15 gennaio 2023

L’anno degli spettri

Alfonso Maria Di Nola*

I dodici giorni che vanno da Natale dall’Epifania racchiudono un tempo delicato e inquieto. È un tempo di rischio, come ci insegnano gli antropologi, un tempo critico dove ogni anno si ripete il ciclo di morte e rinascita. Siamo nei giorni solstiziali: il Sole, al termine del suo cammino annuale, tocca nel giorno del solstizio il punto più basso, per poi iniziare la sua ‘risalita’. Il 25 dicembre, tre giorni dopo il solstizio, era per i Romani il giorno del Solis invictis.

In questi dodici giorni liminali, tesi tra la morte già avvenuta dell’anno vecchio e la nascita non ancora avvenuta del nuovo anno, l’ordine si scompagina e si dissolve, e gli spiriti dei morti possono tornare sulla terra a visitare i vivi. Il caos prende il sopravvento, fino al grande volo notturno della Befana, vecchia misteriosa in cui si coglie il trasalire delle antiche dee portatrici di fertilità e calore prima della loro decadenza a streghe. Allora il ciclo si conclude e un nuovo ordine rinasce.

L’articolo che proponiamo, scritto dal grande antropologo napoletano Alfonso Maria di Nola e misteriosamente riemerso da un angolo dimenticato della mia biblioteca – peraltro dopo ricerche infruttuose periodicamente ripetute nel corso degli anni -, è un affascinante percorso nella trama di corrispondenze residuali e simboli arcaici che silenziosamente sottende le nostre vite. Sono sopravvivenze: a ben guardare, restituiscono vitalità a gesti che l’abitudine ha usurato.

Angela Peduto

L’anno degli spettri

Luis Ricardo Falero, Streghe al sabba, 1878

Tempi alti, funesti, inquietanti e, insieme, risolti nel calore domestico, i giorni fra il Natale e l’Epifania, che appartengono alle culture arcaiche d’Europa e che l’onda consumistica e secolarizzante tenta di cancellare dai nostri vissuti. E, tuttavia, essi non possono non rifluire nella memoria residua della nostra esperienza come presenze che appartengono inesorabilmente alla nostra storia, che da sempre, non da ora, è attraversata dalla mercificazione, una costante componente dell’umano agire e vivere che, proprio perché corrisponde anche a una crescita economica dell’uomo, non va mortificata dal piagnonismo dei mentori e dei tartufi.

La Befana, che è poi una traduzione popolare di Bifania, che sta per Epifania, resta il personaggio mitico in tratti di vecchia orrenda che trascorre in mezzo a noi dall’1 al 6 gennaio, in un’epoca di tensione che, nei paesi anglosassoni, sono le Dodici Notti. Ambigua figura volante sulla sua scopa nella notte gelida è, forse – lo dicono i Grimm – il calco benefico delle antiche signore della notte medievale, Perchta, Holda, Abundia, che si umanizza nella cultura mediterranea e che ripete l’antica leggenda del trascorrere dei morti. Un negativo fotografico della strega, che assumerà, nel tempo, le valenze di amica del demonio e di malefica, e che ha al centro delle cruente persecuzioni. Con la Befana torniamo a un’umanità prestregonica, strutturata, insieme, di male e di bene, di celati segreti medicinali, di oscure foreste dove la femmina, non ancora fatta megera, prepara incantamenti sottili e placanti medicinali e pratica le arti magistrali del donare e del punire.

Entra, questa Befana, nel gioco universale che le culture hanno creato intorno all’infanzia, come età nella quale domina il vichiano fantasticare, il paradiso del sogno che l’evoluzione adolescenziale frammenterà inesorabilmente, convocando la mente infantile al calcolo, al ragionamento, alla condotta etica responsabile e pagata in proprio nello svanire delle immagini dei primi anni.

Noi diciamo ‘befana’ e pensiamo subito a questa meridionale Daemonin del tempo di avvento, protraentesi fino al 6 gennaio, come al personaggio che sanziona gli atti degli infanti, il premiare e il punire, che precipita di notte dai camini accesi in Calabria e in Abruzzo.

