13 maggio 2022

Tradurre è necessario, cioè (im)possibile

Carmine Di Martino

*Il testo è tratto dal libro Figure dell’evento. A partire da Jacques Derrida, Carmine Di Martino, Ed. Guerini Scientifica, 2009

[Ringraziamo l'Autore che ha generosamente concesso la riproduzione del testo]

Univocità e traduzione

Nel discorso, cui abbiamo accennato nelle ultime pagine del precedente capitolo, che tende a sottolineare la assoluta alterità, dissimmetria, incomparabilità di individui e culture – allo scopo di  salvaguardarne l’alterità – è all’opera un certo pensiero della traduzione, del rapporto tra traducibilità e intraducibilità, che merita di  essere interrogato. Come pensare il rapporto a un testo, a una lingua, a una cultura «altra»? E alla «propria»? È possibile determinare  rigorosamente l’unità e l’identità di una lingua, di una cultura? Come pensare la relazione, ammesso che ve ne sia, tra lingue e culture? Che cosa significa tradurre?  

Per Derrida la traduzione non è mai stata un problema fra gli altri [1] e non vi è forse nessuno, tra i filosofi contemporanei, che abbia tributato ad essa una attenzione così continua, profonda, insistente, quasi ossessiva. Nell’opera di Derrida la questione parte da molto lontano, da una traduzione che egli stesso decide di compiere di un testo di Husserl, l’Appendice III a La crisi delle scienze europee, conosciuto con il titolo di L’origine della geometria, e si annuncia nella lunga Introduzione che egli fa precedere all’edizione francese del testo [2]. Nel corso di una analisi estremamente puntuale della tematizzazione husserliana del linguaggio e della scrittura come condizioni  di possibilità dell’oggettività ideale assoluta, Derrida interroga il  modo in cui Husserl concepisce la traduzione e il compito del traduttore, in connessione con l’ideale dell’esattezza e dell’univocità  dell’espressione, cui ogni scienziato rigoroso, innanzitutto il filosofo, dovrebbe tendere. «Husserl non ha mai cessato di appellarsi  all’imperativo dell’univocità. L’equivocità è la strada di ogni aberrazione filosofica [3]». In ciò ne va, tra l’altro, nientemeno che della  possibilità della tradizione e della storia. Scrive Derrida, delineando  la posizione husserliana:  

«L'univocità è la condizione di una comunicazione tra le generazioni di ricercatori a qualsiasi distanza. Essa assicura l'esattezza della traduzione e la purezza della tradizione. Significa che nel momento stesso in cui sottrae il senso alla modificazione storica, essa soltanto rende possibile, d'altra parte, una storia pura come trasmissione e raccoglimento del senso. Essa non è che l'indice di limpidezza dell'etere storico. Una volta ancora, l'esigenza di univocità, formulata da Husserl prima della pratica delle riduzioni, non è che la riduzione della storia empirica nella direzione di una storia pura [4]»

Derrida mostra la connessione presente in Husserl tra il tema della  traduzione e quello della tradizione, ovvero della trasmissione e  della riattivazione del senso, avendo di mira una messa in questione dell’ideale husserliano (o almeno presunto tale) dell’univocità e  della traducibilità assolute. Egli persegue l’obbiettivo accostando  alla posizione di Husserl quella di Joyce. L’opera di quest’ultimo si  muove in una direzione antipodale rispetto all’ideale husserliano:  Joyce pratica e mette in scena, mediante la sua scrittura, l’equivocità come la dimensione stessa del linguaggio. Il progetto joyciano  è sintetizzato da Derrida in termini che potrebbero essere utilizzati, pressoché identicamente, per descrivere l’operazione di scrittura  che si consuma in tanti suoi testi:  

«[...] ripetere e riprendersi a carico la totalità dell’equivoco stesso, in un  linguaggio che faccia affiorare nella più grande sincronia possibile la  massima potenza delle intenzioni sepolte, accumulate e mescolate  nell’anima di ogni atomo linguistico, di ogni vocabolo, di ogni parola,  di ogni proposizione semplice, dalla totalità delle culture mondane  […]; far apparire l’unità strutturale della cultura empirica totale  nell’equivoco generalizzato di una scrittura che non traduce più una  lingua nell’altra a partire da nuclei di senso comuni, ma circola attraverso tutte le lingue contemporaneamente, accumula le loro energie,  attualizza le loro più segrete consonanze, palesa i loro più lontani orizzonti comuni, coltiva le sintesi associative anziché fuggirle e ritrova il valore poetico della passività [5]»

Ora, Joyce, come a suo modo Derrida, può perseguire il progetto di una «scrittura» che metta al lavoro e capitalizzi l’equivoco poiché l’equivocità appartiene essenzialmente al linguaggio. «Se l’equivocità è di fatto sempre irriducibile, è perché le parole e il linguaggio in generale non sono né possono mai essere oggetti assoluti. Essi non hanno identità resistente e permanente che sia loro assolutamente propria [6] ».

Ogni parola, in quanto appartenente a un contesto enunciativo e a una storia, in quanto inscritta in una rete di relazioni e opposizioni linguistiche, radicata in una cultura, è sempre altro da se stessa, si carica, al di là di ogni presunta purezza, «di intenzioni o di reminiscenze laterali e virtuali [7]», non ha un senso proprio, anzi, ha un senso irriducibilmente improprio; in ogni parola, in «ogni atomo linguistico», sono contenute «intenzioni sepolte, accumulate e mescolate», che ne impediscono la semplice identità a sé. Ma quello che si dice della parola si deve dire della lingua: essa non è mai «una», identica a se stessa, chiusa in sé, è già da sempre intaccata dalle altre; non vi è mai lingua pura, originaria. In sintesi, osserva Derrida, «l’equivocità è il marchio congenito di ogni cultura». L’ipotesi di un linguaggio assolutamente univoco è perciò «assurda e contraddittoria», anche quando si perseguisse l’intento di una purificazione della lingua naturale in vista di una lingua tecnica,  scientifica, massimamente formalizzata e convenzionale (che resta  comunque un sogno, cartesiano o leibniziano o di altro tipo).  

Non si tratta, tuttavia, per Derrida, di opporre il progetto joyciano a quello husserliano, l’equivocità all’univocità. Anche l’equivocità infatti non può essere assoluta: una «assoluta equivocità» sarebbe un puro controsenso, giacché l’equivocità può apparire solo in rapporto all’univocità e nel suo orizzonte. Ma il problema, attestandoci su un piano fenomenologico, è soprattutto un altro: senza  una «trasparenza minimale del linguaggio [9]», senza un minimo di  univocità, non vi sarebbero intelligibilità e traduzione, perciò non  vi sarebbero riattivazione e tradizione del senso e non vi sarebbe  storia. Il problema dell’univocità e della traduzione è, come si diceva sopra, nientemeno che quello della tradizione e della storia.  D’altra parte, poiché l’univocità è sempre relativa – in quanto il  linguaggio non è un oggetto assoluto e l’equivocità appartiene al  suo funzionamento –, la storia del senso non è mai «storia pura»,  senza resto e senza perdita, la traduzione e la riattivazione sono  sempre operazioni finite e, in tal senso, impossibili. Non vi è dunque assoluta univocità e traducibilità assoluta equivocità e intraducibilità, ma sia l’una sia l’altra, necessariamente, allo stesso  tempo: tertium datur. Il movimento decostruttivo, che in questa  prima opera si annuncia in filigrana, prende di mira – come sappiamo – la logica dell’identità e dell’opposizione semplice, verso  una «a-logica» del terzo, dell’indecidibile, del double bind, del passaggio.  

