17 marzo 2020

Un virus troppo umano

Jean-Luc Nancy

Come la pandemia si inscrive in questa nostra epoca segnata da mutamenti enormi, fratture e contraddizioni laceranti? Trascrizione e traduzione dell’intervento di Jean-Luc Nancy “Un trop humain virus” per Philosopher au présent del 17 marzo 2020, a cura di Angela Peduto.

Spesso si è detto che, a partire dal 1945, l’Europa ha esportato le sue guerre. Caduta a pezzi, non ha saputo fare altro che diffondere la propria disunione nelle sue ex-colonie, intrecciando alleanze e creando tensioni con i nuovi poli del mondo. Tra questi poli l’Europa era soltanto un ricordo, benché fingesse di avere un avvenire.

Ed ecco che oggi l’Europa importa. Non solo merci, come fa da molto tempo, ma innanzitutto popolazioni: un processo che non è nuovo ma che ora diventa più pressante, perfino travolgente, al ritmo dei conflitti esportati e dei disordini climatici - questi pure, in gran parte, esportati - che hanno avuto origine nella stessa Europa. 

Ecco che importa un’epidemia virale.

Cosa vuol dire? Che non è solo l’effetto di una propagazione: questa ha i suoi vettori e le sue traiettorie e l’Europa non è il centro del mondo, tutt’altro, benché si sforzi di svolgere il suo vecchio ruolo di modello o di esempio. Altrove ci possono essere attrattive invitanti, opportunità impressionanti. Ce ne sono di tradizionali – seppure talora un po’ logore - come in Nord America, o di più innovative in Asia o in Africa: ma l’Europa sembrava rimanere più o meno desiderabile – o almeno così credeva -, se non altro come rifugio.

Il vecchio teatro degli esempi da seguire – il diritto, la scienza, la democrazia, l’apparenza e il benessere – accende ancora i desideri, anche se gli oggetti di questi desideri sono ormai usurati o addirittura fuori uso. Il teatro resta aperto, benché non sia granché accogliente per coloro che simili desideri non possono permettersi. 

Non c’è da stupirsi che un virus entri in scena.

Non c’è da stupirsi nemmeno che qui scateni più confusione che là dove è nato. Perché la Cina era già in formazione militare, che si trattasse di mercati o di malattie. In Europa regnava invece il disordine: tra le nazioni e tra le aspirazioni. Il risultato è stata l’indecisione, l’agitazione e un difficile adattamento. Dal canto loro, gli Stati Uniti hanno rapidamente riacquistato il loro superbo isolazionismo e la loro capacità di prendere decisioni nette. L’Europa è sempre stata alla ricerca di sé stessa – andando anche alla ricerca del mondo, scoprendolo, esplorandolo e sfruttandolo -, prima di smarrirsi nuovamente.

Mentre il focolaio iniziale dell’epidemia sembra in procinto di essere controllato e molti paesi ancora poco colpiti si chiudono agli europei come ai cinesi, l’Europa diventa il centro dell’epidemia. Essa sembra aver accumulato gli effetti dei viaggi in Cina (affari, turismo, studi), quelli dei visitatori provenienti dalla Cina e da altri paesi (affari, turismo, studi), quelli della sua incertezza generale e, infine, dei suoi dissidi interni.

Siamo tentati di caricaturare così la situazione: in Europa prevale il “si salvi chi può!”, altrove “a noi due, virus!”. O ancora: in Europa gli indugi, gli scetticismi,  gli “spiriti forti” – nel senso antico dell’espressione - che occupano più spazio che in molte altre regioni. È l’eredità della ragione raziocinante, libertina e libertaria – ovvero di ciò che per noi, vecchi europei, rappresentava la vita stessa dello spirito.

Così in Europa l’inevitabile ripetizione dell’espressione “misure eccezionali” fa apparire il fantasma di Carl Schmitt grazie ad una specie di amalgama precipitoso. Il virus propaga un discorso da bravata ostentata: prima di evitare il contagio occorre non lasciarsi ingannare, – il che equivale a lasciarsi ingannare due volte e forse essere raggirati da un’angoscia in fondo mal repressa. O da un sentimento puerile d’impunità, o di spavalderia…

E dunque ognuno (me incluso) propone la sua osservazione critica, dubbiosa o interpretativa. Filosofia, psicoanalisi, politologia del virus corrono veloci.

Ciascuno di noi discute e dibatte, perché abbiamo una lunga abitudine alle difficoltà, alle lacune di conoscenza e alle indecisioni. Su scala mondiale, sembra che dominino piuttosto la fiducia, il controllo e la decisione. È perlomeno l’immagine che ci si può fare o che tende a crearsi nell’immaginario mondiale.

