Il Sogno crocevia di mondi

Angela Peduto e Giorgio Antonelli (a cura di)
Ed. Alpes Italia, 2015

Psicoanalisti, filosofi, antropologi hanno partecipato alla stesura di questo libro, interrogando il sogno da differenti prospettive. A partire dalla psicoanalisi, passando attraverso l’antropologia e la più giovane etnopsichiatria, il lettore è condotto fino alle grandi visioni filosofiche del XX secolo. E poiché non si dà discorso sul sogno che non incroci le arti, sono anche convocati letteratura, surrealismo e cinema. Teso tra individuo e collettività, tra realtà interna ed esterna, tra dimensioni inaccessibili della mente e dimensioni coscienti, tra psiche e cultura, tra intimità soggettiva e universalità di miti e simboli, il sogno continua a parlare all’uomo al di là dello scorrere dei tempi e del mutare delle civiltà.

*Nota:
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Anteprima:

Indice

NOTE SUGLI AUTORI
INTRODUZIONE (Daniela Iotti)
Sezione 1
Dall’antropologia all’etnopsichiatria
Sogno e mito: incontro tra psichismo e cultura (Edith Campi)
Il sogno di un archivio dei sogni (Giordana Charuty)
Sogno e pensiero tradizionale: calmare le tempeste di una relazione madre-figlia (Danièle Pierre)
Sezione 2
Prospettive psicoanalitiche, orizzonti clinici
Destini dei sogni in seduta (Maurizio Balsamo)
Il luogo del sogno (Giorgio Antonelli)
Il sogno, l’incubo e il soffio di Eros (Angela Peduto)
Lacan e il sogno (Sergio Sabbatini)
L’approccio gestaltico al sogno (Riccardo Zerbetto)
Sezione 3
Verso i luoghi dell’arte
Esperienza del sogno e sperimentazioni surrealiste (Olivier Douville)
La vita ombra del sogno. La scrittura di Murakami sul limitare dell’inconscio (Mariangela Pierantozzi)
OniroCineNautica: navigazione onirica nel mondo del cinema (Amedeo Caruso)
Sezione 4
Visioni del novecento
Oltre l’interpretazione. La sfida di Binswanger tra psicoanalisi e fenomenologia (Luisa de Paula)
Due prospettive fenomenologiche sul sogno: Sartre e Merleau-Ponty (Giuseppe D’Acunto)