Non bisogna opporre quindi la tesi della traducibilità a quella  dell’intraducibilità, il modello filosofico a quello letterario; occorre  riconoscere che vi è del filosofico nella letteratura e vi è del letterario nella filosofia. Estremizzando, che cosa direbbe la filosofia?  Essa, sintetizza Derrida, direbbe più o meno:  

«Ciò che conta è la verità o il senso, e il senso è prima o al di qua della  lingua, di conseguenza è traducibile. Ciò che comanda è il senso e di  conseguenza si deve poter fissare l’univocità del senso o in ogni caso  la plurivocità deve essere dominabile, e se questa plurivocità è dominabile la traduzione come trasporto di un contenuto semantico in  un’altra forma significante, in un’altra lingua, è possibile. Vi è filosofia soltanto se la traduzione in questo senso è possibile, quindi la tesi  della filosofia è la traducibilità, la traducibilità in questo senso corrente, trasporto di un senso, di un valore di verità, da una lingua in  un’altra, senza danno essenziale [10]».

Se da una parte si identifica la filosofia, una certa concezione della  filosofia – che Derrida ha fin dall’inizio cercato di mettere in questione – con questa tesi, la letteratura, dall’altra parte, farebbe segno verso l’intraducibilità, per via di quel «legame talmente intrinseco, originario ed essenziale con una lingua naturale, che, in fondo, non è mai questione di tradurla [11]». La tesi della letteratura sarebbe, pertanto, quella dell’intraducibilità: l’esperienza della letteratura è l’esperienza di una plurivocità non padroneggiabile, di qualcosa che resiste e si oppone alla traduzione, ossia di un pensiero, di  una verità, di un senso che non possono essere trasportati fuori della lingua in cui si producono senza che tale trasporto comporti  un danno, una perdita, o meglio, un ineliminabile resto. La letteratura è «l’esperienza del pensiero nella lingua», come dice Derrida.

Ma si ripresenta qui il nodo: non si tratta di opporre filosofia e letteratura, di optare per l’uno o l’altro modello; si tratta piuttosto di non accreditare l’immagine di una presunta purezza e del filosofico e del letterario, come se vi fosse un confine identificabile, una frontiera sicura tra i due generi, i due campi – che passa, nella fattispecie, per il problema della traduzione –, e una semplice estraneità fra di essi. Entrambi, al contrario, sono inscritti nell’esperienza del la lingua e appartengono all’ambito della testualità (anche la filosofia si realizza in una lingua «naturale» e costituisce un’operazione di scrittura; anche la letteratura, simmetricamente, reclama un’intelligibilità, perciò un minimo di univocità e di traducibilità). Dunque, se la filosofia rappresenta l’ideale della univocità e della traducibilità, vi è necessariamente del filosofico nella letteratura, pena la totale inintelligibilità di quest’ultima; e se la letteratura mette in scena – assai meglio della filosofia – la plurivocità non dominabile del senso e la resistenza alla traduzione, vi è del letterario nella filosofia, in forza del suo inevitabile legame con la carne delle lingue naturali, della performatività della parola e della scrittura a cui si affida: anche la filosofia si ritrova allora dal lato del poetico, ossia della letteratura. Senza cedere alla confusione, senza ricondurre un campo  all’altro, Derrida afferma:  

«c’è sempre, in ciò che chiamiamo 'filosofico', una aderenza alla lingua  naturale, una profonda indissociabilità di certi filosofemi dal greco, dal tedesco, dal latino, che non è la parte letteraria della filosofia, ma  è piuttosto qualcosa che la filosofia spartisce con la letteratura. E, inversamente, c’è nella letteratura del traducibile, una promessa di traduzione, cioè un aspetto che non è estraneo al filosofico […] Come  la letteratura, la filosofia è indissociabilmente legata agli idiomi, ai corpora delle lingue naturali. Non si può quindi dire, da questo punto di  vista, che ci sia una frontiera – poniamo, la lingua o il rapporto con  la lingua – tra filosofia e letteratura [12]».

È in quanto ha cercato di spingersi più in là possibile in questa direzione, nel mostrare cioè l’impossibilità di una divisione assoluta  tra i due generi e la necessità essenziale – che appartiene, per così  dire, «alle cose stesse» – del passaggio, dell’intreccio tra essi, in virtù di ciò che condividono, che Derrida si è spesso attirato l’accusa  di volerli confondere, di voler ridurre la filosofia alla letteratura, di  voler sostituire al discorso filosofico, con il suo rigore, un esercizio  letterario che prende definitivamente congedo dal problema del  senso e della verità. Niente di tutto ciò.  

«C’è un atteggiamento – scrive Derrida – che consiste nel dire: accettiamo che i filosofi si emancipino dallo scrupolo della verità, cedano  alla letteratura, trattino la filosofia come letteratura: non li reprimeremo, non li denunceremo, non li prenderemo in giro come fanno  molti filosofi accademici, anzi li tollereremo … Questo gesto, in apparenza liberale e di apertura, è di fatto repressivo, nella misura in cui  vuole privare chi complica il problema della filosofia e dei rapporti  tra filosofia e letteratura, di ogni pretesa di trattare della verità [13]».

Derrida non ha fatto altro, da questa angolatura, che «complicare»  il problema della filosofia e dei suoi rapporti con la letteratura –  questo è ciò che si è chiamato «decostruzione», e anche «decostruzione della filosofia» –, ma non ha mai inteso rinunciare alla filosofia in nome di una «post-filosofia», né dedicarsi alla letteratura,  come se in entrambi i casi, per di più, si trattasse di lasciarsi alle  spalle la questione della verità: «La decostruzione della filosofia  non rinuncia alla verità, non più, del resto, di quanto ci rinunci la  letteratura. Si tratta di pensare un altro rapporto con la verità». 

Ciò che Derrida certamente ha inteso fare è mettere in questione la  filosofia come movimento di appropriazione, riappropriazione o  addomesticazione del senso e della verità. E lo ha fatto anche cercando in maniera sistematica il letterario nella filosofia, vale a dire  focalizzando e mettendo in movimento ciò che nel testo filosofico  testimonia l’impossibilità di una riappropriazione, una resistenza  all’interpretazione univoca, senza che questo volesse dire rinunciare alla verità. La sua pratica di lettura dei testi filosofici si è, in un  certo senso, votata a far esplodere l’equivocità in essi all’opera, a evidenziare la persistenza di un residuo idiomatico, allergico alla  identificazione e alla traduzione risolvente, a rimarcare l’indecidibilità del senso, l’irriconoscibilità di un senso «proprio». La sua pratica testuale, che vuole essere filosofica senza lasciarsi semplicemente opporre alla letteratura, si è spesa alla ricerca di una «scrittura»  capace di eludere il più possibile l’appropriazione.  