In realtà ci incontriamo con un mito che ha un vasto respiro nel mondo e che, in termini di rigore scientifico, segna il passaggio dall’età del vivere miticamente all’età del misurare l’universo secondo le cadenze della ragione. In molte parti dei Mari del Sud, della Nuova Guinea e dell’Australia, nei paesi tradizionali, per quanto ne resta dopo l’etnocidio del quale siamo responsabili, i bambini sanno che nella foresta vive un mostro orrendo e cannibalico. L’iniziazione di puberi, tenui creature che ho visto, con partecipazione straziante, nei documenti etnologici, sta proprio nel rivelare ai bambini che la voce sconvolgente del dio forestale è soltanto il cupo rumore del rombo agitato circolarmente dai maschi adulti. Il cosmo della rêverie infantile crolla, tutto si ricompone come razionale e dominato, contro l’angoscia, e i bambini divengono responsabili all’interno del gruppo in funzione di una rivelazione dei sacra che, operando come demitizzazione, li fa ormai uomini destinati alla fatica e alla produzione. Così è la nostra Befana, quando l’infante apre i suoi occhi incantati e comprende che gli operatori di una magia trascinante sono genitori e parenti, e crolla da uno statuto nel quale veniva delegata a un’Alterità mitica la responsabilità di operare e agire, nel mondo degli adulti. Tale tecnica pedagogica è tanto intimamente radicata nelle culture che, nel rituale degli arunta (Australia), dopo che agli iniziandi vengono rivelati i segreti tribali, fino allora percepiti come immagine terrifica nascosta nella foresta e difesa dagli adulti, gli iniziandi stessi, ormai consapevoli dell’ingannevole gioco degli adulti, sono invitati a tacere ai prepuberi e alle donne quanto hanno visto, poiché ogni svelamento “farebbe crollare il mondo e le generazioni future”. Nel togliere l’alone di misteriosa attesa che circondava la Befana, si è, di conseguenza, tagliata fuori dalla storia una dialettica che appartiene alla psicologia evolutiva e che opera sull’integrazione del fanciullo nella collettività.

Intanto i giorni posti al termine dell’anno lunare e, in qualche modo, memorizzati anche nei calendari solari e lunisolari, costituirono nell’antichità giorni ‘vuoti’ e ‘nefasti’, proprio perché rappresentavano un tempo non dominabile e non calcolabile. Essi sono i cinque giorni di differenza fra l’anno lunare (di 360 giorni) e l’anno solare (di 365). Creano una situazione emergente di vuoto e di rischio cui appartengono rituali tuttora presenti e ben documentati nel mondo antico. Intesi come periodo di transito fra il tempo morto e il tempo nascente, anche estesi a un periodo più ampio di quello numericamente calcolato (5 giorni), divengono la fase periodica di una reversione nel caos e di ritorno all’ordine, di una morte celebrata, nelle sue ricorrenti immagini, come freudiano trionfo del Thanatos, e di una rinascita che inaugura e saluta l’inizio della fase ascendente del sole dopo il solstizio d’inverno.

Sulla base delle fonti documentarie sembra fondatamente provato, per ricorrere a un esempio dal quale dipendono, attraverso i millenni, molte immagini delle nostre attuali culture, che nel tardo periodo del regno babilonese in questi cinque giorni, che precedevano il vero e proprio Capodanno (Akitu), i sacerdoti celebravano una distruzione-ricreazione metaforica del mondo. Le statue degli dei erano coperte, ossia simbolicamente cancellate, e si entrava in un periodo di lutto, fino a quando il corpo sacerdotale leggeva ritmicamente il poema Enuma elish, “Quando il principio”, che riguardava la storia dell’origine del cosmo attraverso la parola. La recitazione aveva un’efficacia magica, ricostituiva il passaggio annuale del caos al cosmos, e l’ordine turbato e crollato veniva ricostituito nella sua sicurezza per l’anno futuro. La quale dinamica di distruzione-ricostruzione, comportante anche la cancellazione di quanto di nefasto e negativo appartiene all’anno trascorso, residua nelle nostre culture popolari. Se assumiamo ad esempio il comportamento dell’etnia subalterna più disposta ad esprimersi teatralmente e parossisticamente, quella campana, i cerimoniali popolari che comportano, alla mezzanotte di fine d’anno, il violento lanciare, dalle finestre e dai bassi, oggetti vecchi e l’orgia degli spari ripetono, in un mondo attuale decisamente desacralizzato, la trasposizione rituale subalterna delle medesime preoccupazioni sottostanti al rigido testo babilonese: mandare via il male, distruggendo simbolicamente il mondo, espellere, con il frastuono dei fuochi d’artifizio, i demoni residui dell’anno precedente, ed aprire l’anno nuovo che, nello specifico caso napoletano, porta alcune volte la consumazione mattutina di uova e salsicce, di evidente significanza fallica.

