20 gennaio 2024

Hannah Arendt e il sogno di una federazione post-nazionale e post-coloniale

Octave Lamargnac-Matheron
Seconda parte

(Leggi la prima parte cliccando qui)

Utopia federativa e realtà del conflitto

1948: proclamazione dello Stato di Israele

La situazione di contrapposizione tra i due popoli fu esacerbata da una concezione politica dove lo Stato-nazione etnicamente e culturalmente omogeneo appariva l’unica soluzione praticabile. Lo Stato-nazione fu rapidamente percepito, dopo la fine del mandato britannico, come una necessità, ammessa senza reale discussione. Tutto il problema era capire quale natura avrebbe avuto questo Stato dominante il territorio palestinese: ebreo con minoranza araba dominata, arabo con dominanza ebrea dominata, oppure due Stati derivati da una spartizione del territorio secondo frontiere destinate a una contestazione permanente? Da una parte e dall’altra, afferma Arendt, è mancata la volontà di inventare altri modi di convivenza. In particolare, Arendt indica un “cambiamento decisivo dell’opinione pubblica ebrea”. Il sionismo era sempre stato attraversato da profonde divergenze di orientamento, e soprattutto da una componente “antinazionalista” particolarmente rappresentata nei kibboutzim. All’uscita dalla Seconda Guerra mondiale, all’indomani della Shoah, il sentimento di isolamento degli Ebrei si radicalizza, con l’idea che “tutti i non-Ebrei sono antisemiti”. “La recente catastrofe in Europa [ha prodotto] uno stupefacente e rapido mutamento in quello che noi chiamiamo carattere nazionale”: un ripiegarsi sul nazionalismo. “L’ostilità globale dei non-ebrei […] che doveva sparire con la normalizzazione del popolo ebreo in Palestina”, con la fine della diaspora, “è oggi considerata dai sionisti un fatto immutabile ed eterno della storia ebrea”.

Questa assolutizzazione nella percezione dell’antisemitismo produce una forma di esaltazione suicidaria del ripiegamento nazionale: “Oggi non esiste un’organizzazione

e un singolo ebreo che non appoggino, in privato o in pubblico, la spartizione e la fondazione di uno Stato ebraico”. Per l’opinione pubblica, “è giunto il momento di ottenere tutto o niente, vittoria o  morte; le rivendicazioni arabe sono inconciliabili con quelle ebraiche e il problema può essere risolto solo militarmente; gli arabi, tutti gli arabi, sono nostri nemici e noi accettiamo questa realtà come un dato di  fatto […] l’esperienza degli ebrei negli ultimi decenni […] ci ha alla fine aperto gli occhi e ci ha insegnato ad aver cura di noi stessi […] Siamo pronti a cadere combattendo e considereremo chiunque ci sarà d’ostacolo un traditore […] Il popolo ebraico ha improvvisamente smesso di credere nella sopravvivenza come supremo bene in sé ed è passato in pochi anni all’estremo opposto. Ora gli Ebrei credono nel combattimento ad ogni costo e ritengono che ‘cadere’ sia un modo assennato di fare politica”. Arendt sottolinea una forma di sentimento escatologico: il "verdetto finale della storia", l'"epilogo definitivo" è arrivato. Occorre battersi ora, ora che l'antisemitismo radicale del mondo è messo a nudo. La filosofa descrive questa posizione come "sciovinismo razzista": rappresentazione ideologica "irrimediabilmente scollegata dalle realtà di questo mondo", che rende inefficace ogni negoziazione e vanifica ogni compromesso.