Tutti i testi di Derrida sono costruiti per rendere «impossibile» il  compito del traduttore, per promuovere e incrementare l’equivoco,  l’incomprensione, per favorire la disseminazione del senso o la  compossibilità di più sensi (come possono testimoniare tutti coloro che si sono cimentati nell’impresa), contengono insomma una irrefrenabile spinta a moltiplicare le «sfide alle traduzioni [16]». Lo documentano il gusto e la preferenza per le frasi idiomatiche, che  spesso costringono il traduttore a rinunciare alla traduzione e a ricorrere all’innesto, con ulteriori effetti di proliferazione disseminante. I testi di Derrida sono concepiti, insomma, per sfuggire il  più possibile a una traduzione pacifica, sicura, per resistere a una  interpretazione «adeguata», a una comprensione che si pretenda  totalizzante, per mostrare che non vi è mai restituzione del senso,  che i conti non tornano mai, che ogni tentativo di risoluzione non fa che rilanciare esponenzialmente il debito.  

Il titolo stesso del saggio su Benjamin – al quale ci riferiremo  più avanti e in cui Derrida si dedica in maniera tematica ed esplicita  alla questione della traduzione –, Des tours de Babel, è un sintagma  «intraducibile». Le parole in successione: «des tours» si possono tradurre tanto con «dei giri» (intorno alla Torre) quanto con «delle  torri» (di Babele), per non citare gli altri sensi possibili: «delle performances», «dei ritorni». Inoltre, nella pronuncia (détours) si aggiunge  il significato di «deviazioni» o, in senso figurato, di «sotterfugi».  Tutte interpretazioni legittime. Una vera trappola per traduttori,  dunque, a significare che prima della babelica confusione tra le lingue, vi è una pre-babelica confusione nelle lingue, in ogni singola  lingua: a cominciare dalla confusione tra nome proprio e nome comune che affetta la parola «Babele», poiché essa, oltre ad essere un nome proprio, vuol dire anche, al tempo stesso, «confusione».

Quelli che chiamiamo i testi di Derrida intendono dunque rimarcare, in tutti i modi, che il compito del traduttore è impossibile. Ciò, ed è questo che si tratterà di comprendere, non per inibire la traduzione, ma, al contrario, per affermarne la improrogabile, urgente, insaziabile necessità: la traduzione è necessaria proprio in quanto è impossibile. Un testo è «traducibile perché intraducibile, proprio in quanto è intraducibile (perché mai si tradurrebbe altrimenti?)[18]». Non si tratta di una provocazione (o forse sì, è anche una provocazione), quanto piuttosto di una resa di fronte a una irrecusabile evidenza: la traduzione è «impossibile e necessaria».

Possiamo dire, in maniera solo di poco più urbana: la traduzione è possibile, anzi necessaria, proprio perché la traduzione assoluta è impossibile. Questa impossibilità è allora una chance, una risorsa, non una condanna o una semplice negazione. Essa è la condizione di possibilità stessa della traduzione, ciò che mantiene aperto il desiderio, la domanda, l’urgenza, la necessità, la possibilità della traduzione. L’impossibilità della traduzione (vera, propria, definitiva, universale) è la possibilità della traduzione, di questa traduzione determinata, e dell’esperienza del traduttore. «Questa impossibilità non è quindi il semplice contrario del possibile. Essa si oppone, ma altrettanto si consacra alla possibilità [20]»

Traducibile-intraducibile

Ammettendo che ciò sia sufficiente a richiamare la strana logica che lega il possibile all’impossibile (che, come abbiamo visto, Derrida formalizza e mette alla prova a più livelli dell’esperienza), se ne può evincere il diverso e più profondo rapporto che occorre riconoscere fra traducibilità e intraducibilità. Rifiutandosi a quella semplificazione che vorrebbe suggerire al riguardo la scelta, l’esclusione, l’aut-aut, bisogna dire, nella prospettiva appena delineata, che vi è traduzione solo là dove e finché vi è intraducibilità. Traducibilità e intraducibilità non sono dunque semplicemente opposte, non si lasciano neutralizzare nello schema di una pura esteriorità, separare da un «limite opposizionale assoluto». Contrariamente a quanto si sarebbe tentati di affermare, bisogna dire che si può (si deve, è necessario) tradurre, ovverosia che vi è sempre ancora da-tradurre, soltanto perché la traduzione è impossibile, perché vi è intraducibilità. Quest’ultima non è allora ciò che vieta la traduzione, bensì ciò che la comanda, la esige. L’impossibilità della traduzione richiede la traduzione stessa che interdice, ad un tempo la prescrive e la limita, impedendone la consumazione totale, totalizzante, mantenendola  quindi aperta al suo a-venire: non si può smettere di tradurre. Se vi  è (ancora) da tradurre, dunque, è perché la traduzione è impossibile, o meglio, l’impossibile, un’altra figura dell’impossibile. Poiché la  traduzione non può darsi una volta per sempre e una volta per tutte, essa necessita di essere praticata senza sosta: l’intraducibile, l’intraducibilità, è l’avvenire e la risorsa di ogni traduzione. 

Prestiamo ora attenzione alla seguente affermazione di Derrida,  che si trova in Sopra-vivere: «Un testo vive solo se sopra-vive, e sopra-vive solo a patto di essere ad un tempo traducibile e intraducibile  (sempre ad un tempo, e: “ama”, nello “stesso” tempo). Totalmente  traducibile, sparisce come testo, come scrittura, come corpo della  lingua. Totalmente intraducibile, anche all’interno di ciò che si crede essere una lingua, muore subito dopo [21]».

È una frase importante, anzi decisiva, sulla quale vale la pena fermarsi. Rimarchiamone  la logica. Un testo è un testo, sopra-vive e funziona come tale, solo  se è traducibile e intraducibile al tempo stesso: totalmente traducibile, totalmente intraducibile. Dopo aver richiamato la singolare logica dell’et-et o del nec-nec, in cui si replica la legge del double  bind, dobbiamo «vedere» la cosa.  

