15 marzo 2024

"Storia della follia nell’età classica" di Michel Foucault: il significato della follia.

Jean Lacroix

In occasione della pubblicazione dell’Histoire de la folie à l’age classique, il filosofo francese Jean Lacroix (1900-1986) scrisse per Le Monde una recensione in cui metteva in luce le grandi questioni sollevate da Foucault in questo libro straordinario.

Il testo originale è stato pubblicato su Le Monde l’8 dicembre 1961 e ripubblicato il 29 dicembre 2023. Si può leggere all’indirizzo

Traduzione di Angela Peduto.

[…] Vorrei oggi intrattenere i miei lettori su un libro stupefacente, vero capolavoro di un genere nuovo, che trasporta l’inquietudine nel cuore della cultura moderna e che, con le sue settecento pagine, ha il merito di restare accessibile a tutti: Storia della follia nell’età classica, di Michel Foucault.

Nel 1954, in un eccellente piccolo libro, Malattia mentale e psicologia, Foucault mostrava già che la radice della patologia mentale può trovarsi solo in una “riflessione sull’uomo stesso”. Poco dopo, in una lunga introduzione allo studio di Binswanger, Il sogno e l’esistenza, affermava che il sogno non è soltanto oggetto, ma strumento di conoscenza, prefigurando così la sua tesi sulla follia del 1961. Le immagini non sono la trama del sogno, ma ciò che la coscienza vigile trattiene o ricostruisce; nel corso del sogno il movimento dell’immaginazione si dirige verso il momento primo dell’esistenza, dove si adempie la costituzione originaria del mondo. Prima di ogni divisione, il sogno è quel momento, che si ritrova nell’anima romantica, in cui soggetto e oggetto, persona e universo, nascono insieme, ancora indivisi. In ciò è evidente la parentela tra sogno e follia. La tesi del 1961 ha dunque lo scopo di farci conoscere l’uomo anteriore ad ogni divisione, prima di quell’istante in cui egli può solo scegliere la ragione, avendo provato la sragione ed essendosi separato da essa. Filosofo diventato psicologo grazie alla frequentazione degli ospedali psichiatrici, Michel Foucault realizza ciò che la nostra nuova cultura esige: diventa uno storico, ma uno storico del senso. 

Un’angosciosa domanda sull’uomo

La storia della follia in età classica si interroga sulle origini stesse della follia. Un’erudizione immensa e sempre padroneggiata è percorsa da un’angosciosa domanda sull’uomo. Si apre sui nomi di Pascal e di Dostoevskij e si chiude su quelli di Nietzsche, Van Gogh e Artaud. Foucault esprime la sua simpatia per la ribellione di scrittori, artisti e poeti contro un mondo che intende addomesticare la follia. Facendone una malattia mentale, l’uomo moderno ha smesso di comunicare con il folle. Si ripete troppo spesso che Pinel e i medici venuti dopo di lui hanno liberato il folle: essi l’hanno alienato. La ragione occidentale si è costituita a partire dalla negazione della follia, ma è forse alla sua presenza oscura e persistente che deve qualcosa della sua profondità, così come la saggezza greca sarebbe stata priva di grandezza senza la minaccia della dismisura, della hybris.

Foucault ha voluto risalire al di là di questa separazione. Perciò il suo libro non è di uno psichiatra, perché la psichiatria è un discorso sulla follia, un monologo, ma di uno storico-psicologo che scrive “la storia della follia in sé stessa, nella sua vivacità, prima che venisse catturata dal sapere”.

Durante il Rinascimento la follia è ancora presente nella società ed è contemplata dalla ragione: ai confini del mondo, dell’uomo e della morte si trova come figura escatologica. Senza dubbio con Erasmo e l’umanesimo è presa sempre più nell’universo del discorso. Ma questa analisi critica non ne esclude l’aspetto tragico, con Bosch o Bruegel. È la nave dei folli, carica di volti forsennati, che poco a poco sprofonda nella notte del mondo, tra paesaggi che parlano della strana alchimia dei saperi, delle sorde minacce della bestialità e della fine dei tempi. La sensibilità alla follia è legata alla presenza di trascendenze immaginarie. Per Montaigne la follia è ancora, all’interno della ragione, una specie di punta acuminata e pericolosa, un po' come per Joseph de Maistre la superstizione era un “avamposto della religione”.

Un “esorcismo riuscito”

Nel XVII° secolo questo aspetto tragico scompare – almeno dalla coscienza lucida. La grande follia barocca è ridotta al silenzio. La problematica cartesiana lo mostra con chiarezza: la ragione deve proteggersi dall’errore e dall’illusione – ed è compito del dubbio, aspetto eroico della volontà. Ma essa non può comportare il più piccolo seme di follia, perché è governo di sé e la follia è spossessamento; può essere folle l’uomo, ma non il pensiero. Ragione e follia si escludono radicalmente. E la scelta della ragione, che esclude la sragione, si opera su uno sfondo morale; in un certo senso il rifiuto del cattivo genio è il rifiuto stesso di una volontà perversa, di una specie di volontà folle. È nel mondo degli istituti di reclusione che si realizza questa esclusione della follia. Poiché la follia è esiliata, il folle dev’essere internato; non ha più un posto nella società degli uomini liberi nemmeno come folle del re. Se Cervantes fosse ancora vivo, sarebbe rinchiuso. L’internamento è una vera categoria dell’età classica. Ed è soprattutto di essa che Foucault decripta il senso con penetrazione esemplare: il XVII° secolo ha realizzato la grande frattura tra ragione e sragione, la cui espressione istituzionale è l’internamento ma che sussiste in forma mascherata nella nostra filantropia positivista e medica. 