INTRODUZIONE

Daniela Iotti - Bologna

Dedicare un libro ai fenomeni onirici, a più di cento anni dalla pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni di Freud e in un’epoca dominata da miti di oggettività, misurabilità ed efficienza, può sembrare un’operazione anacronistica. Tuttavia la lettura del libro che avete in mano, in cui il sogno viene interrogato da molteplici vertici osservativi, permetterà di cogliere non soltanto l’attualità e la fertilità dell’esperienza onirica, ma il suo essere in vari modi necessaria, in tutte le epoche e in tutte le culture, al farsi del soggetto e della società.
Il percorso che ha portato alla realizzazione di questo volume ha avuto inizio con un lungo seminario sul sogno, tenuto dal 2010 al 2012 da Angela Peduto e da chi scrive all’interno delle attività dell’associazione psicoanalitica OfficinaMentis [1], a seguito del quale organizzammo, nel maggio 2013, una giornata di studio multidisciplinare dal titolo Il sogno, crocevia di mondi. Volevamo offrire un momento di dibattito critico sulla psicoanalisi all’insegna dell’apertura e del confronto con le altre discipline. Gli interventi presentati in quell’occasione costituiscono buona parte del presente volume.
Come recita il titolo del libro, il sogno si colloca al crocevia di molti mondi, mondi tra cui crea connessioni e da cui al contempo è costituito, a partire dalle dimensioni più intime e ineffabili della soggettività (natura istintuale, nucleo biologico dell’individuo, movimento libero dell’immaginazione, anima, ecc.) fino alle rappresentazioni mitiche e simboliche della società.
Affrontato secondo una lettura multidisciplinare, lo studio del sogno porta a una riflessione epistemologica e a una visione dell’esperienza onirica che sbarra la strada a ogni tentativo di analisi riduzionista e unilaterale. L’intento di questa proposta editoriale non è di giustapporre semplicemente differenti discipline e ambiti espressivi (antropologia, fenomenologia, psicoanalisi, etnopsichiatria, cinema, letteratura, arte), ognuno chiuso nella propria epistemologia, ma di creare un’occasione di arricchimento e di interrogazione reciproca dei molti paradigmi conoscitivi attraverso cui possiamo osservare il fenomeno del sogno. In questa introduzione intendo avviare questa reciproca interrogazione, lasciando poi al lettore la possibilità di inoltrarvisi più a fondo.
Se consideriamo i rapporti da sempre conflittuali e complessi tra antropologia e psicoanalisi [2], ci accorgiamo subito che non è sufficiente aggiungere a una disciplina i metodi dell’altra e stabilire una relazione tra il disordine psichico e l’ambiente socioculturale nel quale esso si verifica; è invece necessario ripensare il rapporto tra individuale e culturale attraverso una “radicale revisione dei fondamenti epistemologici dell’insieme delle scienze dell’Uomo”[3]. Come ci ricorda in modo quanto mai pertinente Carlo Severi la “linea di separazione tra il dentro e il fuori”, quello che chiamiamo lo psicologico e il culturale, “non è un dato della realtà, ma risulta invece dal metodo di osservazione che si sceglie di adottare”[4]. Quella linea d’ombra che ancora oggi delimita la psicoanalisi dall’antropologia va ogni volta ricostruita attraverso l’osservazione e l’analisi.
Oggi il discorso sul sogno, in particolare quello antropologico, pur non potendo prescindere dalla epocale riflessione freudiana, deve tuttavia affrancarsi da essa. Per poter descrivere la grande diversità delle funzioni assegnate alla vita onirica nelle diverse tradizioni – ci avverte nel suo scritto Giordana Charuty – occorre evitare di promuovere l’antropologia freudiana “come verità in rapporto alla quale si dovrebbero misurare anticipazioni, similitudini o al contrario, antagonismi” e uscire dall’illusione di una linearità evolutiva nello studio del sogno (per esempio da una concezione soprannaturale dell’origine del sogno orientata verso l’avvenire a una concezione psicologica orientata verso il passato). Come per lo studio dei saperi terapeutici “non si può che riconoscere l’eterogeneità delle tradizioni ermeneutiche attive nel presente”.
Poiché ogni uomo sogna a qualsiasi latitudine, in ogni periodo storico e in ogni cultura, il sogno è fenomeno transculturale per eccellenza, che ci confronta tuttavia con la dimensione contestualizzata e culturalmente situata di ogni modello conoscitivo, nessuno escluso [5]. Come spiega Edith Campi, nel primo dei contributi contenuti nel libro, l’analisi del sogno e il suo stesso costituirsi avvengono in relazione a uno sfondo narrativo rappresentato dal mito, che fornisce le verità essenziali di una data società sul mondo, verità che rimangono, come ogni schermo, per lo più invisibili e indimostrabili, ma senza le quali nessun discorso sarebbe possibile (il mito è infatti un metalinguaggio) [6]. Molti psicoanalisti si sono occupati della dimensione mitica del discorso e del pensiero e ne hanno sottolineato la necessità, poiché questa dimensione fornisce una forma discorsiva e narrativa per una verità che altrimenti non potrebbe essere detta attraverso una definizione diretta [7]. In altri luoghi Piera Aulagnier [8] ha individuato nel mito (così come negli enunciati sacri e scientifici che svolgono un’analoga funzione) uno degli elementi che costituiscono il “discorso dell’insieme”, cioè quel gruppo di enunciati che in una data cultura e società definiscono la realtà del mondo, la ragion d’essere del gruppo, l’origine dei suoi modelli, costituendo la funzione di garanzia della “verità” di ogni parola e del senso di appartenenza alla società. È precisamente con questo sfondo costitutivo di ogni possibile narrazione che ci pone a confronto l’analisi dei diversi usi culturali del sogno, producendo una radicale messa in discussione delle categorie attraverso cui definiamo la realtà e una sorta di vertigine epistemologica provocata dal decentramento culturale.
L’analisi degli usi culturali del sogno mette innanzitutto in crisi la distinzione occidentale tra anima e corpo, tra ciò che è interno all’individuo e ciò che è esterno, tra ciò che è reale e ciò che è irreale e dà accesso a differenti teorie della persona (concezioni aggregative e disgiuntive della pluralità dell’Io) e a differenti rappresentazioni dell’alterità. Come osserva l’antropologa Arianna Cecconi [9], in un interessante studio sull’esperienza onirica in alcuni villaggi delle Ande Peruviane10, quando ci si avvicina al sogno da una prospettiva antropologica non si può dare per scontato ciò che per una dato gruppo sociale è considerato reale e cosa l’esperienza del sogno rappresenta nei diversi contesti culturali. Sognare è certamente un’attività universale, ma “[…] a seconda di dove nasciamo e cresciamo sogniamo diversamente così come diverso è il significato e l’importanza che questa esperienza assume nelle nostre vite”.
Dobbiamo all’etnopsichiatria e al lavoro pionieristico di Georges Devereux l’aver saputo applicare il sapere antropologico e l’uso delle rappresentazioni culturali alla cura dei disturbi psichici. La nascita dell’etnopsichiatria [11], che fonda le sue radici nella psichiatria coloniale dei primi del ‘900 e che Devereux ha poi criticamente rivisitato e definito in termini rigorosi negli anni ‘70 del secolo scorso, ha trovato in seguito la sua espressione più radicale nei lavori e nella pratica clinica di Tobie Nathan. Nathan ha realizzato un originale lavoro di formazione, ricerca e assistenza psicologica alle famiglie di immigrati fondando nel 1993 il Centre Georges Devereux presso l’Università Paris VIII nel quartiere Saint Denis. L’approccio etnopsichiatrico – che non è tuttavia unitario, ma articolato in differenti accezioni – ha il grande merito di aver portato l’attenzione sulle problematiche dei migranti, sulla dialettica tra individuo e gruppi di appartenenza, sul ruolo della cultura nella clinica e sulla parzialità dei nostri saperi e delle nostre tecniche di cura. Molti sono i problemi e le critiche a cui l’etnopsichiatria è chiamata a rispondere [12]. In particolare in Francia si è sviluppato sul finire degli anni ‘90 un acceso dibattito intorno al lavoro di Nathan e alla sua concezione di “recinzione culturale” secondo cui la cultura rappresenterebbe un sistema interiore agli individui che racchiude lo spazio psichico. Tale impostazione ha portato numerosi autori [13] a individuare nella teoria nathaniana una visione eccessivamente differenzialista che apre le porte al razzismo culturale e a una clinica intrisa di ideologia. Non sono mancate le reazioni a queste critiche da parte dello stesso Nathan [14] e di altri intellettuali tra cui Isabelle Stenger [15]. Ci sembra tuttavia che le questioni poste dall’etnopsichiatria, sul tema della differenza culturale e su come dar conto di essa nei nostri modelli di cura, non possano essere facilmente e definitivamente liquidate.
L’articolo di Danièle Pièrre contenuto in questo volume fornisce un esempio clinico di lavoro attraverso i sogni in una relazione terapeutica transculturale. I sogni raccontati in seduta da una coppia madre e figlia di origine marocchina vengono interpretati e utilizzati come materiale clinico attraverso una metodologia che fa riferimento all’etnopsichiatria. Le rappresentazioni culturali appartenenti al discorso culturale tradizionale sono utilizzate nella relazione terapeutica per costruire una “matrice di senso” necessaria a elaborare le problematiche profonde del paziente. L’autrice riprende la concezione tradizionale del sogno in Marocco in cui l’esperienza onirica “è come un viaggio nell’altro mondo o come un messaggio dall’aldilà, una specie di spazio di veggenza; vi si può vedere il djinn che minaccia il sognatore, il santo che lo protegge con la sua baraka, o ancora i morti che potrebbero portarlo con loro nell’altro mondo. Dunque, mentre noi parliamo di sogni, è tutta una visione del mondo che si dispiega, è tutto un universo di senso che è convocato là, in seduta”. Il sogno, così come i sintomi e le caratteristiche del transfert, afferma l’autrice, sono fenomeni organizzati e strutturati dalla logica e dalle rappresentazioni dell’universo culturale di appartenenza e come tali ritrovano la totalità del loro significato solo se collocati al-l’interno di una particolare cultura.
