INUTILITA’ DELLA POESIA

Angela Peduto
08 febbraio 2018
Bologna

Come vivere senza ignoto dinanzi?
Gli uomini d’oggi vogliono che il poema sia a immagine della loro vita, fatta di così poco rispetto, di così poco spazio, e bruciata d’intolleranza.
Perché non è loro più lecito agire supremamente, nella preoccupazione fatale di distruggersi distruggendo il prossimo, perché la loro inerte ricchezza li frena e li incatena, gli uomini d’oggi, affievolitosi l’istinto, perdono, pur conservandosi vivi, persino la polvere del proprio nome.

Nato dal richiamo del divenire e dall’angoscia della ritenzione, il poema, sorgendo dal suo pozzo di fango e di stelle, testimonierà, pressoché in silenzio, che nulla era in lui che già non fosse esistito realmente altrove, in questo ribelle e solitario mondo delle contraddizioni. (René Char, 1946)

Una poesia cresce insicuramente
nella confusione della carne.
Sale ancora senza parole, solo ferocia e gusto,
forse come sangue
o ombra di sangue per i canali dell’essere.
Fuori esiste il mondo. Fuori, la splendida violenza
o gli acini d’uva da cui nascono
le minuscole radici del sole.
Fuori, i corpi genuini e inalterabili
del nostro amore,
i fiumi, la grande pace esteriore delle cose, le foglie che dormono il silenzio
- l’ora teatrale del possesso.
E la poesia cresce prendendo tutto nel suo grembo.
E ormai nessun potere distrugge la poesia.
Insostenibile, unica,
invade le case distese sulle notti
e le luci e le tenebre intorno al tavolo
e la forza sostenuta delle cose
e la rotonda e libera armonia del mondo
- in basso, lo strumento perplesso ignora
la spina del mistero.
- E la poesia si fa contro la carne e il tempo.
(Herberto Helder, La poesia)

A cosa servono i poeti?

A cosa servono i poeti? In questo nostro mondo che ha smarrito il senso del sacro e della memoria, dove non c’è più tempo per i sogni e la fragilità, che posto può esserci per la poesia? Oggetto fragile per eccellenza, rivelatore di epifanie inattese ma indefinibili, espressione dell’incerto e del mutevole, eppure capace di precipitare l’animo in un istante di trasformazione totale della realtà, la poesia serve?

Nel preparare questo intervento ho aperto un libro pubblicato nel 1995, poche settimane prima della scomparsa del suo autore. Si tratta di Dolore e ragione, di Josif Brodskij. Salutando il pubblico in occasione di una conferenza sulla poesia e riflettendo sulla sua scarsa diffusione, egli osservava:

"La poesia, per chi la scrive come per chi la legge, è un’arte che comporta un’atomizzazione; è assai meno sociale della musica o della pittura. E poi la poesia ha una certa inclinazione per il vuoto, a cominciare, diciamo, da quello dell’infinito. Ma il dato principale, dal punto di vista storico, è che la proporzione tra il pubblico che si rivolge alla poesia e il resto della società non è certo entusiasmante. […] Ora, la lirica è la forma suprema di eloquio umano in ogni cultura. Una società che non è capace di leggere o ascoltare i poeti […] abdica al proprio potenziale evolutivo, perché ciò che ci distingue dal resto del regno animale è il dono del linguaggio […] Si direbbe che ne abbiamo la percezione da bambini, quando assorbiamo e ricordiamo versi per diventare padroni della lingua. Da adulti, però, desistiamo da questo impegno, persuasi di avere ormai acquistato quella padronanza. E invece ciò che abbiamo padroneggiato è soltanto un idioma […] che non basta per guarire l’angoscia o infondere gioia […]

Il fine dell’evoluzione non è la sopravvivenza del più efficiente né quella del renitente. Nel primo caso dovremmo accontentarci di Arnold Swarzenegger; nel secondo caso, che comporta un’alternativa più accettabile dal punto di vista etico, dovremmo arrangiarci con Woody Allen. Il fine dell’evoluzione – ci crediate o no – è la bellezza, che sopravvive a tutto e genera la verità per il semplice fatto di essere una fusione di ciò che è mentale e di ciò che è sensuale."

Torniamo dunque alla nostra domanda, cominciando col prenderla da un altro versante.
Che cos’è questa strana creatura che chiamiamo poesia?

