de la réalité de cette guerre-là, alors même que les médias du monde entier y accomplissent un travail remarquable (que comprendrions-nous à la guerre d’Ukraine si seuls en rendaient compte des journalistes basés et accrédités à Moscou ?).
Car il me fallait le voir et y vivre, et la seule voie pour cela était d’intégrer une organisation humanitaire, en l’occurrence Médecins sans frontières (MSF), qui m’a accordé sa confiance et à qui l’intégralité des droits d’auteur de ce livre sont versés, même si ce texte, j’insiste, n’engage que moi et mon éditeur.
Car il me fallait le voir et y vivre, pour retrouver à Gaza non seulement le sens des mots, mais aussi les simples valeurs de notre humanité commune.
Rien ne me préparait pourtant à ce que j’ai vu et vécu à Gaza du 19 décembre 2024 au 21 janvier 2025.
(da Un Historien à Gaza, Ed. Les Arènes, 2025)
* L’opera ‘The pity’, insignita del Dobell Drawing Prize nel 2012, è dell’artista australiana Louisa Chircop: link

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