Nei loro contributi Danièle Pièrre ed Edith Campi pongono alcune questioni che mi preme sottolineare e che possono essere ricondotte allo statuto e all’uso delle leve culturali [16] nella clinica. Da un lato l’affermazione di D. Pièrre secondo cui entrare nella logica, nella visione del mondo tradizionale (ad esempio quella marocchina), “non ci allontana affatto dai nostri riferimenti psicoanalitici”, ci sembra semplificare, in una direzione d’integrazione a-problematica, un’alterità mai del tutto traducibile e che sempre ci sfugge, dall’altro lato E. Campi – sostenendo senza mezzi termini che “ogni utilizzazione di leve culturali – in particolare quelle irrazionali e/o ideologiche – che durante la terapia tendono a rafforzarsi anziché autosopprimersi e dunque impediscono il conseguimento di 'insight' capaci di abolire queste stesse leve – costituisce un abuso della cultura e non può essere una vera terapia”, ci sembra cadere in un eccesso di razionalismo e di rassicurante attaccamento al proprio modello. Su quale base infatti possiamo considerare oggettivi i nostri atteggiamenti nei confronti del sogno e soprannaturali e magici (cioè irrazionali e superstiziosi) quelli appartenenti ad altre rappresentazioni culturali? La pratica transculturale e una rigorosa analisi teorica di queste tematiche conduce a sostenere che “l’etnopsichiatria clinica riconosce che non ha di fronte né mere credenze [17], né pure metafore […] Quelli che incontriamo nella clinica dei pazienti immigrati sono modelli esplicativi, psicologie altre, impliciti del linguaggio [18]: essi potranno essere tradotti, trasformati, ed eventualmente sostituiti da altri riferimenti, ma a condizione che questo processo sia rispettoso, graduale e condiviso”[19]. Tendenzialmente, in etnopsichiatria, non bisogna “mai interpretare psicoanaliticamente il materiale culturale” [20]. Un pieno riconoscimento dell’Altro deve tenere conto delle modalità con cui il paziente esprime le proprie angosce, non come “affermazioni banali anestetizzate nei termini di superstizioni” ma in quanto “modelli che nominano e spiegano il male, al pari di tanti concetti e termini operanti nelle centinaia di modelli psicoterapeutici occidentali" [21]. L’uso del materiale culturale nella relazione terapeutica richiede pertanto prudenza e rigore e un’attenta analisi del controtransfert culturale [22] e sociale [23], affinché possa essere messo al servizio del funzionamento psichico del paziente. Questo eviterà sia di rinchiudere l’individuo entro rigide concezioni della cultura, sia di alienarlo dai propri sistemi di riferimento con-vertendoli frettolosamente ai nostri modelli psicologici.
Il sogno non manca di interrogarci sul piano della definizione dell’oggetto: che cos’è? quale funzione svolge nell’esperienza umana? Certamente il sogno intrattiene una relazione privilegiata con l’esperienza intima del sognatore, è prima di tutto un evento soggettivo che psicologia, psicoanalisi, fenomenologia tendono a collocare internamente all’individuo. Il sogno, come vedremo, è via via “luogo di manifestazione di un diverso modo dell’Io” – che Giorgio Antonelli, sulla scia di Corbin e Hillman, chiama immaginale – attraverso cui l’anima si prende cura di noi portando il suo messaggio nella realtà della veglia; come fu per Freud e in seguito per Lacan, il sogno è la realizzazione allucinatoria e deformata di un desiderio censurato, rimosso, che, come il sintomo isterico, si manifesta attraverso un messaggio cifrato (S. Sabbatini); il sogno è anche ciò che permette a quegli aspetti della nostra storia che non possono essere trascritti di apparire nel presente e di tentare una decifrazione e una trasformazione (M. Balsamo); è quindi un formidabile strumento di conoscenza di sé, di riappropriazione delle parti scisse, di presa di coscienza sui vissuti rimossi e di rappresentazione di scenari immaginali che anticipano il nostro futuro (R. Zerbetto). Il sogno è espressione delle potenzialità esistenziali del sognatore e il suo senso va colto “nelle pieghe del vissuto e nell’attualità viva e irriducibilmente unica del suo farsi” (L. de Paula); è inoltre testimone di una capacità dell’apparato psichico di sfuggire – legandola – sia al troppo dell’eccitazione e della soddisfazione assoluta del desiderio (il seno allucinato), sia al nulla della sua sparizione (il vuoto), permettendo al soggetto di abitare la realtà in modo creativo (A. Peduto).
Lo spazio del sogno sembra essere per sua natura ibrido e mobile e non permette di essere fissato in un luogo definito. Molti autori collocano l’esperienza onirica in uno spazio caratterizzato da elementi di ambiguità e da capacità trasformative; questo spazio rimanda al concetto di spazio transizionale di Winnicott (A. Peduto) e a quello di spazio liminale di Victor Turner [24]. Il sogno non è né interno né esterno, né dentro né fuori, esso svolge una funzione fortemente interattiva, mettendo in relazione la realtà interna con quella esterna, il libidico-emotivo con la coscienza razionale, il mondo dei vivi con quello dell’invisibile (morti, spiriti, antenati, memorie implicite altrimenti non percepibili), il presente con il passato e con il futuro, le esperienze soggettive con i fatti storici e sociali.
Lo studio multidisciplinare del sogno scardina anche quell’opinione comunemente condivisa secondo cui il fenomeno onirico apparterrebbe esclusivamente allo stato di sonno [25]. Osserva E. Campi che in alcune società – per esempio nelle popolazioni nere brasiliane – “lo stato di sogno non è chiaramente separato da quello di veglia”. Molti gruppi sociali cosiddetti tradizionali ritengono che ci sia continuità tra vita notturna e vita diurna e che i sogni rappresentino forme di sapere in grado di farci com-prendere meglio la realtà quotidiana e di influenzarla. La rottura tra lo stato di sogno e lo stato di veglia che si è imposta da tempo in Occidente può essere messa in relazione, sostiene E. Campi, con specifiche forme di vita e di organizzazione economica. Il tempo della veglia assorbito dalle attività quotidiane è tendenzialmente orientato alla produttività (lavoro, soluzioni di problemi, relazioni umane, soddisfazioni ecc.). Nel sogno notturno ritroviamo “le sedimentazioni di questo reale sotto forma di desideri rimossi e connessi a una forma di mitologia personale, sullo sfondo di scenari culturali che si ricompongono con elementi sempre nuovi” .
Anche all’interno del modello occidentale sono presenti correnti di pensiero che non circoscrivono l’esperienza onirica allo stato di sonno. La psicoanalisi postfreudiana, in particolare quella che fa riferimento al pensiero di Wilfred Bion, libera il sogno dal recinto della dimensione notturna e ne estende la funzione allo spazio della veglia. Per Bion il sognare vero e proprio è un processo continuo che appartiene alla vita della veglia e che è costantemente in azione. Il processo del sognare sottopone il materiale conscio, come pure il materiale inconscio pre-verbale, al lavoro-del-sogno per renderlo idoneo ad essere immagazzinato dalla mente e trasformato dalla posizione schizoparanoide a quella depressiva [26]. Sognare è prima di tutto un processo trasformativo attraverso cui “agli eventi viene fatto qualcosa mentalmente”. Ciò che viene fatto loro è quello che Bion chiama venire sognati, cioè trasformati in elementi fruibili dalla mente e dal pensiero. Il sogno non risponde solo al bisogno di convertire il contenuto latente (i desideri arcaici e infantili) in un’esperienza razionale conscia, ma anche e soprattutto al bisogno di convertire l’esperienza razionale conscia in un sogno (cosa c’è in quella situazione o in quella esperienza che deve essere sognato?). Nel contributo di Mariangela Pierantozzi sulla scrittura di Murakami Haruki e il suo romanzo più onirico, Kafka sulla Spiaggia, il sogno viene descritto come “la palestra per la generazione del significato delle esperienze” senza il quale il mondo esterno sarebbe privo di senso. La realtà – in una modalità che ci rammenta la funzione del sogno tra gli indiani Mohave come guida nel mondo del reale – è il prodotto di un costante pensiero onirico che la rende pensabile. Il romanzo di Murakami, moderna declinazione del mito di Edipo, muovendosi costantemente “sull’indefinito confine tra ciò che appare e quel che è” e dove “dormire e vegliare non fa differenza” mostra il processo di sviluppo della mente attraverso il lavoro del sogno dal non senso al significato, dalla fusione tra conscio e inconscio al ritorno nel mondo temporale, dal fondo oscuro della natura umana alla sua almeno parziale metabolizzazione.
Maurizio Balsamo, dal canto suo, considera il sogno prevalentemente come una modalità di funzionamento psichico – che può attivarsi sia durante il sonno sia durante la veglia, nel paziente come nell’analista – attraverso la quale è possibile “digerire” e “ritrascrivere” elementi della propria storia. È infatti in relazione alla storia individuale di ciascuno che il sogno svolge la propria funzione, la quale può essere “positiva” quando riguarda la soddisfazione di un desiderio, o “negativa” quando ha a che fare con l’apparizione nel presente di un eccesso del passato (sotto forma di trauma, sensazione grezza, materiale non elaborabile, deficit di pensiero) che esita a divenire storia [27].
Nell’articolo di Riccardo Zerbetto viene descritta la concezione gestaltica del sogno nei suoi aspetti teorici e metodologici, evidenziando la centralità che il lavoro sul sogno assume nella clinica e nella conduzione della terapia gestaltica. Per la Gestalt Therapy di Fritz Perls, che si muove nel solco della psicologia umanistico-esistenziale rielaborando concetti freudiani, junghiani e reichiani, il sogno è in primo luogo un messaggio esistenziale attraverso il quale si rivelano al sognatore parti del sé rimosse (in-consce), ma anche contenuti di coscienza che l’Io non ha ancora integrato (mai arrivate alla coscienza) e importanti indicazioni sulle direzioni della propria esistenza e su ciò che manca alla nostra vita (quel che evitiamo di fare e di vivere). Colui che sogna è contemporaneamente “scena, attore, suggeritore, regista, critico, autore e pubblico insieme”, egli deve entrare in questa consapevolezza e viverla. La metodologia utilizzata dal terapeuta non sarà quella dell’interpretazione, che cerca di svelare ciò che è nascosto e di astrarne un significato, ma quella di facilitare l’immedesimazione nel vissuto, per recuperarne la dimensione olistica, la Erlebnis. Il sogno dunque non deve essere interpretato, ma al contrario diventare oggetto di un percorso esperienziale.