Il coronavirus è da molti punti di vista un prodotto della globalizzazione. Ne precisa i tratti e le tendenze, è un libero-scambista attivo, combattivo ed efficace. Partecipa al grande processo attraverso cui una cultura si dissolve mentre si afferma qualcosa che, più che una cultura, è una meccanica inestricabile di forze tecniche, economiche, in ogni caso predominanti ed eventualmente fisiologiche o fisiche (si pensi al petrolio o all’atomo). È vero che, nello stesso momento, il modello della crescita sembra messo in discussione al punto che il presidente della Repubblica francese si sente in dovere di dichiararlo. È possibile che domani saremo costretti a spostare i nostri algoritmi – ma nulla oggi mostra se potrà veramente cambiare il vento.

Perché non è sufficiente sradicare un virus. Se il controllo tecnico e politico dovesse risultare fine a sé stesso, cosa che sta accadendo, esso farà del mondo nient’altro che un campo di forze sempre più tese le une contro le altre, prive ormai di tutti gli alibi civilizzatori presenti un tempo. La brutalità contagiosa del virus diffonde una brutalità gestionale. Siamo già di fronte alla necessità di dover scegliere chi può essere ammesso alle cure. Nulla ancora si dice sulle inevitabili ingiustizie economiche e sociali. Non c’è in questo alcun calcolo subdolo nel senso di complotti machiavellici, anche se beninteso c’è chi approfitta della situazione. Né ci sono abusi particolari da parte degli Stati. Non esiste che la legge generale delle interconnessioni, dove tutto è più o meno virale, dove il controllo è la posta in gioco dei poteri tecno-economici.


Le pandemie di un tempo potevano essere considerate una punizione divina, così come la malattia, a lungo considerata esogena al corpo sociale. Oggi la maggior parte delle malattie è endogena, prodotto delle nostre condizioni di vita, di alimentazione, delle intossicazioni; ciò che era divino è diventato umano, troppo umano, come dice Nietzsche. La modernità fu a lungo sotto il segno delle parole di Pascal: “L’uomo supera infinitamente l’uomo.” Ma se l’uomo supera troppo sé stesso, senza cioè più innalzarsi al divino pascaliano, allora finisce per non superarsi affatto e per nascondersi in un’umanità sorpassata dagli eventi e dalle situazioni che essa stessa ha prodotto.  Ora, del divino il virus attesta l’assenza, poiché ne conosciamo la costituzione biologica. Scopriamo, anzi, fino a che punto il vivente sia più complesso e meno comprensibile di quanto potessimo pensare. E scopriamo quanto anche l’esercizio del potere politico – quello di un popolo, quello di una ipotetica “comunità” per esempio “europea” o di regimi più energici – sia un’altra forma di complessità a sua volta meno comprensibile di quel che sembri. Comprendiamo meglio fino a che punto il termine “biopolitica” diventi irrilevante in questa situazione: la vita e la politica ci sfidano contemporaneamente. Il nostro sapere scientifico ci espone a dipendere solo dal nostro potere tecnico – o tecno-scientifico. E tuttavia non esiste una tecnicità pura e semplice, perché il sapere stesso comporta le sue incertezze (basta leggere gli studi che vengono pubblicati). Il potere tecnico non è univoco; quanto meno può esserlo un potere politico chiamato a rispondere, contemporaneamente, a dati oggettivi e ad attese legittime.

Certo, è comunque una presunta oggettività a dover guidare le decisioni. Se questa oggettività è quella dell’“isolamento” e del “distanziamento” fino a quale grado di autorità occorre arrivare per farla rispettare? E, nella direzione opposta, dove comincia l’arbitrarietà interessata di un governo che vuole – è solo uno tra i tanti possibili esempi – preservare i giochi olimpici da cui si aspetta vari benefici, attesa condivisa da molte imprese e manager di cui il governo si sente, in parte, strumento? E cosa dobbiamo pensare di un governo che coglie l’occasione per infiammare il nazionalismo? 

La lente d’ingrandimento del virus accentua i tratti delle nostre contraddizioni e dei nostri limiti. È un principio di realtà che batte alla porta dei nostri principi di piacere. 

La morte l’accompagna, certo. La morte che abbiamo esportato con le guerre, le carestie e le devastazioni, la morte che pensavamo confinata in qualche altro virus o nel cancro (anche quest’ultimo in espansione quasi-virale), eccola in agguato all’angolo della strada. Guarda un po’! Siamo umani, bipedi senza piume, dotati di linguaggio, ma sicuramente né sovraumani né transumani. Troppo umani? Saremmo troppo umani? O forse occorre comprendere che non si può mai esserlo troppo? E che è proprio questo a superarci infinitamente?

(Traduzione di Angela Peduto)

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