Così l’età classica vede nelle diverse forme di follia il punto estremo del difetto; la sensibilità alla follia è legata a un certo ordine morale, di cui la famiglia si fa custode. Il folle, recluso insieme ai sifilitici, ai libertini, ai debosciati e agli omosessuali, è in rapporto col male, con la volontà perversa. L’internamento ha un significato più etico che medico: è un “esorcismo riuscito”. La follia è uno scandalo – oggetto dello sguardo perché le persone possano identificarsi come sane. Il folle ha scelto la sragione, cioè l’animalità nell’uomo. Sarà dunque esibita, questa follia scandalosa, ma dietro le sbarre, per sentirsene distanti; gli asili diventano gabbie e serragli. L’uomo normale apprende in questi luoghi che la ragione si adempie solo sullo sfondo della follia scongiurata. La casa d’internamento, al tempo stesso spazio di correzione e di redenzione, ha una specie di carattere sacro. Si avvicina, nello spazio sociale, ai limiti quasi assoluti dell’antico lebbrosario; è “terra straniera”. Il che si accompagna, malgrado tutto, ad una forma di reciprocità, perché l’uomo sano può leggervi, come in uno specchio, il movimento imminente della propria caduta nell’animalità!

Tutto ciò presuppone, per questo razionalismo, che la follia cominci esattamente là dove il rapporto dell’uomo con la verità si altera. Perciò la follia non può dirsi che dall’esterno; il XVII° secolo conosce un discorso sulla, ma non della follia. In sé stessa la follia è un “discorso delirante”, un misto di sogno ed errore. Per il filosofo, ad esempio Malebranche, essa si identifica con l’immaginazione pura, poiché è spirito accecato. O piuttosto abbagliato, come dice Foucault, nel senso che Pierre Nicole dava a questa parola quando si chiedeva se il cuore prendesse parte a tutti gli “abbagliamenti” dello spirito. La si può definire “l’istantaneo contatto del non-essere dell’errore e del nulla dell’immagine”: un errore non corretto, un’illusione che non giudica sé stessa. Per questo nell’età classica non c’è letteratura della follia. Come potrebbe parlare di sé in modo veritiero se l’unica verità appartiene alla ragione e la ragione esclude la follia? Si dovrà attendere Il nipote di Rameau – e in qualche modo Sade – perché la follia possa parlare di sé in prima persona. E nel Nipote di Rameau, “più anti cartesiano di tutto Locke, tutto Voltaire o tutto Hume”, possiamo scoprire retrospettivamente l’origine di tutto ciò che la follia dirà di sé, da Nietzsche ad Artaud. 

"Ciò che la follia dice di sé stessa è, per il pensiero e la poesia del primo Ottocento, ciò che dice anche il sogno nel disordine delle immagini: una verità dell’uomo molto arcaica e molto vicina, molto silenziosa e molto minacciosa; una verità al di sotto di ogni verità, la più prossima alla nascita della soggettività e la più estesa sul piano delle cose; una verità che è il profondo ritiro dell’individualità dell’uomo e la forma incoativa del cosmo". (M. Foucault)

Benché sia un genere totalmente differente, non si può non evocare il grande libro di Béguin, l’Ame romantique et le rêve.

Un fatto di civilizzazione

Queste evocazioni, tuttavia, rischiano di dare una falsa idea delle tesi di Foucault. I suoi critici gli hanno rimproverato di aver scritto un elogio della follia. A noi sembra invece che, un po' alla maniera di Bachelard, egli porti avanti parallelamente due linee di studio: uno più scientifico e positivista, l’altro concernente il senso e i significati. E la sintesi non si deve fare troppo in fretta. Questo libro, per l’analisi dei documenti, per la valorizzazione di strutture che si applicano tanto a un banale internamento quanto alla follia di Oreste nell’Andromaca, è un contributo capitale alla conoscenza dell’età classica come a quella dell’uomo. La follia non esiste che in una società e in rapporto ad essa: è un fatto di civilizzazione. Le ultime pagine lasciano presagire un’opera futura che svilupperà indicazioni e suggestioni offerte da questa. Al tempo stesso è in gioco tutta una concezione della psicologia e questo ne fa, come in Lagneau, seppure in tutt’altro contesto, una vera scienza storica. Ma forse è soprattutto questa maniera di interrogare il sogno e la follia che ci cattura e ci commuove e fa di questo studio erudito un libro che continua a porci domande. 

"Tale è il potere della follia: enunciare questo segreto insensato dell’uomo, per cui il punto estremo della sua caduta è il suo primo mattino, la sua sera si compie sulla più giovane luce e la fine è il ricominciare". (M. Foucault)

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