Sogno come modalità per accedere alla propria esistenza e rendere l’esperienza fruibile dalla mente e dal pensiero, ma anche sogno come luogo o “terzo stato” in cui l’Io della veglia, della coscienza vigile, viene messo a riposo permettendo il manifestarsi di un altro modo “di dimorare”, “di abitare”, “di essere”. Nel suo articolo Giorgio Antonelli sottolinea l’aspetto di spazialità del sogno dove il corpo aereo del dormiente (libero dai vincoli del corpo fisico e dell’Io cosciente) si reca per incontrare altri aspetti di sé, altre possibilità esistenziali, altri luoghi, altre figure [28], che la dimensione della veglia preclude. Durante il sogno viene varcato il confine tra mondo diurno e mondo dell’onirico e il risveglio riconduce il dormiente oltre il confine e dentro la vita del giorno. Ma il sogno non intende lasciarsi del tutto confinare nello spazio onirico e anzi vuole essere tradotto alla luce del giorno, poiché il “sogno introverso ha un desiderio estroverso”. Anche per Antonelli l’esperienza onirica non appartiene esclusivamente allo stato di sonno, poiché durante la veglia entriamo e usciamo continuamente dallo stato di sogno (comune trance quotidiana). Il setting analitico stesso ha molte affinità con la dimensione onirica e per Antonelli è quasi sovrapponibile all’esperienza del sogno. Attraverso il sogno l’anima [29] si manifesta e si prende cura di noi. Lo psicoterapeuta deve facilitare questa manifestazione e l’aprirsi dello spazio onirico, in quanto egli è “il servitore” del luogo del sogno [30].
Angela Peduto porta l’attenzione sulla differenza tra sogno e incubo. Essa pone quest’ultimo, diversamente che nella lettura freudiana classica, in continuità non con i sogni d’angoscia (che hanno a che fare con la dinamica del desiderio e con l’imbrigliamento dell’energia psichica), ma piuttosto con i sogni traumatici in cui l’Io, sottoposto a un’effrazione del proprio involucro, tenta di legare psichicamente gli elementi traumatici e di proteggere lo spazio psichico da un eccesso di stimoli e dalla disintegrazione. Mentre il sogno rimane per l’autrice “il guardiano del sonno” di freudiana memoria, e segnala il fallimento dell’attuazione di quello stato fetale che il sonno ricerca (il sogno entra in gioco per eliminare le perturbazioni della vita psichica non del tutto addormentata), l’incubo rimanda a quell’a-priori del sogno rappresentato dall’edificazione di uno spazio – tra il troppo della presenza e il troppo poco dell’assenza – in cui il sogno può avvenire. Lo spazio intermedio – che come Winnicott insegna è lo spazio del gioco, della creatività, del sentimento di esistere e anche del sogno – è una conquista mai del tutto acquisita e sempre minacciata dal prevalere della potenza distruttiva della soddisfazione assoluta (il reale del seno allucinato) e dall’impossibilità di rappresentare l’assenza dell’oggetto (la sua sparizione e il vuoto). Rendersi attenti alle condizioni necessarie affinché il sogno possa avvenire: è questo ascolto che l’autrice intende sollecitare.
Altro aspetto importante è la distinzione tra sogno manifesto e contenuto latente, distinzione che, a partire dalle note posizioni freudiane successivamente messe in discussione da Jung dopo gli anni ‘20, non ha mai smesso di fare problema – e non soltanto in ambito clinico. Il sogno che raggiunge la coscienza deve essere considerato una distorsione di verità più profonde (i desideri repressi e i contenuti inconsci) e come tale ha valore solo se viene interpretato? O invece il sogno ha un valore a sé stante, e nel momento in cui si produce “ha già senso”? [31] L’analisi antropofenomenologica di Binswanger, di cui rende conto Luisa de Paula, esprime in maniera radicale la presa di distanza da una visione strumentale del sogno come mezzo di accesso a una verità altra (inconscio) e mezzo di prova di forze psichiche che agiscono alle spalle della coscienza [32], proponendo un “superamento dell’interpretazione” e una concezione del sogno come “espressione di una esperienza reale del possibile”. Nel sogno si attua una messa in scena “senza travestimenti” e si esprimono “tensioni reali”. L’analisi fenomenologica di Binswanger cerca il senso del sogno “tra le pieghe del vissuto e nell’attualità del suo farsi”. Non è tanto importante individuare cosa c’è nel sogno, ma occorre esplorare – attenendosi scrupolosamente al contenuto letterale e figurale riportato dal sognatore – quali domande il sogno pone al soggetto, a quali possibilità di esistenza lo mette di fronte, quali aperture di senso e tensioni direzionali indica. “Poiché il movimento libero dell’immaginazione nel sonno non traccia percorsi ma indica direzioni, poiché il suo orizzonte non è quello positivo del dato e della realtà naturale, ma quello abissale delle possibilità che si offrono all’esistenza nel suo trascendersi, allora spetterà alla coscienza sveglia aprire la strada alla sua realizzazione, “inventare” la realtà di cui esso testimonia la possibilità, tracciare un percorso seguendo le sue spinte direzionali” (L. de Paula).
Nell’articolo di Giuseppe D’Acunto vengono messe a confronto le prospettive sul sogno di due tra i maggiori esponenti della fenomenologia: Sartre e Merleau-Ponty. A differenza di Sartre il quale, rimanendo ancorato a una “filosofia della coscienza”, considera il sogno una forma dell’immaginazione chiusa in se stessa senza alcuna relazione con la realtà percettiva, una “finzione che affascina” e che trascina l’Io in un mondo irreale e privo di libertà, la concezione di Merleau-Ponty, più vicina alle nostre posizioni, ritiene il sogno una “modalità dell’approccio percettivo” basata su una relazione globale e pre-personale con il mondo in cui la coscienza dormiente “gioca con i relitti del passato e del presente”. Fra reale e immaginario, fra percezione diurna e sogno, non esiste una cesura netta, si tratta di due modalità percettive che si sopravanzano, per cui possiamo parlare sia di “onirismo della veglia” che di “carattere quasi percettivo del sogno”: i nostri rapporti con gli altri e con le cose nello stato di veglia ci sono presenti come dei sogni. Il tempo del sogno ci permette di trascendere la distinzione tra passato e presente ed essere animati da un campo di esistenza che precede il nostro Io. Il sonno e il sogno – e in generale i fenomeni di passività – ci offrono l’opportunità di ripensare la coscienza andando oltre una sua concezione rigida e dogmatica, tipica della modernità, dalla quale né la fenomenologia di Husserl né quella di Sartre hanno saputo emanciparsi. Sul finire della sua vita Merleau-Ponty si rivolge al fenomeno artistico e sviluppa il concetto di veggenza (voyance) intesa come “ekstasi”, “apertura a …”, “svelamento” di proprietà dell’esperienza che possono essere colte solo attraverso l’“onirismo (sogno) del sensibile”. Immaginario, sogno, visione non sarebbero quindi l’opposto del reale (come per Sartre), ma ciò che ci permette di cogliere “la carne del mondo”, quella rete di relazioni e differenze fondanti che costituiscono “la struttura… invisibile del visibile”. L’arte, che non è questione di tecnica ma di capacità di visione, ci fa cogliere il modo in cui ci appare il mondo e rende possibile mettere in relazione ciò che altrimenti rimarrebbe segreto e forse per sempre muto in ognuno.
In continuità con il discorso fenomenologico-esistenziale – e certamente anche con quello junghiano – la Gestalt Therapy prende le distanze dall’oniromantica e dalla centralità dell’interpretazione in materia di sogno, riconoscendo al fenomeno onirico – come spiega Riccardo Zerbetto nel suo articolo – un valore autocurativo di per sé e una funzione poietica, cioè di “creazione autogena della coscienza”. Il sogno svolge il proprio lavoro integrativo, riparativo e anticipativo già a livello inconscio, lavoro che potrà essere eventualmente amplificato e reso più efficace e consapevole dall’analisi psicoterapeutica. Spesso è sufficiente il racconto del sogno, indipendentemente dalle competenze dell’interlocutore a cui è rivolto, per attivare nel sognatore la funzione riflessiva della coscienza e rispecchiare i contenuti inconsci di cui non è ancora consapevole. Come davanti ad una produzione artistica è prima di tutto importante “assorbire l’impatto sensoriale ed emozionale dell’opera, prima di tentarne una comprensione”, allo stesso modo, “di fronte alla autopoiesi onirica è fondamentale esporsi emozionalmente ai contenuti prima di operarne la analisi” (R. Zerbetto). Le produzioni oniriche devono essere prima di tutto accolte e contemplate e solo successivamente rese intellegibili attraverso gli schemi della logica concettuale.
Anche nella tradizione artistica e letteraria ritroviamo una concezione del sogno come produzione della mente con un valore a sé stante e un imprescindibile ruolo nella funzione creativa. Lo scritto di Olivier Douville affronta il complesso rapporto fra la corrente surrealista e la psicoanalisi freudiana. Pur riconoscendo il debito fondamentale del movimento surrealista nei confronti della teoria psicoanalitica, l’autore ne sottolinea le differenze anche per quanto riguarda il ruolo che il Surrealismo ha attribuito al sogno nel farsi dell’esperienza artistica. Nel Manifesto del Surrealismo (1924) André Breton rende omaggio alla scienza dei sogni di Freud e riconosce nel sogno il luogo privilegiato della vita psichica inconscia. Nello stesso tempo affranca l’esperienza onirica dalla sua appartenenza all’ambito dei sintomi, delle formazioni di com-promesso e degli atti mancati, per innalzarla “al rango di esperienza poetica a sé stante”. Il surrealismo non considera il sogno come qualcosa che guarisce o cura, ma come una riserva di immagini sovradeterminate che ha valore in quanto potenziale di rivelazione per colui che passivamente ne è visitato. Di conseguenza il sognatore non è più un soggetto psicologico alla ricerca dei propri desideri inconsci camuffati dalla censura, ma l’esploratore di un mondo surreale che è il cuore del-l’esperienza poetica.