In sostanza questa vuotezza del tempo, nell’attesa del passaggio dal vecchio al nuovo, protraentesi, come abbiamo ricordato, ben oltre le date calendariali di principio e fine d’anno, si cala in un gioco immemoriale di eros e thanatos, di piacere del distruggere e di compiacimento libidico, che Lanternari, in un suo celebre libro, ha segnalato all’interno delle culture cosiddette primitive o arcaiche e che trascorre, tuttavia, nei sotterranei della cultura tecnologica e nei residui di civiltà contadine europee. In Molise, in Calabria, in Abruzzo, è il tempo del ritorno delle schiere dei trapassati, che, come nel mito romano del lapis manalis del foro, emergono dal sottosuolo per visitare i superstiti nei loro paesi e nelle loro città. Escono, queste larve, dalle fosse, nella notte fra l’1 e il 2 novembre, ma sono inesorabilmente costrette a tornare alle sedi infere il giorno dell’Epifania, quello del distacco annuale degli affetti risuscitati e della ricomposizione dell’ordine di separazione fra viventi e defunti. Nelle testimonianze orali passano, nelle prime ore del mattino o a mezzanotte, a schiere presso i cimiteri in forma di umbratili presenze che mai bisogna osservare nella parte posteriore, vuota d’ogni carne. Si riuniscono in una chiesa abbandonata dove un prete morto celebra per loro una liturgia dei defunti, invisibili a ogni occhio umano, meno a quelli che, dotati di segreti poteri, sosteranno in fondo alla chiesa, poggiando il proprio mento su un bastone biforcuto nella cima. Le narrazioni popolari non rivelano terrore alcuno per queste processioni spettrali, ma piuttosto attestano l’intima solidarietà sussistente fra viventi e trapassati, per i quali l’evento di morte mai costituisce definitiva separazione in una continuità annuale del rapporto.

Nella crisi dominata dal ritorno dei morti, della schiera medievale del Cacciatore spettrale, di Holda-Befana, già lo scambio dei doni, che è collocato, nella nostra cultura, a Natale, a Capodanno, all’Epifania, è un espediente di carattere principalmente magico, che reintegra il gruppo minacciato nella solidarietà ed esorcizza il male e la miseria futura. In fondo lo scambiare doni, soprattutto nelle zone italiane nelle quali il rituale di scambio è accompagnato dai canti di compagnie di giovani, esprime una struttura di particolare rapporto fra chi dona e chi riceve, che già il Sartori individuava nelle sue valenze magico-esorcistiche, nel senso che chi donava riceveva, in contraccambio, l’assicurazione metaforica dell’annullamento dei mali futuri dell’annata iniziante. Donare, cioè, non appartiene soltanto alla dialettica dell’esibizione consumistica dell’industria dei regali, né il dono è soltanto il segno di uno status symbol, che varia per ceti e classi. Alla sua base vi è, anche nella nostra società, la dialettica magico-economica del potlach, del rito che, pur sotteso nella presentazione cortese o affettuosa dell’oggetto, sigilla l’aggressività del mostrare e dell’esibire. Ed è fondo essenziale dei doni dei giorni scorsi, che la pubblicità mass-mediale ha bene intuito, quando associa agli oggetti proposti nella loro sontuosità e prepotenza le istintualità profonde che sono a base dello scambio-dono. Del resto questa sottesa sacralità esorcizzante dei doni presenti anche in altri periodi annuali è bene espressa dalla valenza che i latini davano al termine “strenna”, in specie offerta nel capodanno (prima al 1° marzo, poi al 1° gennaio), direttamente collegata a un’incerta dea Strenia, che incarnava la pienezza e la salute, dea di origine sabina, venerata in un lucus Streniae, in un bosco dove crescevano alberi i cui rami, offerti, erano beneauguranti.