La poesia resiste sempre alla critica. È che il più delle volte finiamo per tenere su di essa discorsi inappropriati: o troppo tecnici o troppo generali. Aridi i primi, indefiniti e vaghi i secondi. È nell’opera stessa dei poeti, nella loro stessa parola, ai margini delle loro pagine, nella loro corrispondenza, nelle loro riflessioni, che conviene cercare.

Jean-Michel Maulpoix sostiene che nessun’altra arte è tanto segnata da dispute interne, rotture, manifesti, come se la poesia abbia sempre dovuto, nel corso della sua storia, rendere conto di sé stessa, autogiustificarsi, rispondere alla questione del suo perché e della sua ragion d’essere. Il fatto è “che i poeti hanno a che fare con la lingua; intrecciano il soggettivo e l’oggettivo; assumono il rischio della menzogna e dell’illusione; fanno spesso parlare le cose inanimate e i morti; si volgono a qualcosa d’altro su cui la ragione non ha presa; si lasciano condurre dalla carne e scrivono senza altro controllo se non quello della propria vigilanza”.

Perciò la poesia sfugge ad ogni definizione. Il suo oggetto sta nel lavoro stesso che essa compie, come un bersaglio mobile che ogni poesia a modo suo tenta di intercettare senza arrivare mai ad afferrarlo veramente. “Le azioni del poeta non sono che la conseguenza degli enigmi della poesia”, dice un verso di René Char Quando ci abbandoniamo alla poesia, ci avventuriamo in quella che possiamo chiamare l’“esperienza poetica”. Allora le parole ci attraversano, ci scuotono, ci spiazzano. E tutto questo accade in poche righe. Il romanziere lavora sulla durata: stabilisce scene e personaggi, immagina una trama, sviluppa una storia nella quale ci chiede di entrare. E, come un film, un romanzo riuscito ci permette di vivere in un altro mondo, in un’altra identità, o in altre, molteplici, identità. Il poeta procede in tutt’altro modo …

Prendete una parola prendetene due
fatele cuocere come se fossero uova
scaldatele a fuoco lento
versate la salsa enigmatica
spolverate con qualche stella
mettete pepe e fatele andare a vela.
Ora dove ve n’andrete?
A scriver davvero? A scrivere?

Chi scrive è Raymond Queneau. Montale invece diceva così: “I poeti si servono del linguaggio di tutti. Ma è necessario che questo linguaggio di tutti sia anche qualche cosa d’altro. E che cos’è questo qualcosa d’altro? È qualcosa che sta sotto, che sta sopra, che sta di lato, che a sta a destra, che sta a sinistra, che sta davanti, che sta dietro, al linguaggio di tutti.”
Qualcosa dunque di inafferrabile e indefinibile investe il linguaggio e lo trasforma, rendendolo capace di accogliere un’alterità, un altrove.

“La poesia, dice il grande poeta portoghese Herberto Helder, è un oggetto carico di poteri magici, terrificanti: posta nel luogo esatto, nell’istante esatto, secondo la regola esatta, promuove un disordine e un ordine che situano il mondo in un punto estremo: il mondo finisce e comincia”.

Per Roberto Mussapi il segreto di tutti i poeti, la “miracolosa pozione arabica”, è “il miracolo della voce dal buio.” “Se la parola non ha voce non parla, se non sgorga, segnata dall’accendersi di una piccola luce, tracciando una scia nel silenzio, come la parola di Shahrazàd nel silenzio cobalto delle notti arabe, conducendo nel buio l’immaginazione, verso una storia inaudita eppure un tempo appercepita e poi obliata, se non esce dallo scrigno del buio prendendoti per mano, non c’è poesia, non c’è il miracolo dell’apparizione, della nascita di immagini suscitate da una voce.”

Così è anche per lo scrittore francese Pascal Quignard: il buio è la sorgente della poesia, al punto che egli fa della maniera nigra il principio metaforico della poesia e dell’arte in generale. Nella maniera nigra, tecnica di incisione nata nel seicento e giunta alla sua perfezione nel settecento, il processo creativo consueto dell’incisore è invertito: l’immagine non è ottenuta per via positiva, aggiungendo segno a segno, tono a tono, ma per via negativa, togliendo il nero dalla lastra precedentemente granita. L’immagine nasce dalla notte, come il sogno.