In ambito psicoanalitico il dibattito sull’uso dei sogni in seduta e sulla centralità dell’interpretazione del contenuto latente continua a essere attuale. Il testo di Sergio Sabbatini, che ripercorre la concezione del sogno in Lacan, mostra l’irrinunciabilità dell’interpretazione del sogno nella clinica lacaniana e l’importanza del lavoro onirico che, con le sue capacità di trasformazione del reale pulsionale, rappresenta la vera essenza del sogno e la base della teoria del significante in Lacan. La funzione princi-pale del sogno è “mettere in scena, fornire del senso alla spinta pulsionale, attraverso il lavoro onirico”. Il sogno è esso stesso interpretazione (potremmo dire che si tratta di un primo livello semiotico): esso “non rinvia ad altre dimensioni” e anela a essere interpretato solo quando fallisce nella sua “funzione di regolazione pulsionale”. Nell’ultimo Lacan, sempre più orientato verso il reale, il fuori senso e il godimento fuori-simbolico, l’interpretazione classica, intesa come svelamento del senso del sin-tomo e del sogno, sembra perdere consistenza. Tuttavia, secondo Sabbatini, si tratta in realtà non di una rinuncia all’interpretazione, ma di una diversa pratica di essa, poiché nella cura analitica “resta imprescindibile partire dal significante e quindi dal sogno”. Anche per Maurizio Balsamo non tutti i sogni richiedono l’azione interpretativa dell’analista: infatti, quando la funzione di ristrutturazione psichica che il sogno è chiamato a svolgere funziona (regolazione dell’equilibrio pulsionale, riequilibrio dell’energia libidica, rapporto col sistema sonno-veglia), il sogno opera internamente e “si estingue nel suo farsi”; quando invece l’attività onirica fallisce nella sua funzione autoriparativa della psiche, allora è richiesto un “surplus di elaborazione” e il sogno va alla ricerca di un apparato elaborativo esterno, di un ascoltatore e di un interprete. È a questo punto che si produce il racconto del sogno (sogno manifesto), è il sogno che sogna se stesso, diventando di fatto “un sogno della veglia”. Il lavoro analitico opera come continuazione del lavoro del sogno, facilitando l’apertura a nuovi nessi associativi e la costruzione di nuove reti semantiche e affettive. L’analista con la sua “attività sognante”, una sorta di capacità “divinatoria”, rompe i consueti sistemi di rappresentazione e permette l’emergere di immagini normalmente escluse dalla ela-borazione. Cogliamo in queste considerazioni la funzione antropologica dell’oniro-manzia di traduzione del messaggio del sogno [33].
L’importanza del contenuto latente e della sua interpretazione tende a essere ridimensionata da una significativa parte della psicoanalisi contemporanea. S. Bolognini (2000) [34] ritiene che non occorra tanto lavorare sui sogni ricercandone come detective il significato latente, quanto piuttosto lavorare con i sogni per aiutare il paziente ad ampliare le proprie capacità simboliche. D. Lopez e L. Zorzi (2012) sostengono che il contenuto manifesto, in quanto espressione del preconscio, è il sogno stesso e lavorare sul contenuto manifesto, amplificando ed elucidando i significati trasmessi dalle immagini del sogno, è più importante che interpretare il contenuto latente. Ritroviamo in queste considerazioni gli echi degli studi di Jung sul sogno che nel 1924 scriveva “I sogni […] non ingannano, non mentono, non falsificano, non nascondono nulla, ma enunciano ingenuamente ciò che essi sono e ciò che essi intendono”. Per Jung nel racconto del sogno tutto è già detto ed è la coscienza che si mostra incapace di comprendere il problema che il sogno esprime. Non si tratta di arrivare “dietro” al testo del sogno, ma di imparare a leggerlo attraverso il metodo dell’amplificazione, mediante associazione e per analogia.
La funzione del sogno non si esaurisce in relazione all’individuo; il sogno esplica anche una funzione di comunicazione sociale. Gli studi antropologici mostrano che in alcune culture tribali i sogni erano raccontati e discussi in riunioni collettive facilitando le relazioni e l’interdipendenza tra i membri del gruppo. Edith Campi, riprendendo gli studi di Georges Devereux sugli indiani delle pianure [35], ci parla di come gli indiani Mohave utilizzino il sogno per integrare nella propria cultura elementi ad essa estranei, per cui è possibile affermare con Devereux che “gli indiani Mohave interpretano la loro cultura in termini di sogni, piuttosto che i sogni in termini di cultura”. In culture anche molto vicine alle nostre, per esempio nei cantoni svizzeri, si può ritrovare un uso sociale dei sogni come strumento di comunicazione tra la comunità e le anime dei defunti. I sogni permettono ai vivi di comprendere cosa non è stato portato a termine dai morti e cosa deve essere fatto per ristabilire un ordine. Si possono anche riscontrare usi contemporanei dei fenomeni onirici (G. Charuty) come “operatori politici di reinvenzione dell’identità etnica”. Ne sono un esempio gli indiani Zapara dell’alta Amazzonia che utilizzano antiche pratiche oniriche dello sciamanismo per sostenere le lotte dei movimenti identitari. Tendenzialmente, afferma G. Charuty, c’è un forte contrasto tra le società dette “a sogno”, che praticano una forte socializzazione dell’onirico, e le società europee caratterizzate da una forte privatizzazione dell’esperienza onirica. Ma anche nelle società europee possiamo trovare delle eccezioni: ad esempio la funzione sociale della “sognatrice”, una competenza femminile trasmessa tra generazioni e appresa nella famiglia, o l’uso del sogno sociale nell’isola di Lesbo, o la socializzazione dei sogni come modalità per introdurre nuovi valori culturali nella Francia di fine ottocento, attraverso gli Archivi dei sogni di C. Flammarion, e nelle sperimentazioni artistiche e depsicologizzanti di Manuel Salvat di questi ultimi anni (G. Charuty). La raccolta di centinaia di sogni effettuata dalla storica Charlotte Beradt in Germania tra il 1933 e il 1939, e pubblicata nel 1968 [36], fornisce interessanti indicazioni sul ruolo del sogno nel suo rapporto con la storia e sulla capacità che il sogno ha di “registrare gli effetti storici nell’intimità degli individui”[37].
Dobbiamo in gran parte al testo della Beradt la scoperta che Gordon Lawrence, psicoanalista del Tavistock Institute, fece attorno agli anni ‘80 di quel metodo di la-voro denominato Social Dreaming [38]. Lawrence partendo da esperienze di racconti di sogni in contesti di gruppo e sollecitato da letture e contatti con società che adottano differenti prospettive e concezioni del sogno, iniziò a sviluppare l’idea che po-tesse esserci tra sogno e sognatore un tipo di rapporto diverso da quello esplorato dalla psicoanalisi. I sogni sembrava potessero non solo mettere in relazione aspetti diversi del sé, ma anche dare voce a relazioni tra se stessi e un altro. Il libro di Charlotte Beradt fornì a Lawrence l’anello che mancava alla sua teorizzazione. Se i sogni potevano funzionare come espressioni, ripetizioni e previsioni di realtà sociali e politiche allora poteva esserci un modo per utilizzarli in maniera mirata in contesti di gruppo. In un articolo introduttivo al “Social Dreaming” [39] Claudio Neri tratta di al-cune esperienze di analisi sociale dei sogni tenute in varie città del mondo. Egli osserva che le concezioni di alcuni psicoanalisti – F. Riolo, F. Corrao, D. Vallino, M. Macciò, A. Ferro, A. Correale – i quali ritengono che i sogni possano fornire informazioni significative sulle paure, speranze, ideali presenti nell’ambiente sociale in cui vive la persona che sogna, non siano molto distanti dalla prospettiva del Social Dreaming, che considera i sogni “non solo come un’espressione di desideri e fantasie, ma anche come una ‘speciale rappresentazione’ del punto di vista di un individuo circa la comunità in cui vive e le organizzazioni a cui appartiene”.
Non possiamo infine trascurare l’importanza che il sogno e le sue interpretazioni psicoanalitiche hanno per l’arte cinematografica. Nella sua “Onirocinenautica” Amedeo Caruso compie una navigazione attraverso le rappresentazioni del mondo onirico nel cinema. L’autore affronta il sogno in quanto contenuto dell’opera cinematografica, mostrando come, fin dall’opera archetipica del 1926 “I misteri di un’anima” di G. W Pabst, il cinema si sia sempre interessato all’esperienza onirica. Moltissimi sono i registi che hanno raccontato nelle loro opere la dimensione del sogno, da Buster Keaton a Stanlio e Olio, da Fritz Lang a Bergman, da Buñuel a Coppola, da Kurosawa, ad Almodovar e Nolan. Senza dimenticare il cinema di Federico Fellini, per il quale l’onirico rappresenta la materia prima dell’esperienza artistica – come testimonia anche il suo Libro dei sogni recentemente pubblicato [40]. Cinema come fabbrica di sogni non solo sul piano del contenuto, ma anche e soprattutto sul piano della forma, in quanto il dispositivo cinematografico porta le tracce dei meccanismi e delle con-figurazioni fondamentali che nell’individuo caratterizzano il lavoro onirico [41]. La sala cinematografica può essere accostata a quell’insieme di spazi che Laplanche e Pontalis (1968) chiamano dereali e che, come il tempio, il teatro, la camera e il gabinetto, si sottraggono alle leggi della realtà permettendo al desiderio di mettersi in gioco in tutta la sua ambivalenza. Il cinema si basa su un gioco di sostituzioni e trasformazioni a partire dallo schermo bianco su cui il film è proiettato, schermo che richiama il dream screen di B. D. Lewin, che A. Peduto riprende nel suo articolo. Lo schermo bianco del sogno, che per Lewin si costituisce a partire dalla capacità del bambino di allucinare il seno materno dopo la poppata e di investirlo libidicamente, è lo sfondo necessario e invisibile su cui le correnti che risalgono dalle “cave profondità del corpo” e gli echi del “brulichio della veglia” possono essere proiettati rendendo possibile il fenomeno onirico (A. Peduto). In questo senso il cinema può rappresentare una forma di sogno collettivo dove il processo interiore dello spettatore è intrecciato con quello indicato dal dispositivo cinematografico e l’immaginario collettivo è plasmato dai molteplici livelli che costituiscono questo dispositivo: artistico, architettonico (dislocazione e concentrazione delle sale cinematografiche), economico (l’industria cinematografica e i suoi meccanismi), sociale (uso e funzioni del cinema) e politico (strumento di controllo e induzione di consenso) [42].
I contributi proposti dagli autori e le argomentazioni di cui abbiamo inteso dare ragione in questa introduzione mostrano che il sogno, come ogni produzione umana, si presta a essere piegato e utilizzato in funzione del contesto in cui si manifesta e dei limiti di tollerabilità della coscienza, senza tuttavia perdere la sua funzione di verità. Tale funzione non riguarda solo l’individuo, di cui svela desideri, attese ed esperienze altrimenti inaccessibili, ma anche l’insieme sociale, il collettivo, attraverso il racconto di storie di cui non si dovrebbe parlare (violenze, pensieri, tabù). Il sogno è indubbiamente, in questo senso, uno strumento di conoscenza con una sua validità epistemologica, da affiancare ad altre forme di conoscenza (come quella rivolta all’oggetto e alla sua misura) che rischiano in questa epoca di saturare indebitamente la nostra capacità di accedere alla realtà.