Da una parte, se una «lingua», un «testo» fossero totalmente traducibili, essi sparirebbero come lingua, come testo. Che vuol dire? Che si cancellerebbe – svanirebbe, si renderebbe inutile, si relativizzerebbe fino ad annullarsi – il loro corpo. Vi sarebbe cioè una totale separazione, autonomizzazione del senso dal corpo, a vantaggio del senso, che brillerebbe nella sua presunta purezza, e a discapito del corpo, che precipiterebbe nella totale insignificanza. Si darebbe una presenza del senso perfettamente autonoma e trasparente, che non avrebbe alcun bisogno del gesto, della lingua o del testo, che si produrrebbe al di qua o al di là di ogni incarnazione. Questo, come abbiamo visto, sarebbe il sogno più o meno inconfessato della filosofia, quello della trasparenza e dell’univocità assolute. Ma ciò, a ben vedere, non sarebbe che un altro nome dell’inesistenza del senso, giacché, per quanto il corpo possa essere minimizzato, relativizzato o anche ignorato, magari appellandosi al dialogo muto dell’anima con se stessa, non esiste un senso puro, senza corpo, che possa porsi da sé, facendo a meno dello spessore carnale di un segno, di un gesto o di un movimento corporeo: esso  non sarebbe nulla, non esisterebbe come senso. Anche il silenzioso pensiero interiore è brulicante di parole, diceva Merleau-Ponty. E  in questa direzione giustamente aggiungeva che «il linguaggio fa esistere il senso e non si limita a comunicarlo [22]». Optare per l’assoluta traducibilità equivarrebbe dunque ad affermare, contro ogni  evidenza, che il senso può esistere senza incarnarsi, che si può  pensare senza segni, consegnando così la lingua e il testo all’assoluta «insignificanza» del mero strumento, che può essere usato all’occorrenza (quando vi sia bisogno di comunicare). Al contrario,  la resistenza alla sua traduzione senza resto è l’indice della capacità  di significazione di una lingua, del suo essere-lingua.  Non è inutile ricordare, ancora una volta, che la prima opera di  Derrida, Introduzione a L’origine della geometria di Husserl, è precisamente dedicata al rapporto necessario, costitutivo, tra il senso e la  sua incarnazione: il senso e la sua comprensione passano cioè  sempre attraverso lo spessore di una carne, ne dipendono. Non vi  è semplice precedenza del senso in rapporto al linguaggio e alla  scrittura, costituzione preventiva di una verità al di qua della sua  incarnazione. La vita del significato esige un’iscrizione: un senso  disincarnato, senza segni, assolutamente anteriore a ogni incorporazione, a ogni gesto, scrittura, supporto, è in verità semplicemente  nulla.  

«Il senso deve attendere di essere detto o scritto per abitare se stesso e  diventare quello che è differendo da sé: il senso. È quello che Husserl ci insegna a pensare ne L’origine della geometria. In un frammento del libro che progettava di dedicare a L’origine della verità, Merleau Ponty scriveva: "La comunicazione in letteratura non è semplicemente un appello dello scrittore a significazioni che farebbero parte di un  a priori dello spirito umano: al contrario, essa ve le suscita con la sua  foga o con una specie di azione obliqua. Nello scrittore il pensiero  non guida il linguaggio dal di fuori: lo scrittore è esso stesso come un  nuovo idioma che si va costruendo" [23]».

È il motivo per cui Derrida esprime le sue riserve sulla pur «bella trascrizione» (come egli la definisce) de L’origine della geometria realizzata da Fink, poiché essa tenderebbe a farci pensare che «l’oggettualità ideale è pienamente costituita come tale prima e indipendentemente dalla sua incorporabilità [24]», mentre è proprio lo sconvolgimento di quest’ordine genetico che Husserl ci inviterebbe a pensare attraverso le sue analisi sulla costituzione dell’oggettività ideale. «Husserl vi insiste: finché non può essere detta e scritta, la verità non è pienamente oggettiva, vale a dire ideale, intelligibile per chiunque e indefinitamente persistente. Poiché questa persistenza è il  suo senso stesso, le condizioni della sua sopravvivenza sono implicate in quelle della sua vita [25]».

È ciò che continuamente ci insegna  la letteratura, come si è accennato: la necessità di passare attraverso la lingua, o meglio, l’aderenza del pensiero alla lingua. Questo spiega tutto il profondo desiderio di letteratura che traspare dall’opera di Derrida. Come egli afferma nel corso di un’intervista, non si  tratta del desiderio «per quella istituzione che si chiama letteratura  o cultura letteraria»; ciò che, piuttosto, nella letteratura non ha mai  smesso di esercitare su di lui un’attrattiva «è veramente l’esperienza  del pensiero nella lingua. Da questo punto di vista – afferma Derrida –  mi sono trovato precipitato verso un certo tipo di testi e di autori:  Mallarmé, Blanchot, Genet o Artaud, per i quali, e in modo storicamente marcato, spiccato, questo corpo a corpo con la lingua dà  molto da leggere e da pensare [26]»

Dall’altra parte, come si è richiamato, un testo totalmente intraducibile cesserebbe di essere un testo. L’intraducibile puro, assoluto, non apparterebbe nemmeno più all’ordine del gesto, della lingua, del testo. Che cosa sarebbe, infatti, un testo che si sottraesse assolutamente alla traduzione? Per ragioni esattamente opposte e  complementari a quelle appena dette, esso sarebbe di nuovo un che di totalmente insignificante, nel senso ora di indecifrabile, illeggibile, incomprensibile, già nello stesso contesto di parlanti in  cui sorge. Proviamo a spiegarci. Comprendere un testo, una lingua, una parola, un segno linguistico, equivale a intendere il rimando al  significato che lo caratterizza. Un tale intendimento, tuttavia, non  può essere puramente privato, singolare, autarchico, occorre che sia condiviso: non c’è lingua «propria», nessuno può avere «la propria lingua». Affinché vi sia una lingua, infatti, bisogna che ogni segno sia di principio esposto alla comprensione intersoggettiva, che  vi sia un minimo di universalizzazione del suo senso. In sintesi: un  segno linguistico è tale – diversamente da un segno privato, come  il nodo al fazzoletto, per esempio – in quanto rimanda a un significato «identico» per tutti i differenti individui di una comunità ed è di principio ripetibile da tutti nella sua capacità di rinviare a quel  significato [27]. Un segno che non veicolasse un significato intersoggettivamente riconoscibile e comunicabile, che non fosse potenzialmente comprensibile da tutti i partecipanti a una determinata  comunità linguistica e ripetibile nella sua forma e nel suo valore,  che non «cedesse» perciò un senso trasferibile, scambiabile, non  sarebbe un segno linguistico. Ora, proprio in quanto implica strutturalmente l’iterabilità e il riconoscimento intersoggettivo del suo  senso, la sua stessa istituzione comporta necessariamente una certa  – relativa, ma irriducibile – autonomizzazione del senso, quindi la  possibilità del trasporto, del trasferimento di quest’ultimo. Ne consegue che la possibilità della «traduzione» appartiene alla costituzione del segno linguistico e della lingua.  

Dunque, una lingua puramente idiomatica, assolutamente intraducibile, non sarebbe una lingua: l’idiomaticità pura coinciderebbe  con la neutralizzazione del funzionamento segnico, con la pura incomprensibilità del segno. In una lingua o in un testo totalmente  intraducibili si produrrebbe la situazione esattamente speculare a  quella detta sopra: la totale aderenza del senso al corpo. Ma la fusione, l’assoluta indistinzione del corpo e del senso, equivarrebbe  alla morte stessa della lingua, del testo, che cesserebbe di essere tale. Una lingua intraducibile – vale a dire una lingua in cui il senso e  il segno non si distinguessero più, in cui non vi fosse più trasferibilità del senso, una lingua perfettamente idiomatica – sparirebbe  come lingua, sarebbe una Sfinge, e ciò per delle ragioni interne al  funzionamento stesso del segno e del linguaggio, come abbiamo  cercato rapidamente di mostrare.  

Vi è dunque lingua, testo, solo là dove vi è una certa separabilità  del senso e del corpo, come altro lato del loro intreccio o della loro originaria coincidenza (l’insorgenza del linguaggio andrebbe pensata, anzi, come l’evento stesso della loro differenza e coincidenza).