Da un testo all’altro, Arendt si sforza di comprendere questo esaurimento dell'antinazionalismo in seno al sionismo. I kibbutzim "sono forse l’esperimento sociale più promettente tra tutti quelli compiuti nel XX secolo, e l’esperienza più bella della patria ebraica. Qui, in totale libertà e senza impedimenti da parte dei governi, sono stati creati una nuova forma di proprietà, un nuovo tipo di lavoro agricolo, nuovi modi di vita familiare e di educazione dei bambini, nuovi modi di affrontare i difficili conflitti tra città e campagna, tra lavoro agricolo e industriale". I promotori di questi molteplici insediamenti collettivi non si preoccupavano - e anzi sfidavano - l'obiettivo nazionalista di creazione di uno Stato. Concentrati sulle loro concrete invenzioni sociali, si caratterizzavano addirittura per una certa astensione dalla politica. I sostenitori  di questa versione del sionismo “erano fuggiti in Palestina come si potrebbe desiderare di fuggire sulla luna, in un luogo al di là della malvagità del mondo. Conformemente ai loro ideali, essi si erano stabiliti sulla luna; e con la forza straordinaria della loro fede furono capaci di creare piccole isole di perfezione". È stato questo entusiastico assorbimento nei problemi immediati che ha permesso ai pionieri del kibbutz di portare avanti la loro opera senza venire disturbati dalle ideologie più dannose dei nostri tempi, di creare leggi nuove e nuovi modelli di comportamento, di fondare nuove consuetudini e nuovi valori da tradurre e integrare in nuove istituzioni”. Ma è anche questo ritiro dalla vita politica che ha permesso l’egemonia della tendenza nazionalista; essa contribuirà in larga misura a rendere impossibile il dialogo, sforzandosi di "naturalizzare" come un diritto eterno le rivendicazioni ebraiche in Israele. Era esattamente il contrario, per H. Arendt, a rendere interessante la speranza di sperimentazione sociale e politica che animava il focolare nazionale ebraico.

“Nessuna necessità economica spinse gli ebrei ad andare in Palestina […] quella terra non costituiva una tentazione […] Gli insediamenti rurali collettivi, spina dorsale della società palestinese ed espressione del pionierismo, non possono certo essere spiegati con ragioni utilitaristiche”: essi nascono da un progetto politico che non era “per così dire, nella natura delle cose, in accordo con le regole del mondo”. Tutto, nello sviluppo del focolare nazionale ebraico è "artificiale", "emana dalla volontà del popolo ebraico". Ed è "proprio questa artificialità che dava alle realizzazioni ebraiche in Palestina il loro significato umano". È qui che occorre vedere il "diritto degli Ebrei sulla Palestina, acquisito e fondato sul lavoro ebraico": "La fondazione della Palestina è una grande impresa e potrebbe costituire un argomento migliore e più convincente della diffusa affermazione pretestuosa per cui la nostra disperata situazione in Europa andrebbe a parziale giustificazione dell’ingiustizia perpetrata a danno degli arabi”. Ma i nazionalisti diffidavano dell’artificio, troppo precario, troppo fragile: volevano fondare il loro diritto sulla terra in un'eterna autoctonia. Per loro la Palestina era "la sola risposta possibile", "l'unica soluzione": il ritorno alla Terra promessa.

1948: vittoria di Israele

La vittoria di questa tendenza e il trionfo sugli arabi coalizzati durante la guerra del 1948 inquietano profondamente la filosofa: “Per quanto riguarda le relazioni arabo-ebraiche, la guerra e le vittorie israeliane non hanno cambiato o risolto alcunché”, al contrario: “un essere-a-casa che il mio vicino non riconosce e non rispetta non è tale. Un focolare nazionale ebreo che il popolo vicino non riconosce e non rispetta non è un focolare ma un’illusione - fino al momento in cui diventa un campo di battaglia […] Perfino uno Stato ebreo in Palestina dotato di una maggioranza ebrea predominante, in altri termini una Palestina ebrea, sarebbe una configurazione del tutto precaria senza un preliminare accordo con i popoli confinanti”.

La vittoria, con il conseguente armistizio, non è una pace autentica, un “compromesso” nato da una “negoziazione”. Tutt’al più è un ripiego che, con il pretesto di far cessare le ostilità, prepara futuri scontri. Arendt guarda con preoccupazione ai possibili scenari futuri: “Gli ebrei ‘vittoriosi’ vivrebbero circondati da una popolazione araba interamente ostile, segregati entro confini perennemente minacciati, a tal punto occupati a difendersi fisicamente da eliminare ogni altro interesse e ogni altra attività. L’intero popolo smetterebbe di interessarsi allo sviluppo della cultura ebraica, rinuncerebbe agli esperimenti sociali, quasi fossero lussi privi di importanza pratica; il pensiero politico sarebbe centrato sulla strategia militare; lo sviluppo economico sarebbe determinato esclusivamente dalle necessità della guerra. E questa sarebbe la sorte di una nazione che - indipendentemente dal numero di immigrati che potrebbe ancora assorbire e dall’estensione del suo territorio (nel quale, secondo la folle richiesta dei revisionisti, dovrebbero rientrare la Palestina e la Transgiordania) - continuerebbe ad essere un piccolo popolo soverchiato dalla prevalenza numerica e dall’ostilità dei suoi vicini”. In queste condizioni gli ebrei di Palestina degenererebbero in una di quelle “piccole tribù guerriere” che si lasciano alle spalle la parte migliore, l’innovazione sociale.