Note

1 L’intento del seminario (9 incontri all’anno) è stato di recuperare il fenomeno onirico e ripensarlo nei suoi rapporti con l’inconscio e il preconscio, con la clinica, con i processi di pensiero e con la creatività. A partire da un’attenta lettura e discussione della Traumdeutung, abbiamo poi approfondito il punto di vista di autori postfreudiani (Binswanger, Jung, Winnicott, Bion e Mancia) che hanno formulato sul sogno teorie significative, alcuni collocandosi nel solco della teoria freudiana, altri allontanandosene per fondare differenti sviluppi teorici (cfr. www.officinamentis.com).

2 Sui rapporti tra antropologia e psicoanalisi cfr. R. Benedice, B. Pulman, E. Roudinesco (2005), Etnopsicoanalisi (Bollati Boringhieri, Torino) e A. Colombazzi (2006), Figure del dialogo tra antropologia e psicoanalisi (Borla, Roma).

3 Devereux, G. (1970), Saggi di etnopsichiatria generale, Armando, Roma, 1978.

4 Introduzione di Carlo Severi a Devereux, G. (1984), Dall’angoscia al metodo nelle scienze del comportamento, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana.

5 Afferma Piero Coppo (Le ragioni degli altri, Raffaello Cortina, Milano, 2013, p. 22): “Noi siamo etnici proprio come tutti gli altri”. La questione qui posta riguarda la matrice storica e culturale di ogni teoria di riferimento da cui discende che anche la psichiatria e la psicoanalisi non possono essere considerate espressione di una verità universale, ma uno tra i tanti sistemi di guarigione di cui le società si sono dotate per dare risposte al disordine e alla sofferenza, e che acquista la sua validità in relazione a determinate concezioni dell’essere umano, della malattia e della cura (cfr. Lévi-Strauss, C., 1958, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano; De Martino, E., 1948, Il mondo magico, Bollati Boringhieri, Torino, 1973; De Martino, E., 1977, La fine del mondo. Contributo alla analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino; Nathan, G, 1993, Principi d’etnopsicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino, 1996; Nathan, T., 1994, L’influence qui guérit, Odile Jacob, Paris).

6 La dialettica mito/rito fonda la “distinzione tra umano/non umano, sé/altri, natura/cultura, caos/or-dine… Il tempo del mito, attraverso la riattualizzazione nel rito, costituisce un fondamentale processo dell’identità umana”, in Colombazzi, A. (2006), Figure del dialogo tra antropologia e psicoanalisi, Borla, Roma, p. 27.