Perché si diano parole, linguaggio, testo, occorre che si diano ad un tempo separabilità e inseparabilità del significato e del segno, e bisogna che l’una e l’altra non siano assolute. È questo che rende  un linguaggio traducibile per essenza (al tempo stesso traducibile intraducibile, come si è detto), al di là di ogni ovvia differenza tra  un discorso e l’altro, tra un testo e l’altro, tra la filosofia e la letteratura, tra la prosa e la poesia ecc. Un testo assolutamente intraducibile sarebbe assolutamente «insignificante», non sarebbe affatto un testo. Nel momento in cui appare una lingua, è essenzialmente aperta la possibilità della traduzione, del trasferimento, del transfert.  È per questo che, cambiando di piano, al di là di ogni giusta considerazione sull’originalità e sull’intraducibilità delle diverse lingue e  culture, vi è già da sempre incontro e scambio tra esse, tra individui ad esse appartenenti, poiché ogni lingua, ogni cultura, è per  principio esposta alla possibilità della traduzione. Anche quando  parliamo di intraducibilità, non possiamo farlo che sullo sfondo di una traduzione già da sempre avvenuta e sempre possibile, in corso e sempre ancora da compiere.  

Possiamo leggere ora la seguente affermazione di Derrida, ne Il  monolinguismo dell’altro, cogliendone la valenza stratificata: «Niente è intraducibile in un certo senso, ma in un altro senso tutto è intraducibile, la traduzione è un altro nome dell’impossibile. In un altro senso della parola "traduzione", certo, e da un senso all’altro mi è facile rimanere sempre fermo tra queste due iperboli che sono in fondo la stessa e si traducono ancora l’un l’altra [28]»

L’originale e la traduzione

Abbiamo cercato fin qui di delineare i due sensi della parola «traduzione», di muoverci tra le due «iperboli» del «niente è intraducibile» e del «tutto è intraducibile». Addentriamoci ora in alcuni passaggi di Des tours de Babel, dedicati all’esperienza della traduzione.  

Nel rapporto tra il senso e la lettera risiede per Benjamin il motivo che impegna a tenere sempre rigorosamente separato un originale dalla sua traduzione. Nell’originale vi sarebbe un «nocciolo  essenziale», qualcosa di intangibile, di intraducibile, che «è ciò che affascina e orienta il lavoro del traduttore [29]: esso è relativo al rap porto tra il fondo e la forma, il senso e la lettera. Per illustrarlo Benjamin ricorre all’immagine del frutto e della scorza.  

«Questo nocciolo essenziale si potrebbe definire come ciò che – in  una traduzione – non è a sua volta traducibile. Si tolga cioè, da una  traduzione, tutto ciò che in essa è comunicazione, e lo si traduca, e  resterà tuttavia, intatto e intangibile, ciò a cui mirava il lavoro del vero traduttore. E ciò non si lascia trasferire a sua volta come il verbo  poetico dell’originale, poiché il rapporto del contenuto alla lingua è  affatto diverso nell’originale e nella traduzione. Se essi formano nel  primo una certa unità come il frutto e la scorza, la lingua della traduzione avvolge il suo contenuto come un mantello regale in ampie  pieghe [30].

Il nocciolo, che resiste alla traduzione e che al tempo stesso la suscita e la orienta, è un certo rapporto tra il contenuto e la lingua,  che è assai differente nel testo originale e nella traduzione. Nel  primo, l’unità tra di essi è tanto profonda, stretta, serrata, quanto  quella tra il frutto e la sua buccia. Nella seconda, l’unità tra il contenuto e la lingua è come il rapporto che si realizza tra il manto regale e la persona del re. Si tratta perciò di una relazione non «naturale», ma «artificiale», più estrinseca, che rimanda a quella naturale  propria dell’originale. È per questo che non vi può essere, secondo  Benjamin, traduzione della traduzione, e ogni traduzione deve  sempre procedere dall’originale. Questa differenza tra il naturale e  il tecnico, tra l’aderenza della buccia al frutto e quella del mantello  al corpo, stabilisce e sorveglia la frontiera tra un originale e la sua traduzione, che egli intende a tutti i costi salvaguardare. In Benjamin tutto ciò, osserva Derrida, «non è senza rapporto con la verità».

Questo sistema di distinzioni ha a che fare con una verità che non sarebbe più da intendere come corrispondenza rappresentativa tra l’originale e la traduzione, né come adeguazione tra l’originale e qualche oggetto o significato fuori di esso. La verità sarebbe qui, piuttosto, per Benjamin, «il linguaggio puro nel quale il  senso e la lettera non si dissociano più», l’utopia o il sogno messianico di una «vera lingua» o di una «lingua vera». Ma, continua significativamente Derrida, seguendo il filo di questo discorso, «se un tale luogo, l’aver-luogo di un tale evento, restasse introvabile, non  si potrebbe più, fosse anche di diritto, distinguere tra un originale e  una traduzione [32]»

Le strade di Benjamin e Derrida divaricano. Per il primo si  tratta di mantenere tale distinzione, assicurando così un fondamento alla possibilità di un diritto delle opere e di un diritto d’autore.  Per il secondo, invece, si tratta di mostrare – in linea con la prospettiva filosofica che ci è ben nota – l’impossibilità «di una frontiera rigorosa tra l’originale e la versione», ossia l’impossibilità «della identità a sé o dell’integrità dell’originale». Il contenuto e la lingua (il fondo e la forma, il frutto e la buccia), infatti, non possono  essere assolutamente inseparabili, «si deve poterli distinguere di diritto» – per le ragioni che abbiamo visto –: ove non vi fosse questa separabilità (questa relativa inaderenza) non vi sarebbe nemmeno linguaggio né dunque si porrebbe la questione di un originale e  della sua traduzione. Ma se il linguaggio «puro», la «vera lingua» o  la «lingua vera», quella in cui il senso e la lettera non si dissociano  più, non ha luogo, allora – ecco la conseguenza annunciata – non  si può più tracciare alcun confine rigoroso tra l’originale e la traduzione.  

Non che non si possa o non si debba continuare a parlare di  una traduzione come qualcosa di diverso dall’originale, ma bisogna  mettere in linea di conto che questa distinzione ha una tenuta relativa e che a un certo livello essa non è più pertinente: in quanto è  un testo, un discorso che si produce in un linguaggio, che non può  essere unico e non può essere puro, altrimenti non sarebbe nemmeno un linguaggio, l’originale è già esso stesso una traduzione, è  cioè preso nel gioco della lingua, nella catena dei debiti e delle sostituzioni, dei trasferimenti e delle eredità, nella dipendenza da un  movimento di significazione che lo supera da ogni parte. Il testo  che noi chiamiamo originale è già sempre e costitutivamente una  traduzione di altri testi, un crocevia di importazioni e di prestiti, di  memoria e di valori virtuali, e il «creatore dell’originale» è egli stesso fin dall’inizio «indebitato, tassato, obbligato da un altro testo, a  priori traduttore [34]». Questa è la situazione di ogni testo, di ogni discorso che si tiene in una lingua, prima ancora che si ponga il problema della sua traduzione in una lingua straniera, altra, ammesso che si possa con sicurezza delimitare ciò che è proprio di una lingua e che la renderebbe una. Il presunto originale è sempre una traduzione di traduzioni e l’autore di esso è strutturalmente un traduttore. Non solo, quindi, un testo è per essenza traducibile (il che, abbiamo visto, non significa mai totalmente traducibile), ma è già esso stesso «traduzione», anche quando si propone a giusto titolo come «originale».