Arendt sottolinea la “sterilità culturale e politica di piccole nazioni completamente militarizzate” e conclude che uno “Stato ebraico” puramente ebreo e guidato da logiche strettamente immunitarie “può avvenire solo a scapito di una patria ebraica”. Un tale Stato sarebbe un “potere sovrano il cui solo diritto sovrano sarebbe quello di suicidarsi”. Ora, per Arendt, “il vero obiettivo degli ebrei in Palestina è l’edificazione di una patria nazionale ebraica. Questo obiettivo non deve mai essere sacrificato alla pseudo-sovranità di uno Stato ebraico”. Questo Stato autarchico, spartiate, accerchiato da vicini ostili, ostacolato nelle possibilità di sviluppo, sarebbe prima o poi condannato, a meno di affidarsi al sostegno delle grandi potenze straniere e della comunità ebraica internazionale, rinunciando così alla propria sovranità. C’è da aspettarsi che, ripiegato su sé stesso, lo Stato ebraico si allontanerebbe dalla diaspora, il cui sostegno si farebbe più controllato e più incerto. Israele, incapace di liberarsi di una tale dipendenza, sarebbe invischiata nella “situazione poco invidiabile di dover creare situazioni d’emergenza, sarebbe cioè costretta a una politica di aggressione e di espansione” che, prolungando artificialmente la guerra, servirebbe a garantire i flussi finanziari necessari alla sua esistenza. Proprio il sostegno della comunità ebraica mondiale ha permesso, sul piano economico, che l’insediamento ebraico avvenisse senza troppa considerazione per il mondo circostante, ostacolando quell’intreccio di esistenze e quella comunanza di interessi che avrebbe permesso una coesistenza pacifica.

E tuttavia, malgrado la realtà sempre più tragica, Arendt continua instancabilmente ad affermare la necessità di coesistenza e di pace. “La necessità di un’intesa arabo-ebraica può essere dimostrata in base a fattori oggettivi; la sua realizzabilità dipende quasi interamente dalla saggezza politica e dalla personalità degli individui. La necessità, basata su considerazioni economiche, militari e geografiche, si farà sentire solo nel lungo periodo o, come è probabile, quando sarà troppo tardi. La realizzabilità riguarda il presente immediato: la questione è se esistono sufficienti capacità di governo da entrambe le parti”. La cooperazione tra i due popoli è essenziale: in alternativa, c’è la guerra.

1948-67: la speranza di una soluzione federativa

Ai suoi occhi questa possibilità è una necessità. La prosecuzione della guerra provocherebbe un arresto nello sviluppo dei due popoli. “La pace nel Vicino Oriente è indispensabile per lo Stato d’Israele, per il popolo arabo e per il mondo occidentale […] L’idea di una cooperazione arabo-ebraica, benché non si sia mai realizzata a nessun livello e appaia oggi più lontana che mai, non è una fantasticheria irrealistica, ma una fondata constatazione del fatto che senza di essa l’intera impresa ebraica in Palestina è destinata a fallire […] Molte opportunità di fondare un’amicizia arabo-ebraica sono già state sprecate, ma nessuno di questi insuccessi può cambiare il fatto fondamentale che l’esistenza degli ebrei, in Palestina, dipende da quell’amicizia […] Ebrei ed arabi potrebbero essere indotti dalle circostanze a mostrare al mondo che tra i due popoli non esistono differenze che non possano essere superate”. La pace “non può essere imposta dall’esterno; non può che essere il risultato di negoziati, di un compromesso reciproco e di un accordo finale tra le due parti”. Di conseguenza, presuppone una comprensione degli interessi comuni, che sfoci in una stretta cooperazione economica e politica. “Una buona pace è in genere il risultato di negoziati e compromessi, non necessariamente di un programma. Lo stabilirsi di buone relazioni tra ebrei e arabi dipenderà da un mutato atteggiamento reciproco, da un cambiamento nell’atmosfera della Palestina e del Vicino Oriente, non necessariamente da una formula. Quasi nessun conflitto nella storia del mondo ha provocato, dall’esterno, tanti piani e formule; tuttavia, nessuno di questi è mai stato ritenuto accettabile dalle due parti. Tutti, non appena resi pubblici, sono stati denunciati o come filo-ebraici dagli arabi o come filo-arabi dagli ebrei”.