All’irrompere delle turbe di spettri implacati si oppone quindi, nel mito e nel rito europei dei giorni festivi appena trascorsi, un’esplosione del disordine, del caos cosmico e sociale, accompagnato da forti tensioni libidiche, oscene e licenziose che, in gran parte, sono state riversate, con il correre dei secoli, nel carnevale. Gli usi, che continuavano i Saturnali, appartenevano già al mondo romano e assumevano quel nome di “libertà di dicembre” presente in Orazio e perpetuato fino alle soglie dell’età contemporanea. Le manifestazioni pubbliche di licenziosità orgiastica significavano, nelle loro sequenze fissate nel calendario di questi giorni, una delle tante forme di libera soddisfazione delle istintualità represse che, pur nella loro libertà, erano in qualche modo incanalate e controllate dal potere, il quale consentiva l’emergenza, quasi istituzionale, di un mondo capovolto corrispondente proprio ai giorni nei quali alla vuotezza del tempo si faceva formalmente corrispondere l’improvvisa sospensione della norma e del potere istituzionalizzato. Si profila, così, quella “festa dei folli”, segnata dal caos sociale, che viene fatta variamente cadere nella festa dei Santi Innocenti, al 28 dicembre, o in quella della Circoncisione di Nostro Signore, al 1° gennaio, o nell’Epifania. È vero che il primo documento che autorizza il capovolgimento dell’ordine costituito risale al 911, quando il re Corrado, trovandosi a Costanza, concesse agli scolari del Monastero di san Gallo tre giorni decembrini dedicati al gioco eversivo, nel quale le investiture vescovili e canonicali erano invertite e attribuite, sempre per gioco, agli scolari. Ma, come hanno ben chiarito molti studiosi italiani, dal De Bartholomaeis al Novati, il diploma di Corrado sanciva soltanto un’antica situazione di fatto che continuava la paganità dei saturnali fin nei primi secoli del Cristianesimo. Queste consuetudini, varianti da città a città, comportavano l’elezione di un episcopus puerorum o episcopellus, che, in apparato buffonesco, ma detentore di un effimero potere, veniva presentato al popolo con la mitria e il pastorale, mentre, nelle chiese dipendenti dalla Santa Sede, l’eletto era addirittura un “papa dei folli” dominante la turba scatenata che, nelle chiese e fuori di esse, era legittimata a ogni indecenza orale e gestuale, dal ballo scomposto al denudamento totale, ad atti sessuali normalmente vietati, alle “turpi cantilene, danze e fornicazioni” che sono ricordate, per le chiese italiane, germaniche e francesi, dalle continue condanne dei sinodi e dei decreti.

In questo contesto di dissacrazione di ogni forma di autorità entrava quella singolarissima liturgia detta Officio della Circoncisione o Officio dei Folli o Sequenza dell'asino, presente in alcune chiese dell'Italia settentrionale e perfettamente conservata nel testo francese di Sens del XIII secolo. Al centro di questa liturgia appare l'asino, con l'ambiguità delle memorie culturali opposte che derivano dall'Oriente biblico (dove appare come animale regale, cavalcatura di re) e dal mondo classico (dove, animale fallico per eccellenza, è offerto in sacrificio al dio Priapo). Nella liturgia di Sens, l'asino, bardato come canonico, era portato sull’altare e i preti lo circondavano, cantando una lunga sequenza, nella quale a ciascuno dei versetti commemoranti le sue imprese (l'aver assistito, con il bue, il Cristo neonato; l'averlo portato in Egitto; l'essere stato la sua cavalcatura nella domenica delle palme), i cantori rispondevano, anziché con il classico amen, con l'imitazione di un raglio.

E dopo ogni varia follia, ogni cosa tornava all'ordine anteriore, che, proprio per l'avvenuta liberazione delle aggressività, si ricostituiva in una maggiore garanzia e immobilità.

(pubblicato sul Manifesto domenicale dell’8/9 gennaio 1989)

*Alfonso Maria Di Nola (Napoli, 1926 - Roma, 1997), antropologo e storico delle religioni. All’Istituto Universitario Orientale di Napoli e in altri atenei ha insegnato Storia delle tradizioni e del folklore europeo, ha diretto l’Enciclopedia delle religioni e ne ha redatto la maggior parte delle voci. Autore di moltissimi libri di grande successo, ha diretto la collana “Magia e religioni” della Newton Compton, per la quale ha pubblicato Antropologia religiosa, La preghiera dell’uomo, Gesù segreto, Il diavolo, Maometto e la saggezza dell’Islam, La nera signora. Antropologia della morte e del lutto.

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