Sopra-vivere

Di più. Non solo l’originale è già traduzione, come dicevamo, ma –  ulteriore passaggio – esige la traduzione (ciò vale sempre, anche  quando ci troviamo all’interno di una stessa lingua). Tale domanda  o richiesta non è occasionale: essa «viene dalla legge interiore  dell’originale [35]», appartiene alla sua struttura. L’originale reclama la  traduzione come la vita desidera la sopravvivenza. «Un testo vive  solo se sopra-vive», diceva Derrida, e la traduzione ha a che fare  con questa sopravvivenza, è precisamente la dimensione sopravvivente di un testo. Anche qui si tratta di intendere la portata della  questione. Un testo può restare vivo solo «in traduzione [36]», nella traduzione che richiede e che suscita fin dal suo sorgere: senza di essa  letteralmente morirebbe. Non si tratta qui esclusivamente della  traduzione di un originale in un’altra lingua, ma della strutturale domanda di un testo di essere letto, decifrato, compreso e perciò  essenzialmente tradotto, pena il diventare lettera morta. L’originale  è dunque «il primo debitore» (in quanto già in posizione di traduzione, di indebitamento, rispetto ad altri testi) ed è il «primo questuante», in quanto comincia con il mendicare, sollecitare la traduzione, dipende interamente da essa per la sua sopravvivenza. Ma  dire che l’originale sopravvive solo in traduzione significa al tempo  stesso che esso «si dà modificandosi», che è sempre «in corso di trasformazione», «vive e sopravvive in mutazione», oppure non  vive affatto. Lo dice bene Benjamin: «Poiché nella sua sopravvivenza, che non potrebbe chiamarsi così se non fosse mutamento e  rinnovamento del vivente, l’originale si trasforma. C’è una maturità  postuma anche delle parole che si sono fissate»Nessun testo può rimanere fermo, immobile, anche quando resta perfettamente lo stesso: proprio in quanto è un testo e significa,  esso cresce e si trasforma, diviene incessantemente se stesso alterandosi, come un organismo, vale a dire è nel cammino inarrestabile della sua maturità e maturazione. Non vi è per esso altro modo  di conservarsi, di sopravvivere, che quello di affidarsi al transfert:  traduzione, tradizione, storia, vita, sopravvivenza. L’originale si dà solo in traduzione, anche quando permane identico nel contesto della lingua in cui è stato composto, anche quando non vi è quella  distanza temporale che rende necessaria una parafrasi (altro esempio di traduzione), giacché il suo senso può manifestarsi solo  nell’accadere attuale e continuo di una lettura, di un ascolto, di una comprensione: ma comprendere, interpretare è già tradurre, la lettura è traduzione («intralinguistica», per dirla con Jakobson [39]. Ripetiamolo in altri termini: l’originale non è una «cosa», ma un evento, che continuamente accade nella lettura, nella decifrazione, nell’interpretazione che reclama per sopravvivere, come i polmoni reclamano l’aria. Non accedere alla traduzione significherebbe, per un testo, morire: la traduzione rappresenta infatti la sua stessa sopravvivenza.  

Ma il medesimo discorso deve essere fatto sul piano di ciò che Jakobson chiama traduzione «interlinguistica»: la richiesta della traduzione nella lingua dell’altro appartiene alla struttura dell’originale. Riferendoci a Benjamin, il problema della «traducibilità» comporta due interrogativi: in primo luogo, «se l’opera troverà mai, nella totalità dei suoi lettori, un traduttore adeguato»; in secondo luogo, «se l’opera, nella sua essenza, consenta una traduzione, e quindi – in conformità al significato di questa forma – la esiga [40]». Se la risposta può essere nel primo caso problematica, poiché il traduttore adeguato potrebbe non comparire, nel secondo caso essa è apodittica, poiché viene dalla natura stessa dell’originale. «Quest’ultimo – sottolinea Derrida, facendo eco a Benjamin – esige la traduzione anche se non vi è nessun traduttore in grado di rispondere a questa ingiunzione, che è allo stesso tempo richiesta e desiderio nella struttura stessa dell’originale. Questa struttura è il rapporto della vita rispetto alla sopravivenza [41]»

Il poetico e il sacro

Derrida insiste più volte in Des tours de Babel sul fatto che il testo di Benjamin si svolga interamente in una prospettiva religioso-messianica e che il testo sacro rappresenti il modello stesso del traducibile. «Tutto il saggio – scrive – si dispiega tra il poetico e il sacro, per risalire dal primo al secondo, il quale indica l’ideale di ogni traduzione, il traducibile puro: la versione interlineare del testo sacro sarebbe il modello o l’ideale (Urbild) di ogni traduzione possibile in genere [42]». Il riferimento è qui, naturalmente, alla Bibbia. Derrida lavora, su questo punto, in particolare simbiosi con il testo di Benjamin. «Il sacro e l’esser-da-tradurre non si lasciano pensare uno senza l’altro. Essi si producono l’un l’altro al bordo del medesimo limite». La scrittura sacra, vale a dire, nell’ottica di Benjamin, la scrittura biblica, sarebbe il modello e il limite di ogni scrittura e, in ogni caso, di ogni Dichtung, di ogni scrittura poetica, nel suo essenziale esser-da-tradurre. «Il testo sacro segna il limite, il modello puro, anche se è inaccessibile, della traducibilità pura, l’ideale a partire dal quale si potrà pensare, valutare, misurare la traduzione essenziale, vale a dire poetica [44]»

Perché il testo sacro costituisce il modello della traducibilità pura? Come mai esso si annuncia come il da-tradurre per eccellenza?  La ragione è semplice: nel testo sacro (il riferimento benjaminiano  è sempre alla Bibbia) l’inseparabilità del senso e della lettera di cui  abbiamo parlato raggiunge il suo culmine e l’evento del senso si  confonde intimamente con l’atto di linguaggio. Ora, proprio questo testo (e, nella sua scia, il testo poetico) – in quanto è quello in  cui «il senso e la letteralità non si discernono più per formare il  corpo di un evento unico, insostituibile, intrasferibile» – si presenta come il traducibile per eccellenza, o meglio, il «traduttibile»,  come scrive Derrida modificando il termine (non, dunque, il «traducibile», nel senso di qualcosa che sarebbe sicuramente, ovviamente, traducibile, ma il «da-tradurre»). «Il testo sacro assegna il  suo compito al traduttore, ed è sacro in quanto esso si annuncia come traduttibile, semplicemente traduttibile, da-tradurre; il che non  vuol sempre dire immediatamente traducibile, nel senso comune  che fu scartato dall’inizio [46]». Il traduttibile infatti non si dà come  l’immediatamente traducibile, ma come l’intraducibile e perciò come il da-tradurre. Qui è il punto. Il testo sacro, in forza delle caratteristiche che lo identificano e lo rendono esemplare, si presenta  come il modello della traducibilità proprio perché, in quanto (è il  più) intraducibile, rende il bisogno e il compito della traduzione più imperiosiche mai. Esso è allora il «traduttibile» per eccellenza.  