Ora, senza gli arabi, senza lo sviluppo economico delle popolazioni arabe, Israele continuerà a dipendere dall’aiuto esterno. Dall’altra parte, il mondo arabo potrebbe largamente beneficiare della cooperazione con Israele. “La comunità ebrea in Palestina può diventare un fattore molto importante nello sviluppo del Vicino Oriente […] La Palestina era ed è un paese povero […] un ambiente disperatamente misero e sterile […] In trent’anni la terra fu completamente trasformata,  come se fosse stata trapiantata in un altro continente, e ciò senza conquista e senza alcun tentativo di sterminio dei nativi […] Quali che siano le ricchezze che la Palestina possiede, si tratta soltanto dei prodotti del lavoro ebraico, che probabilmente non sopravviveranno se gli ebrei verranno espulsi dal paese”.

Da un punto di vista geopolitico, la frammentazione in tanti piccoli paesi porterebbe ad una “balcanizzazione” dell’intera regione e farebbe del Vicino Oriente un campo di battaglia per gli interessi contrastanti delle grandi potenze. Arendt crede perfino alla possibilità che la Palestina, se arrivasse a superare le sfide che si presentano, potrebbe rappresentare “un’avanguardia nelle relazioni internazionali”. Vi crede tanto più che, “esclusi per secoli dalla storia ufficiale, [gli ebrei] non hanno un passato imperialista da far dimenticare” e sarebbero in grado di inventare altri modi politici di coesistenza, laddove il modello dello Stato-nazione al quale tutti si aggrappano come punto di riferimento assoluto, sembra nocivo più di ogni altra cosa. “La sovranità nazionale, che è stata così a lungo il simbolo stesso del libero sviluppo nazionale, è diventata il più grave pericolo per la sopravvivenza nazionale delle piccole nazioni”.

Pur evolvendo, il suo punto di vista si manterrà abbastanza costante: il rifiuto di soluzioni basate sull’idea di Stato-nazione (né Stato ebraico né Stato arabo, né bipartizione della Palestina, perché “è semplicemente ridicolo credere che una nuova spartizione di un territorio così piccolo […] potrebbe risolvere il conflitto esistente tra due popoli”) e la promozione di soluzioni federative o, meglio, confederative (“due entità politiche indipendenti [con] un governo comune […] la cui struttura eviti la pericolosa opposizione di maggioranza e minoranza” che finisce sempre per degenerare in dominazione tirannica). Occorre sfuggire alla “tentazione di risolvere i conflitti nazionali creando prima Stati sovrani e poi accordando diritti alle minoranze”. Ai suoi occhi “un’autentica federazione è costituita da diversi elementi politici […]  chiaramente riconoscibili che, tutti insieme, compongono lo Stato”. Lo Stato federativo allea “popoli diversi aventi uguali diritti”, deve basarsi su “consigli locali ebraico-arabi” in modo da rendere possibile un intreccio sempre maggiore: la costruzione di queste strutture di convivenza deve giocarsi al “livello più elementare, che è anche il più importante, quello della prossimità e della vicinanza”.

1967-73: alla prova della realtà

La posizione di Arendt è molto vicina a quella del rabbino Judah Magnes (1877-1948), al quale la filosofa rende omaggio. “Sordi alle voci che si levavano in uno spirito di intesa, di compromesso e di ragionevolezza, gli eventi sono stati abbandonati al loro corso. Per più di venticinque anni il Dr. Magnes e il piccolo gruppo dei suoi seguaci in Palestina e nel sionismo, hanno predetto che vi sarebbe stata o una cooperazione arabo-ebraica o la guerra, e c’è stata la guerra; che ci sarebbe potuta essere o una Palestina bi-nazionale o la dominazione di un popolo sull’altro, e c’è stato l’esodo di più di 500.000 arabi dal territorio dominato da Israele”.