Psicoanalisi vs poesia

Alla domanda “a cosa servono i poeti?”, ne aggiungerei un’altra che mi sta a cuore: l’esperienza psicoanalitica e quella poetica hanno o possono arrivare ad avere qualcosa in comune?

“Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia”, così diceva Amleto. E Freud, riprendendo queste parole, non esita ad affermare che “i poeti conoscono una quantità di cose fra cielo e terra che il nostro sapere accademico neppure sospetta.”

L’esperienza poetica è un’esperienza di linguaggio. Ora, il linguaggio che utilizziamo nella vita quotidiana è uno strumento che ci permette la comunicazione e l’informazione, e non c’è dubbio che nel nostro mondo, quello occidentale almeno, queste due funzioni del linguaggio siano oltremodo valorizzate. Questa valorizzazione appoggia sulla credenza che in uno scambio verbale tra due interlocutori il messaggio ricevuto dall’uno sia uguale a quello emesso dall’altro. Si vede molto bene nel campo medico, dove domina l’illusione della trasparenza dell’informazione. In questo modo di concepire il linguaggio non c’è vuoto possibile, non c’è mancanza. Detto poeticamente, non c’è mistero. Nel 1986 l’antropologo Lévi-Strauss diceva, parlando della poesia: “Il grande problema della nostra civiltà è che l’ordine del razionale e l’ordine del poetico sono diventati totalmente separati, mentre nelle civiltà cosiddette primitive studiate dagli etnologi, essi restano strettamente uniti.”

Ma una lingua non è semplicemente una lista di termini corrispondenti ad altrettanti oggetti. E tanto meno è una semplice moneta di scambio.

La lingua è polifonia, è equivocità, è gioco di significanti. La lingua è vertigine dell’apertura. Essa ci porta ben al di là di quanto possiamo dire o pensare o afferrare. È il luogo in cui si articolano le nostre passioni più violente, i nostri desideri più segreti, le nostre angosce più profonde. Ecco perché la poesia ci afferra e ci scuote: la poesia distrugge le relazioni abituali, eccede e trasgredisce la funzione informativa del linguaggio, rompe con la logica, capovolge l’ordinario e l’acquisito, ci risveglia all’infinito errare della lingua. Ce ne mostra gli abissi.

Risuonano in ogni lingua le lingue che l’hanno preceduta, le culture che l’hanno abitata, i fantasmi che l’assillano e danno corpo inconscio alle parole. È quanto permette a Jacobson di affermare che la funzione poetica “ci protegge dall’automatismo, dalla ruggine che minaccia le nostre formule dell’amore e dell’odio, della rivolta e della riconciliazione, della fede e della negazione.” La poesia viola con la sua forza sovversiva le norme del linguaggio quotidiano operando in esso un capovolgimento dall’atteso all’inatteso. Dalla piattezza del linguaggio ordinario – nel quale ogni parola "muore con il suo uso come una vespa con il suo pungiglione" – entriamo nel regno dell’infinita polivocità della lingua. Due forze agiscono nella nostra esistenza: una che aspira al nuovo, l’altra che vuole affidarsi al vecchio, al noto. Da una parte la forza della consuetudine che produce continuità esistenziale, che poggia su una rete di rimandi familiari e prevedibili entro cui troviamo rifugio e asilo; dall’altra l’esigenza di svincolarci e disconnetterci da un tempo già programmato per sporgerci verso l’imprevisto e l’imprevedibile. Ciò vuol dire che non c’è rapporto alcuno tra poesia e realtà? Tutt’altro. La poesia scaturisce dalla vita e dall’esperienza vissuta ma ne sommuove la logica ordinaria e apre in essa squarci di comprensione più acuta e profonda. Non comprenderemmo la sinestesia “urlo nero” della celebre poesia di Quasimodo senza il riferimento alla realtà. La poesia approfondisce ciò che della realtà ci sfugge, fa breccia nella nostra percezione della realtà e apre dei varchi: “l’urlo nero” non è fantasia, irrealtà, ma qualcosa di vissuto e di vivibile, pur restando fuori dai codici del linguaggio ordinario.

È qui che il poeta scruta i mondi sommersi di cui portano traccia i sogni. È qui che incontra lo sguardo stupefatto dell’infanzia. Ed è qui che lo psicoanalista incrocia la poesia: in questo effetto di spaesamento, di sospensione e di vuoto che mantiene aperta la dimensione dell’indicibile e del mistero.