Dove l’inseparabilità del senso e della lettera tocca il suo vertice, la traduzione non è impedita, ma, al contrario, è massimamente richiesta, con urgenza. Il testo sacro è esemplare anche in questo: nell’esigere la traduzione. Essa è reclamata da subito, anche al lettore della stessa lingua. E ciò non fa che portare a galla l’istanza di ogni testo, di ogni parola, di ogni gesto. Il testo sacro «comanda subito la traduzione che sembra rifiutare. Esso è traduttibile (übersetzbar) e intraducibile [47]». L’in- dell’intraducibile non va inteso perciò come un «non», ma come una im-possibilità che mantiene aperta la possibilità, come un’apertura insaziabile, insaturabile, che rende possibile la traduzione rendendola al tempo stesso impossibile,  cioè come una différance che al tempo stesso consente e limita ogni  traduzione. Se l’intraducibilità non significa intraducibilità assoluta,  allora essa è la condizione di (im)possibilità della traduzione. E il  testo sacro ne è il luogo esemplare. Esso ci dice che siamo «consegnati» alla traduzione: in ogni esperienza vi è transfert, differenza,  traduzione; la fine della traduzione, la saturazione di quella apertura, sarebbe la fine del senso e la fine della storia.  

Tutto ciò ci rimanda al racconto della Genesi, al gesto di Dio che decostruisce la torre, rompe la stirpe, disperde la filiazione genealogica e provoca la moltiplicazione delle lingue. «Questa storia racconta, tra altre cose, l’origine della confusione delle lingue, la molteplicità degli idiomi, il compito necessario e impossibile della traduzione, la sua necessità come impossibilità [48]».

Di fronte a tale molteplicità si delineano due posizioni. Da una parte l’ideale benjaminiano della traduzione come ricerca della «pura lingua». Ciò cui tenderebbe ogni autentica traduzione sarebbe la fine della molteplicità delle lingue e la loro integrazione «nella sola lingua vera»: il telos della traduzione sarebbe, in altri termini, per Benjamin, la «fine messianica» della storia delle lingue. Dall’altra, e all’opposto, vi è la via derridiana, cioè il delinearsi di quello che si può chiamare un «pensiero della traduzione [49], ovverosia il riconoscimento dell’operazione di traduzione, di trasferimento, di scambio, come originaria e insuperabile: ogni unità o identità (della parola, della lingua, del testo) si costituisce e si mostra sempre all’interno dell’incontro e del transfert. La traduzione si annuncerà allora come l’esperienza richiesta da una lingua essenzialmente impura,  da una molteplicità non dominabile, non padroneggiabile: proprio  l’impossibilità della «pura lingua», sia essa intesa come pre-babelica  o messianica, dà luogo alla (necessità della) traduzione, alla simultanea traducibilità e intraducibilità di ogni lingua e di ogni testo.  Tradurre è dunque in un certo senso fare esperienza della «lingua  pura», che non è però una lingua, questa o quella, la lingua della riconciliazione che riassume tutte le altre, ma il movimento della différance, del supplemento, del transfert, a cui partecipano tutte le lingue e in cui consiste la loro profonda affinità. Di questo movimento si può fare esperienza solo operativamente, traducendo, e non  ostensivamente. Tradurre, accettare il compito del traduttore, di  una traduzione necessaria e impossibile, sarà allora rendere omaggio a quell’intraducibile movimento d’insorgenza del senso che sta  al cuore di ogni traduzione, aderire a quella différance che ex appropria l’identità di ogni testo, di ogni parola, di ogni gesto, e  correlativamente di ogni senso. Tradurre è un altro modo di dire  «sì» alla différance, alla condizione di (im)possibilità della vita. Perciò  Derrida afferma: «L’esperienza è traduzione [50]»

La traduzione, allora, come la decostruzione, prima di essere un’operazione o una pratica determinata, specifica, identificabile, è «ciò che avviene», lo si sappia o no, giacché ciò che avviene è sempre attraversato, de-istituito (cioè istituito e ad un tempo destituito nella sua presunta autonomia) da un movimento di differimento e di differenziazione, di scambio, di sostituzione, di trasferimento, che non può essere arrestato in nessun punto (è quello che Derrida ha cercato di mostrare in tutta la sua opera).

La differenza, il transfert, il passaggio, la traduzione (da un testo all’altro, da una parola all’altra, da un gesto all’altro, da un campo all’altro) non sono preceduti dalla presenza a sé di qualcosa (un testo, una lingua, una mimica) che sarebbe già se stesso. Vale a dire, la traduzione non si annuncia come un’operazione seconda, che si aggiunge eventualmente, accidentalmente, alla storia di una lingua, di un testo, poiché ogni lingua e ogni testo non sono caduti dal cielo già fatti, sono essi stessi in posizione di traduzione e di risposta, vale a dire originariamente indebitati e anticipati da altro, dall’altro (vi è qui anche uno spunto per una possibile genealogia del linguaggio, che interpreti il passaggio dal pre-linguistico al linguistico come traduzione, come per esempio fa Merleau-Ponty [51]. Già all’interno di ogni lingua e di ogni testo la traduzione, il trasferimento, lo scambio sono necessariamente all’opera: come farebbero altrimenti una lingua, un testo a significare? Non vi è insomma che transfert, traduzione, metaforizzazione, contaminazione, debito e rapporto all’altro: il rapporto all’altro è (al)l’origine«L’altro è in me prima di me: l’ego (anche collettivo) implica l’alterità come propria condizione [52]». Siamo di nuovo ricondotti a un punto familiare: tradurre, come decostruire, contrariamente alle apparenze, è – nel senso in cui ne abbiamo parlato sin qui – aprirsi all’altro, lasciarlo venire, esporsi alla sua venuta, si tratti di un testo o di un arrivante.

Carmine Di Martino è un filosofo e accademico italiano. Allievo di Carlo Sini,  insegna all'come professore ordinario e detiene la cattedra di Filosofia morale. Si occupa di numerose tematiche relative perlopiù all'antropologia filosofica e affrontate con gli strumenti metodologici della fenomenologia.