Come Magnes, Arendt osa spingersi verso un sogno che supera l’idea di una semplice federazione della Palestina: questa dovrebbe essere solo la “prima pietra di una più vasta struttura federativa nel Vicino Oriente e nella regione mediterranea”, capace di garantire l’indipendenza della regione garantendo a ciascun popolo un posto, anche a quelli che, all’epoca, non hanno uno Stato.

Questa ipotesi sembra oggi più lontana che mai; tuttavia nel 1948 Arendt la riafferma con insistenza, pur sottolineando quanto sembri irrealizzabile e pur nella lucida consapevolezza della realtà di un conflitto che sembra inestinguibile. Con preveggenza scrive: “Il modo più realistico per valutare il costo degli avvenimenti dell’anno passato per i popoli del Vicino Oriente, non è costituito dalle perdite di vite umane, dai danni economici, dalla distruzione provocata dalla guerra o dalle vittorie militari, ma dai mutamenti politici, il più importante dei quali è stata la creazione di una nuova categoria di persone senza patria, i profughi arabi. Questi non costituiscono soltanto un pericoloso potenziale irredentistico disperso in tutti i paesi arabi, dove potrebbero facilmente diventare il visibile legame unificante; ciò che è molto peggio, qualunque possa essere la spiegazione del loro esodo (una conseguenza della propaganda araba delle atrocità o le reali atrocità o una mescolanza di entrambe), la loro fuga dalla Palestina, preparata dai piani sionisti per il trasferimento su larga scala della popolazione, durante la guerra, e seguita dal rifiuto israeliano di riammettere i profughi nella loro terra d’origine, ha fatto alla fine diventare vera l’antica accusa araba contro il sionismo: gli ebrei miravano semplicemente a cacciare gli arabi dalle loro case”.

Colombe al Muro del Tempio occidentale di Gelderen, Bram van (1928-2011), Jewish Historical Museum, Netherlands.

Regardons Waël Dahdouh poursuivre héroïquement son travail sur al-Jazeera, depuis Gaza, quelques heures seulement après avoir tenu sa femme et ses enfants morts dans ses bras. Regardons sur BBC Maoz Inon, l’homme qui a perdu ses parents dans le massacre du 7 octobre, supplier le gouvernement assassin de son pays de ne pas bombarder Gaza. La région est infestée de criminels ? Oui. Mais aussi habitée par combien d’hommes et de femmes qui résistent en silence et maintiennent les lumières allumées. Ne perdons pas de vue les passerelles, si fragiles soient-elles, si douloureux soit l’effort. Le combat contre la haine et le combat contre la barbarie, c’est le même.

Guardiamo Waël Dahdouh mentre eroicamente prosegue il suo lavoro su Al-Jazeera, da Gaza, soltanto qualche ora dopo aver tenuto tra le braccia la moglie e i figli morti. Guardiamo sulla BBC Maoz Inon, l’uomo che ha perso i genitori nel massacro del 7 ottobre, mentre supplica il governo assassino del suo paese di non bombardare Gaza. La regione è infestata da criminali? Sì. Ma è anche abitata da uomini e donne che resistono in silenzio e tengono accese le luci. Non perdiamo di vista i punti d’unione, per quanto fragili siano, per quanto doloroso sia lo sforzo. La lotta contro l’odio e la lotta contro la barbarie sono la stessa cosa.

Pour que l’hôpital al-Chifa ne devienne pas la fosse commune de notre humanité, il n’y a plus de solution qui ne soit radicale : l’utopie au lieu des idéaux sanglants. Une conférence mondiale de la paix qui remette l’espèce humaine à sa place : ni plus ni moins que les habitants d’une même petite planète au sein d’un univers infini. Avec, pour finir, un même lopin de terre où vivre ensemble.

Affinché l’ospedale di Al-Shifa non diventi la fossa comune della nostra umanità, non ci sono più soluzioni se non quelle radicali: l’utopia al posto degli ideali sanguinosi. Una conferenza mondiale di pace che rimetta la specie umana al suo posto: né più né meno che gli abitanti di uno stesso piccolo pianeta in seno a un universo infinito. E, per finire, uno stesso pezzetto di terra dove vivere insieme.

(Dominique Eddé, scrittrice e saggista di origine libanese, dicembre 2023)

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