7 Corrao, F. (1992) Modelli psicoanalitici. Mito, passione, memoria, Laterza, Roma-Bari, p. 28


8 Aulagnier, P. (1975), La violenza dell’interpretazione. Dal pittogramma all’enunciato, Roma, Borla, 2005.

9 Cecconi, A. (2012), I sogni vengono da fuori. Esplorazioni sulla notte nelle Ande Peruviane, Firenze, Ed. IT, p. 17.

10 La ricerca è stata svolta in particolare nel paese di Ayacucho, sulle Ande sud-centrali del Perù a circa 10 ore di autobus da Lima. Si tratta di luoghi segnati da una lunga storia di violenza iniziata nel XVI secolo con la pesante risposta repressiva dei colonizzatori nei confronti del movimento di liberazione indigeno Taki Ongoy, proseguito con la battaglia per l’indipendenza (1824) durante la quale l’esercito di Bolivar e Sucre sconfisse l’esercito spagnolo, e conclusasi con la guerra civile degli anni ‘80 e ‘90 tra il movimento Sendero Luminoso, compromesso con i narcotrafficanti, e le forze governative.

11 L’etnopsichiatria – termine coniato intorno alla prima metà del Novecento da Louis Mars ad Haiti e ripreso poi da alcuni autori della scuola di Dakar-Fann (in Senegal) e da psichiatri coloniali come W. Carothers (che lavorò in Kenia negli anni ‘50) – viene definita in termini moderni e rigorosamente articolati dallo psicoanalista e antropologo Georges Devereux (1970), Saggi di etnopsichiatria generale, Armando, Roma, 1978. È comunque difficile, come sostiene R. Beneduce, “delimitare l’etnopsichiatria nei confronti dell’etnopsicoanalisi o della psichiatria transculturale, considerato l’uso spesso flessibile di questi termini da parte dei diversi autori. Vi si può riconoscere, quale che sia la prospettiva adottata, l’interesse per l’esplorazione sistematica del rapporto fra cultura e psichismo e di quello fra contesto socioculturale, malattia mentale e cura” (in Breve dizionario di etnopsichiatria, Carocci, Roma, 2008). Gabriele Profita (in Coglitore, R., Mazzara, F., a cura di, 2004, Dizionario degli studi culturali, Meltemi, Roma) definisce l’etnopsicologia come “un aggregato disciplinare che, a vario titolo, studia la dimensione psicologico-culturale di popolazioni di culture altre da quella che suole definirsi occidentale e inoltre interviene su di essa con dispositivi terapeutici adeguati”. Già in questa formulazione si incontra una difficoltà rappresentata proprio dall’uso del termine psicologico, che costituisce un costrutto teorico appartenente alla nostra cultura, ma non a quelle delle altre popolazioni studiate. Ciò che Freud designava come apparato psichico, e che la cultura occidentale ha chiamato psiche, rappresenta un particolare modo di vedere e definire la realtà che non trova riscontro in altre culture. In particolare ciò che il concetto di psiche aiuta a distinguere è l’interno dall’esterno, ciò che appartiene alla realtà da quanto ascrivibile al cosiddetto mondo interno. In altre culture, le nostre distinzioni tra mente e corpo, interno ed esterno, mondo reale e mondo dell’al di là, non hanno spesso luogo o fanno riferimento ad altre visioni del mondo, non facilmente assimilabili alla nostra. In ogni caso siamo costretti a muoverci sempre con i nostri sistemi rappresentazionali per cercare di comprendere come altre culture organizzino il proprio mondo. Per tante ragioni l’attività di ricerca rischia di essere allora di traduzione piuttosto che di interpretazione, con i conseguenti problemi che la teoria della traduzione sottolinea. Lo sforzo dell’etnopsicologia è costituito preliminarmente dalla possibilità di ovviare parzialmente, mediante riflessibilità, ai limiti del proprio modo di organizzare e costruire il mondo (Despret, V., 2001, Le emozioni. Etnopsicologia dell’autenticità, Elèuthera, Milano, 2002). Non si tratta cioè di guardare soltanto gli altri, ma di guardarsi come altri. Per approfondire l’argomento vedi: De Martino, E. (1977), La fine del mondo. Contributo alla analisi delle apocalissi culturali, cit.; Kakar, S. (1993), Sciamani, mistici e dottori, Pratiche, Parma; Nathan, T. (1993), Principi d’etnopsicoanalisi, cit.; Coppo, P. (1996), Etnopsichiatria, Il Saggiatore, Milano.

12 Cfr Moro, M. R., De La Noe, Q., Mouchenik, T., Baubet, T. (2009), Manuale di psichiatria transculturale. Dalla clinica alla società, Franco Angeli, Milano.

13 Benslama, F. (1996), “L’illusion ethnopsychiatrique”, Le Monde du 4 décembre; 1999, "Épreuves de l’étranger", in J. Ménéchal ed., Le risque de l’étranger. Soin psychique et politique. Paris, Dunod; Rechtman, R. (1995), “De l’ethnopsychiatrie à l’a-psychiatrie culturelle”, in L’évolution psychiatrique, 60, 3, 637-649; Roudinesco, E.(1999), “Je plaide pour la liberté de ne pas être toujours ramené à mes racines”, in Politis, 577, 2 décembre 1999, 20-23; Fassin, D. (1999), “L’ethnopsychiatrie et ses réseaux. L’influence qui grandit”, in Genèses, 35, juin 1999, 146-171; Fassin, D. (2000), “Les politiques de l’ethnopsychiatrie. La psyché africaine, des colonies britanniques aux banlieues parisiennes”, L’homme, 153, 231-250.

14 Nathan,T. (2000), “Psychothérapie et politique. Les enjeux théoriques, institutionnels et politiques de l’ethnopsychiatrie”, in Genèses, sciences sociales et histoire, 38, pp. 136-159.

15 Stenger, I. (2003), "l laboratorio di etnopsichiatria", in T. Nathan, Non siamo soli al mondo, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 7-41.

16 “Il concetto di leva culturale – chiarisce R. Beneduce – originariamente proposto da G. Devereux e ripreso più volte da T. Nathan, intendeva sottolineare come l’appartenenza culturale dovesse essere esplorata e dissodata allo scopo di reperirvi quegli elementi fondamentali senza i quali non sarebbe stato possibile un atto interpretativo o un intervento terapeutico efficace” in Beneduce, R. (2007), Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra storia, dominio e cultura, Carocci,. Roma, p. 269).

17 Per un’analisi della definizione di credenza e sul suo uso nello spazio della cura vedi S. Taliani e F. Vacchiano 2006: 122 segg.

18 Cfr. Crapanzano,V. (1995), Tuhami, ritratto di un marocchino, Meltemi, Roma (ed. or. 1980).

19 Beneduce, R. (2007), Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra storia, dominio e cultura, cit., p. 272.

20 Nathan, T. (1985), “Aménagements techniques de la psychanalyse en fonction de l’appartenance culturelle”, in Psichiatria e Psicoterapia Analitica, IV, 2, p. 81.

21 Beneduce, R. (2007), Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra storia, dominio e cultura, cit., p. 273

22 Devereux, G. (1984), Dall’angoscia al metodo nelle scienze del comportamento, cit.

23 Kirmayer, L. J. (1995) “Version of intercultural, Therapy”, in Transcultural Psychiatric Research Review, 32.

24 Victor Turner (1969, Il processo rituale. Struttura e anti-struttura, Morcelliana, Brescia, 1972), riprendendo la concezione originaria di A. Van Gennep (1909, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino, 2002), considera pressoché tutti i tipi di rituali strutturati secondo la forma processuale del passaggio, un pro-cesso che comprende tre fasi. La prima, di separazione, consiste nel delimitare lo spazio e il tempo sacri dallo spazio e dal tempo profani. La seconda fase di transizione è chiamata anche margine o limen. In essa i soggetti attraversano un periodo e una zona di ambiguità, una sorta di limbo socioculturale, in cui si gioca con i simboli culturali e li si ricompone secondo modalità inedite. L’aggregazione, infine, com-prende fenomeni e azioni simbolici che rappresentano il raggiungimento da parte dei soggetti della loro nuova posizione, relativamente stabile e ben definita, nel complesso della società.
Lo spazio liminale è potenzialmente libero e sperimentale, in esso possono essere introdotti non solo nuovi elementi culturali, ma anche nuove regole combinatorie. Ciò che traspare nella riflessione di Turner è l’idea che la liminalità rappresenti un’esperienza necessaria per l’individuo e per il gruppo sociale, dal più piccolo al più grande e complesso.