NOTE

  1. Per un puntuale e documentato approfondimento della decisività e delle implicazioni filosofiche del problema della traduzione, innanzitutto nel pensiero di Heidegger e, in connessione a questo, nel pensiero di Derrida, rimandiamo a C. Resta, La misura della differenza, Guerini e Associati, Milano 1988, capitolo quarto, «Necessità della traduzione», pp. 111-195.
  2. J. Derrida, Introduction à L’Origine de la Géométrie de Husserl, PUF, Paris 1962; tr. it. di C. Di Martino, Introduzione a L’origine della geometria di Husserl, Jaca Book, Milano 1987.
  3. Ibid., p. 156. 
  4. Ibid., p. 158. Il senso di questi passaggi, in rapporto al problema della traduzione così come viene affrontato nell’insieme della produzione derridiana, è opportunamente colto in G. Piana, Le scene della scrittura nell’opera di Jacques Derrida, Mimesis, Milano 2001, pp. 95-106.
  5. Ibid., p. 158. 
  6. Ibid., p. 160. 
  7. Ibid., p. 159. 
  8. Ibidem
  9. Ibid., p. 161.
  10. J. Derrida, L’oreille de l’autre. Textes et débats, C. Lévesque, C. McDonald (a cura di), VLB, Montréal 1982, p. 159.
  11. J. Derrida, M. Ferraris, Il gusto del segreto, cit., p. 11.
  12. Ibid., p. 12. 
  13. Ibid., pp. 10-11.
  14. Ibid., p. 11. Scrive Derrida: «Alla luce di quanto appena detto, esiterei, per esempio, a parlare di post-filosofia; l’espressione, comunque, mi sembra pericolosa: non c’è un semplice “dopo” la filosofia, così come non c’è una contemporaneità, e non c’è nemmeno un semplice passaggio a un discorso non filosofico che lascerebbe la filosofia dietro di sé» (p. 11).
  15. Ibidem. Per uno sviluppo del tema della verità ci permettiamo di rimandare alle pagine conclusive di C. Di Martino, Oltre il segno. Derrida e l’esperienza dell’impossibile, cit., pp. 220-222.
  16.  J. Derrida, Le monolinguisme de l’autre, Galilée, Paris 1996, tr. it. di G. Berto,  Il monolinguismo dell’altro, Raffaello Cortina, Milano 2004, p. 76. Come fa notare  Graziella Berto nella sua introduzione alla traduzione italiana, «se proviamo a  tradurre un testo di Derrida non sembra difficile dare un valore a tale impossibilità: a ogni passo incontriamo un elemento che resiste alla traduzione, che non si  lascia trasporre in un’altra lingua senza l’impressione che qualcosa – o, alle volte,  tutto – vada perduto, che sia impossibile, appunto, rendere un senso che risuona nelle parole, al di là del loro significato corrente. Ci imbattiamo continuamente in quelle “sfide alle traduzioni” che Derrida chiama schibboleth: parole idiomatiche, intraducibili» (G. Berto, Il disagio della traduzione, p. X).
  17. Afferma in proposito Derrida, con una considerazione autobiografica che ci aiuta a cogliere il senso di ciò che stiamo discutendo: «Il mio “primario” desiderio non mi portava certamente verso la filosofia, piuttosto verso la letteratura, anzi verso qualcosa che la letteratura accoglie meglio della filosofia. Mi sento impegnato, da vent’anni a questa parte, in una lunga deviazione per raggiungere questa cosa, questa scrittura idiomatica di cui io so che la purezza è inaccessibile, ma che continuo a sognare» (J. Derrida, Points de suspension, Galilée, Paris 1992, p. 127; corsivo nostro).
  18. J. Derrida, Il monolinguismo dell’altro, cit., p. 75. 
  19. J. Derrida, La carte postale, Flammarion, Paris 1980, p. 179. 
  20. J. Derrida, La scommessa, una prefazione, forse una trappola, cit., p. 14.
  21. J. Derrida, Sopra-vivere, tr. it. di G. Cacciavillani, Feltrinelli, Milano 1982, pp. 43-44.
  22. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945, tr. it. di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1972, p. 253.
  23. J. Derrida, La scrittura e la differenza, cit., p. 14.
  24. J. Derrida, Introduzione a L’origine della geometria, cit., p. 144. 
  25. Ibidem
  26. J. Derrida, Colloquio con Jacques Derrida, cit., p. 192. 
  27. Abbiamo affrontato analiticamente altrove i problemi cui stiamo alluden do. Ci permettiamo dunque di rimandare a C. Di Martino, Segno, gesto, parola, cit., capitolo terzo.
  28. J. Derrida, Il monolinguismo dell’altro, cit., p. 74.
  29. J. Derrida, Des tours de Babel, in Psyché. Invention de l’autre, cit., tr. it. di A. Zinna, in S. Nergaard (a cura di), Teorie contemporanee della traduzione, Bompiani, Milano 2002, p. 401. Faremo qui riferimento, per comodità del lettore, a questa traduzione.
  30. W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus novus. Saggi e frammenti, tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1982, pp. 45-46.
  31. J. Derrida, Des tours de Babel, cit., p. 407.
  32. Ibidem
  33. Ibid., p. 403.
  34. Ibid., p. 411. 
  35. Ibid., p. 389. 
  36. Ibid., p. 391.
  37. Ibid., p. 390. 
  38. W. Benjamin, Il compito del traduttore, cit., p. 43. 
  39. Derrida prende in questa sede le distanze dalla tripartizione proposta da Roman Jakobson nel saggio On translation (Harvard University Press, Cambri dge-Massachusetts 1959): a) traduzione intralinguistica, che interpreta dei segni linguistici per mezzo di altri segni linguistici della stessa lingua; b) traduzione inter linguistica, che interpreta dei segni linguistici per mezzo di un’altra lingua; c) traduzione intersemiotica, che interpreta dei segni linguistici per mezzo di segni non linguistici. Questa tripartizione, osserva Derrida, suppone «evidentemente che si sappia in ultima analisi come determinare rigorosamente l’unità e l’identità di una lingua, la forma decidibile dei suoi limiti», che si sappia «che cosa sia una lingua, il rapporto da una lingua all’altra e soprattutto che si conosca l’identità o la differenza in fatto di lingue» (J. Derrida, Des tours de Babel, cit., pp. 377-378).
  40. W. Benjamin, Il compito del traduttore, cit., p. 40. 
  41. J. Derrida, Des tours de Babel, cit., p. 389. 
  42. Ibid., p. 387. 
  43. Ibid., p. 401.
  44. Ibid., p. 415. 
  45. Ibid., p. 416. 
  46. Ibidem
  47. Ibid., p. 418.
  48. Ibid., p. 375. 
  49. Abbiamo tratto l’espressione dall’interessante saggio di G. Chiurazzi, Mise ria e splendore della decostruzione. La traduzione, lo scambio, la moneta falsa, in AA.VV.,Su Jacques Derrida. Scrittura filosofica e pratica di decostruzione, cit., pp. 95-111. Nota Chiurazzi, in una direzione che ci pare feconda, anticipando il senso della sua lettura: «La tesi che vorrei sostenere è dunque che la decostruzione è un pensie ro della traduzione, e cioè dell’o-perazione di scambio, di sostituzione, di trasfe rimento di valori (linguistici, economici, culturali), che intreccia inestricabilmen te – come un tessuto di cui è difficile, se non impossibile, individuare i bordi – letteratura, filosofia, psicoanalisi ed economia […] Se a Derrida può essere rim proverato di non rispettare la specificità o i campi disciplinari […] è perché in realtà il suo intento è esattamente quello di mostrare l’impossibilità di questa compartimentazione, facendo del transfert l’operazione che presiede a ogni formazione di significato. Il significato è il prodotto di un transfert o, diremmo, della différance» (p. 96).
  50. J. Derrida, Des tours de Babel, cit., p. 416.
  51. Merleau-Ponty intende l’insorgenza del linguaggio come il passaggio da  una comunicazione preliminare e prelinguistica a una comunicazione linguistica,  da un logos endiathetos a un logos prophorikos, in un senso che assomiglia in qualche  modo a una traduzione, a un’operazione di trasferimento e di tesaurizzazione.  Ce ne siamo occupati in C. Di Martino, Segno, gesto, parola. Da Heidegger a Mead e  Merleau-Ponty, cit., capitolo secondo. 
  52. J. Derrida, M. Ferraris, Il gusto del segreto, cit., p. 101.

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