Che cosa può la letteratura quando non può?

Patrick Chamoiseau
Discorso di Strasburgo, aprile 2024
Strasburgo
Samuel Bak, The family, 1974

Che cosa può la letteratura quando non può?

Que peut la littérature quand elle ne peut?

Patrick Chamoiseau*

Discorso di Strasburgo, aprile 2024

Se oggi dovessimo interrogare le letterature nel loro rapporto col mondo, dunque con ciascun essere vivente, sarebbe indecente parlare d’altro che di Gaza. Sarebbe altrettanto vergognoso non evocare l’irriducibile integrità dell’Ucraina quanto alla salute dell’Europa e del mondo che dobbiamo immaginare …

Parlerò dunque delle letterature, ma in presenza dei palestinesi di Gaza e di Cisgiordania e di tutte le rive del loro esilio. Accanto a loro, resi alla loro terra, costituiti in Stato, sono partigiano di una nazione Israele che, con i suoi morti e le sue sofferenze e in nome della sua stessa memoria, e dunque più di ogni altra nazione, s’inscriverebbe nella legittimità giuridica mondiale e nella mannaia delle sue sanzioni; e si mostrerebbe preoccupata degli altri popoli, del rispetto della vita e della dignità; e fonderebbe la sua necessaria sicurezza su forme di vivere-insieme inedite, complesse, da attuare in quest’altro mondo che dobbiamo desiderare.

Ma sarebbe inammissibile non invitare qui, in quest’arca offerta alle letterature, i Tibetani e gli Uiguri di Cina, i Rohingya di Birmania, i Tutsi del Burundi e dal Rwanda, i Curdi di Siria, Irak, Turchia, i Popoli originari delle Americhe e dei loro arcipelaghi … tutti quanti sofferenti, in pericolo, e tanti altri.

Haitiani abbandonati, Siriani dimenticati, Libanesi lasciati soli, musulmani stigmatizzati, Africani sfruttati, Canachi ancora derubati, Maoresi trascinati in una morbosa finzione, Antillani e Guianesi soffocati nel forno di un «oltremare» francese le cui vestigia coloniali disonorano la vecchia Repubblica ... Le forze progressiste dell'Esagono trovano normale che la Francia possieda ancora degli «oltremari»; ammettono così che popoli-nazione differenti siano negati nelle loro singolarità e ridotti in questo modo a non esercitare nella materia del mondo le loro preziose differenze. Li nomino uno ad uno, li chiamo tutti, per quello che sono, qui, laggiù, con me, tra noi!

E, poiché ci occupiamo delle letterature, sarebbe indecente davanti a voi, in questa città diventata capitale del sensibile, non ospitare i divenire che reclamano un mondo che abbiamo il dovere di immaginare; parlo dei divenire – ostacolati - della situazione-nera, della situazione-donna, della situazione-LGBT con le sue fluidità, delle minoranze, delle minorazioni, che noi, ciascuno di noi, ha il compito di emancipare verso l’aurora dei divenire del mondo, verso l’in-comune dei nostri divenire-mondo. Portare a compimento, nel modo più alto possibile, questi divenire è un’urgenza comune, un Noi molto ampio che noi artisti della parola, servitori del linguaggio, dobbiamo sostenere con gli slanci estetici più grandi.

Infine, poiché siamo in Europa, così vicini a quel cimitero che è diventato il Mediterraneo – e che per me si lega a quell’altro cimitero, l’Atlantico, cimitero dimenticato che ancora ricorda le lunghe scie della tratta dei negri – sarebbe indecente non convocare un vasto desiderio-immaginante del mondo, del mondo che è necessario creare, aperto, mobile, un mondo relazionale verso il quale dobbiamo tutti incamminarci, come quegli uomini, quelle donne, quei bambini che, giorno dopo giorno, annegano nella vergogna della vostra indifferenza, si fracassano contro le vostre frontiere, si schiacciano sui vostri muri, sfidando il vostro filo spinato, compitando gli alfabeti dell’obbrobrio, dell’offesa, della morte, dentro acque improvvisamente barbariche, su sponde che non diremmo civilizzate e che pure dettano le leggi della coscienza comune. Il Mediterraneo è un immenso sepolcro. Si muore, si lascia morire, si guarda morire, si tollera un oceano di degradazione imposto a uomini, donne, bambini, e in cui si sguazza ovunque ci si trovi, ovunque si vada. Nulla del nostro attuale livello di coscienza, delle nostre connessioni demoltiplicate o delle nostre trascendenze riguardanti le questioni dell’Uomo arriva ad opporvisi. Questi migranti ci fissano e ci comandano un altro mondo che nessuno potrebbe rifiutare. 