25 Arianna Cecconi sottolinea che la separazione elaborata nel contesto occidentale tra il sogno come esperienza ‘interna’ e soggettiva, e lo stato di veglia come esperienza ‘esterna’ oggettiva (intesa come l’unica forma di realtà riconosciuta collettivamente) veniva considerata dai primi antropologi come un assunto ovvio e a priori. Di conseguenza tutte quelle società che non riconoscevano questa separazione venivano col-locate in uno stadio “primitivo” dell’umanità. “Solo nel corso del tempo gli antropologi si sono accorti che quella categoria di realtà fino ad allora considerata ‘un concetto tranquillamente posseduto dalla mente, al riparo da ogni aporia’ (De Martino, E., 1948, Il mondo magico, cit.) non potesse essere considerata come un ovvio presupposto. Si accorsero che quel solido terreno su cui credevano di camminare aveva la consistenza delle sabbie mobili…”, in Cecconi, A. (2012), I sogni vengono da fuori. Esplorazioni sulla notte nelle Ande Peruviane, Firenze, Ed. IT, p. 16.

26 Bion, W. (2011), Cogitations. Pensieri, Armando Editore, Roma, p. 62

27 Interessante è la definizione che M. Balsamo dà del termine “storico” per la psiche. Secondo l’autore questo termine si riferisce non solo a ciò che è accaduto nel passato, ma anche a “ciò che non è accaduto”, “ciò che sarebbe potuto accadere”, “ciò che è accaduto a qualcun altro, ma non al paziente”,”ciò che non sarebbe potuto accadere”.

28 La folla dei metaxù: fantasmi, demoni, antenati, spiriti e animali guida, dei, figure oniriche, ecc.

29 Per Carl Gustav Jung il concetto di anima ha il significato di un “determinato e circoscritto complesso di funzioni”, un “atteggiamento interiore» che consente a un individuo di mettersi in relazione con il proprio mondo interiore e in particolare con l’inconscio. Questo atteggiamento interiore si esprime attraverso figure (immagini dell’anima) relative a «personaggi di carattere collettivo che compaiono nell’immaginario del soggetto e quindi nei suoi sogni o nell’immaginazione attiva: tali personaggi possono essere conosciuti oppure sconosciuti, tratti dalla vita quotidiana oppure dalla mitologia, comunque, laddove compaiono, risultano sempre carichi di affettività” (Pieri, P. F., 1998, Dizionario junghiano, Bollati Boringhieri, Torino).

30 Possiamo trovare riflessioni analoghe in D. Lopez e L. Zorzi Meneguzzo (La sapienza del sogno, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2012), dove i due autori considerano il fenomeno onirico come un particolare stato di coscienza, caratteristico del funzionamento preconscio e diverso da quello della coscienza razionale, che può realizzarsi sia nello stato di addormentamento che di veglia. Lo stato sognante svolgerebbe una funzione mediatrice tra preconscio e conscio, tra interno ed esterno, e in generale tra i diversi sistemi della mente. I sogni notturni possono essere considerati non soltanto manifestazioni di ostacoli che si frappongono alla realizzazione dei desideri, ma compensazioni di un deficit di sogno nella veglia, cioè di una incapacità di sognare dovuta a una coscienza ipercritica, autoaccusatoria e imperialistica (ivi, p. 352). Perché il sogno svolga la sua funzione di mediazione è necessario che il sé sognante perda le sue qualità logiche e razionali e le categorie spazio-temporali, per diventare “ingenuo, vago, errante, stupido e disinibito” permettendo l’assimilazione nella coscienza del sapere preconscio e un livello di integrazione superiore (consapevolezza) rispetto alla coscienza logico-razionale.

31 G. Civitarese (Il sogno necessario, Franco Angeli, Milano, 2013) sostiene che il sogno nell’istante in cui si produce (sogno manifesto) ha già senso. La funzione del sogno risiederebbe in primo luogo nella sua capacità trasformativa e integrativa di materiali altrimenti “indigeribili”, ma anche nella capacità di creare uno scudo di significati che ci riparino da verità che ferirebbero la vista e risulterebbero intollerabili dalla mente. La psicoanalista Silvia Corbella distingue altresì una concezione del sogno (che dunque ipervaluta i contenuti latenti inconsci), come semplice strumento di espressione di desideri e guardiano del sonno da una concezione in cui il sogno è prima di tutto una forma specifica di esperienza, una potenzialità della mente umana, in grado di mediare tra preconscio e coscienza) e di trasformare blocchi libidici in esperienze vissute. Queste due concezioni del sogno, secondo la Corbella, andrebbero integrate.

32 Le interpretazioni psicoanalitiche non sono secondo l’antropofenomenologia di per sé errate, ma rappresentano aspetti particolari di una comprensione più ampia.

33 In un recente libro (Una nuova interpretazione dei sogni, Raffaello Cortina, Milano, 2011) T. Nathan sostiene la funzione irrinunciabile dell’oniromante di cui fin dall’antichità le comunità umane sono state consapevoli. Secondo l’autore un sogno per portare a termine il suo compito deve essere interpretato, perché è attraverso le parole dell’interprete che il sogno si realizza. L’interpretazione è sempre una predizione che si proietta nel futuro, lo progetta e lo crea. Ma l’interpretazione non può essere svolta dallo stesso autore del sogno il quale produrrebbe soltanto un nuovo sogno, che a maggior ragione richiederebbe l’intervento di un interprete. L’interprete è l’ostetrico del sogno.

34 Bolognini, S. (2000), “Lavoro del sogno, lavoro con il sogno”, in Il sogno cent’anni dopo, a cura di S. Bolognini, Bollati Boringhieri, Torino.

35 Cfr. il recente film di Arnaud Desplechin, Psicoterapia di un Indiano delle pianure, con Benicio Del Toro e Mathieu Amalric.

36 Beradt, C. (1968), Il terzo Reich dei sogni, Torino, Einaudi, 1991.

37 A tale proposito Arianna Cecconi, in una intervista a cura di A. Staid pubblicata sul Fatto Quotidiano del 20/10/2012 – dichiara “I sogni sono sismografi in cui si registrano gli effetti storici nell’intimità degli individui Questo l’aveva detto una grandissima storica, Charlotte Beradt che, durante il Terzo Reich, raccolse i sogni che facevano le persone in Germania come documenti storici che mostravano i terribili effetti repressivi del regime anche sulla dimensione onirica. Ma a parte questo lavoro di Beradt, la categoria della storia è quasi sempre circoscritta alla vita diurna, come se la storia riguardasse soltanto quello che accade nelle società di giorno. Sulle montagne andine invece quando i comuneros mi raccontavano episodi accaduti nel loro villaggio, per esempio durante gli anni della guerra, spesso ricorrevano anche a narrazioni di sogni che avevano preceduto quegli eventi o che erano arrivati durante o in seguito. I comuneros consideravano i sogni di quegli anni come un complemento necessario per ricostruire e narrare la storia della guerra. I comuneros sembravano del tutto consapevoli di quello che aveva sostenuto la storica Beradt. Anche i sogni fanno parte della storia. I sogni vengono raccontati non solo in famiglia, ma anche in contesti collettivi, e la storia si ricostruisce e tramanda anche attraverso le narrazioni di sogni”.

38 Lawrence W. G. (a cura di) (1998), Social Dreaming. La funzione sociale del sogno, Roma, Borla, 2010.

39 Neri, C. (2002), “Introduzione al Social Dreaming. Relazione sui workshops tenuti a Mauriburg, Raissa e Clarice Tawn”, in Rivista di Psicoanalisi, XLVIII, 1, pp. 93-114.

40 Fellini, F., Il libro dei sogni, Rizzoli, Milano, 2008

41 Costa, A. (1977), “Il testo e il suo spazio”, in Cinema e Cinema. Materiali di studio e di intervento cinematografici, anno 4, n.13, Marsilio, Venezia, p. 45.

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