Il silenzio della poesia

Questo mi porta direttamente a toccare l’ultimo punto.

È nota la sentenza emessa da Th. W. Adorno nel 1966: “Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d'arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile”. È noto anche che Paul Celan ha rivendicato esplicitamente e disperatamente il diritto di procedere oltre il divieto enunciato da Adorno. L’opera di Celan si è caricata interamente di quel traumatismo dopo il quale la poesia non poteva più essere quella di prima. La poesia ha dovuto affrontare un’impossibilità di dire, che si è scontrata con la necessità di dire, per trovare soccorso nella parola anche quando essa affonda nel silenzio e nell’indicibile.

A chi sgorga il sentito dall’orecchio
e scorre per le notti:
a lui

racconta ciò che hai origliato
dalle tue mani.
Le tue mani migranti.

Non hanno cercato
di afferrare la neve verso cui
crescevano i monti?
Non sono discese
nel cuor palpitato silenzio dell’abisso?
Le tue mani, le viandanti.
Le tue mani migranti.
(Paul Celan, A chi sgorga il sentito dall’orecchio).

Con alterna chiave
tu schiudi la casa dove
la neve volteggia delle cose taciute.
A seconda del sangue che ti sprizza
da occhio, bocca ed orecchio
varia la tua chiave.
Varia la tua chiave, varia la parola
cui è concesso volteggiare coi fiocchi.
A seconda del vento che via ti spinge
s'aggruma attorno alla parola la neve.
(Paul Celan, Con alterna chiave)

Un rapporto intimo annoda la poesia con l’assenza, la memoria e la morte. In qualche modo il mito fondatore della poesia occidentale è il mito di Orfeo, ripreso e cantato innumerevoli volte. Orfeo si volta, preso da impazienza, e perde Euridice per sempre. In questo esatto momento comincia la dolorosa erranza che fa di lui il cantore capace di affascinare alberi e animali e fiere selvagge. Il canto d’amore nasce dalla perdita; per riportare alla luce l’oggetto perduto la poesia scende tra i morti, va tra le ombre. Talora le incanta ed è quasi sul punto di vincerle. Ma la poesia non scende negli inferi per spirito di conquista. Essa va per amore, per tentare di salvare l’amore. Ciò che il mito insegna è che la “voce errante” di Orfeo poggia sul vuoto. Orfeo inventa a partire da una perdita e trasforma la sua solitudine fatale in dono per la comunità degli uomini.

Quando la nave affonda, le sue vele si salvano dentro di noi. S’armano sul nostro sangue. La loro nuova impazienza si concentra per altri ostinati viaggi. Non è forse vero, tu che sei cieca sul mare? Tu che vacilli in tutto quest’azzurro, o tristezza volta alle onde più lontane? (René Char, da Rossore dei mattinieri)

Come Orfeo, il poeta è un malinconico viandante che si volta indietro, verso legami, luoghi, tempi perduti, oppure si china ad ascoltare il caos del mondo. Come Orfeo, smembrato dalle Menadi, il poeta è obbligato senza sosta a spezzare e rompere la continuità della lingua: frammentarla. Per poi tesserla ancora una volta. La poesia è un filo spezzato che incessantemente si ri-tesse. È il paradosso di Orfeo che, come ci ricorda Giorgio Colli, dà voce alla grande contraddizione della duplicità e dell’unità di Apollo e Dioniso. La poesia esige la conoscenza, ma il suo luogo è nella parola che tenta l’indicibile, che si muove sul limitare dell’inesprimibile, che attinge alla follia per restare vicina al mistero delle umane cose.

Esiste veramente il tempo, il Distruttore?
Quando, sul monte immobile abbatterà la fortezza?
Quando il demiurgo espugnerà questo cuore
Che all’infinito appartiene agli Dèi?
Siamo dunque così paurosi e fragili
Come vuol farci credere il destino?
E l’infanzia profonda di promesse,
s’inaridisce, poi, nelle radici?
Ah, il fantasma dell’Effimero
Attraversa come se fosse fumo
Chi inconsapevole l’accoglie.
Andare alla deriva, questa la nostra essenza,
pure, nel ciclo delle forze perenni,
quali strumenti divini abbiamo un senso.
(R. M. Rilke, da I sonetti a Orfeo)

Angela Peduto

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