Ormai l’immaginario capitalista accomuna sotto lo stesso disegno le vecchie potenze antagoniste. La sua intenzione sovrana governa da sola le nostre esistenze, il nostro mondo, il pianeta. L’abbiamo tutti interiorizzata, tanto da consentire ai suoi orrori e alle loro onde di choc. Sotto la sua regia il pianeta reificato, il vivente danneggiato crollano in disgregazioni ecosistemiche che faranno deragliare le nostre basi esistenziali. L’ignoto s’impone in una lenta catastrofe e disegna una possibile sparizione della nostra specie. 

Ovunque, da ciò che è profondo a ciò che abbiamo intorno, accettiamo l’inaccettabile, fino a inscriverlo tra le banalità. Eppure gli esperti e gli studi non mancano. Una legione di discorsi dotti, voli razionali, rapporti numerici, previsioni scientifiche, dimostrazioni storiche, congegni sociologici: ma di fatto tutti, col passare del tempo, non hanno effetto sull’inumano che, senza placarsi, si adatta, stritola ancora di più e si impianta per durare, in noi, attorno a noi. Il Mediterraneo, l’Atlantico, sono voragini simboliche che aprono la strada all’instancabile proliferazione del crimine. Gaza è già una voragine aperta nella coscienza occidentale. L’Ucraina ne è potenzialmente un’altra. L’opzione dell’arma nucleare si riattiva, sopra un abisso offerto alla nostra follia. Gli equilibri del vivente sprofondano in un buco nero sotto l’impatto di convergenze malate. Trump, Erdogan, Meloni, Le Pen, Bardella, Netanyahu, Orban, Putin, Modi, Bolsonaro … fioriscono tra le prime rovine … creature avvilenti che sorgono da un oscurantismo planetario … incapaci di pensare un altro mondo possibile, di innescare un qualche avvenire. E poiché non esibiscono che abiti smessi del passato, i loro trionfi sono un insulto al nostro divenire.

La nostra coscienza ci rende tutti responsabili. Noi sappiamo. Vediamo. Sentiamo. Osserviamo. Siamo responsabili di ciò che facciamo come di ciò che non facciamo. Ogni gesto conta, ogni assenza pesa, ogni fallimento minaccia un equilibrio salvifico: è questa la grandezza, la miseria e la sfida del principio di democrazia, ormai in pericolo. Non possiamo più delegare nulla di essenziale: la responsabilità è diffusa, in ogni momento, in ogni secondo. Ognuno risponde della qualità del secondo che passa. Tuttavia, questa qualità non è irraggiungibile: ovunque, nelle città, nei deserti e nelle montagne, nelle albe e nelle nevi, sulle rive del Mediterraneo, a Gaza, in Ucraina, in Russia, ad Haiti, in Africa, in Cina, in India, nelle Americhe o nei Caraibi, in ogni terra, in ogni guerra, in ogni crollo, ci sono persone, non eroi da fiera, creature mediatiche o filosofi utili al nostro consumo, ma persone comuni, organismi, associazioni il cui blasone e i cui mezzi vengono dalla passione,  che agiscono, contraddicono le leggi, sfidano tribunali servili e sbarre di prigione.

Che rifiutano.

E, così facendo, ci insegnano il nostro dovere e la grazia di ciò che può l'etica. Persone che non rinunciano a un'idea esigente di sé e che vanno incontro a chi soffre come se si mettessero in ginocchio davanti a qualcosa di sacro. Al di sotto delle rinunce ufficiali, il possibile, la passione anonima, persistono come materia ultima. L’imprevedibile, il non misurabile che sta al di là dell'intelligibile e del sensibile, emerge, scintilla. Rimane. Un improbabile di ciò che ci rende umani persiste sulla scena come polline di lucciole ancora indecifrabili.

In un'epoca in cui l'orrore può sedersi a tavola - quando l'indecenza fiorisce nella virtù economica, quando il bisogno del simbolico, il vigore spirituale, il gioco dello spirito creativo, sono spodestati dai fasti materiali, quando mostruosità populiste divenute eleggibili si impadroniscono degli Stati, quando gli Stati stessi, ridotti al dogma del mercato, non hanno altri mezzi che il razzismo, la xenofobia, la vecchia furia territoriale e le nostalgie imperialiste per darsi l'illusione di un'azione politica - nulla della nostra attuale capacità di coscienza, delle nostre connessioni moltiplicate o delle nostre trascendenze può opporsi seriamente a questo.

È questa chiusura che va messa in discussione.

L’Arte può qualche cosa.

Le letterature, dunque ….

(Trad. di Angela Peduto)

* Nel solco della tradizione letteraria propria delle Antille francofone (da A. Césaire a É. Glissant), Patrick Chamoiseau ha scritto numerose opere narrative e saggistiche i cui temi dominanti sono la definizione della cultura antillana e la rivendicazione della sua dignità nei confronti della cultura dei colonizzatori. Con Texaco è stato vincitore, nel 1992, del prestigioso premio Goncourt.

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