Tradurre la "Commedia" in francese

Agnès Cousin de Ravel
20 novembre 2021
CostArena, Via Azzo Gardino 48 - Bologna

“E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può da la sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia” ( Dante, Convivio I, VII, 14).

Tradurre la Commedia è intrecciare due voci, due singolarità, due sensibilità, due culture e due lingue: il volgare sublime di Dante nel Trecento e il francese contemporaneo. Tradurre è creare legami tra un’opera, il suo autore e un lettore sconosciuto, in un’epoca che ha i propri miti e un rapporto specifico con le altre culture e le altre lingue. Perciò la storia delle traduzioni francesi della Commedia è strettamente legata alla storia politica e  al mutare della lingua. Tradurre è sempre un’impresa audace e difficile – per nostra fortuna spesso riuscita - ma la Divina Commedia porta i traduttori al limite stesso della possibilità di tradurre. 

L'opera di Dante è conosciuta in Francia dal Medioevo, ma le traduzioni iniziano a partire dal '500. Dal 1965 ad oggi  disponiamo di dieci traduzioni, tutte in versi: esse rispondono a presupposti, progetti, obiettivi molteplici e si indirizzano a lettori molto diversi. Inoltrarci in alcune di queste soluzioni sarà il filo conduttore del nostro lavoro.

I. L'"opera aperta" o la traduzione impossibile

Umberto Eco ha parlato della Commedia come di “un’opera aperta”: aperta a tutte le spiegazioni, a tutti i commenti e le analisi. Un’opera creata con tale perfezione da prestarsi a tutte le letture. Tuttavia, Dante dichiarava nel Convivio l'impossibilità di tradurre la poesia senza svalutarla: 

"E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può da la sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia[1]" 

Oltre alla dolcezza e all’armonia, come tradurre la ricchezza del testo, il suo spessore culturale, la sua propria poesia?

Traduttore traditore, si dice dal Cinquecento. La traduzione non può essere un calco dell’opera ma deve renderne la luce. È la nascita di un’altra opera, è un dialogo tra due culture, due tempi, due lingue, è un doppio incontro: del traduttore con l’opera e con il suo futuro lettore. Con la Commedia ci troviamo davanti a problemi grandi e significativi. Da settecento anni, che cosa è arrivato fino a noi della cultura di Dante? Come non tradire il suo pensiero e la sua poesia? Ma per chi si traduce oggi? Per un pubblico specializzato? O, più probabilmente, per il grande pubblico?

Nella Commedia, Dante indica la strada al suo lettore/traduttore. Spesso lo apostrofa, lo incita, per far sì che la sua opera “s’infuturi”, resti sempre viva e continui ad essere letta in tutto il mondo da settecento anni. 

II. Scrivere Tradurre: Infuturare la Commedia. Incontri con Dante

 “Ogni traduzione, ha scritto Angela Peduto, scava nella propria lingua fino a scoprirne le profondità vertiginose e scava nell’altra lingua, per sentire il ritmo, il tempo, il respiro che l’attraversano e ne sono l’essenza segreta[2]“. 

Il cammino di Dante verso la luce passa attraverso l’amore per Beatrice, la storia di Firenze e, al di là dell’Italia del Medioevo, si ricongiunge con la storia famigliare e la propria muovendosi tra ricordi di eventi storici e personali. Non abbiamo la prima versione della Commedia, il primo manoscritto originale, ma si può pensare che Dante abbia raffinato la sua lingua per esprimere non la verità assoluta, ma la sua verità.

Tradurre: come non tradire un pensiero e una tale ricchezza linguistica? Come far percepire la novità della lingua di Dante? Come scrivere, per chi? In quale lingua? Scrivere una versione con arcaismi che si nutre dell’idioma di Dante o scrivere in una lingua d’oggi che tutti i lettori possano capire? Dante, che ha scritto due saggi sul suo rapporto con la lingua - il De vulgari eloquentia e il Convivio -, può essere quasi un modello per i suoi traduttori: in queste opere, infatti, ritroviamo non solo il suo pensiero ma anche il progetto della Commedia

La questione della lingua è per Dante fondamentale. Nella Commedia si interroga spesso sull’importanza di ciò che vuole dire e si dà il compito di inventare una lingua ricca, diversa, capace di tradurre gli eventi straordinari che vive o che immagina di vivere. Dante inventa una lingua da ascoltare e insieme da leggere. La traduttrice Danièle Robert parla di un “lettore/ascoltatore”. A quei tempi, la lingua poetica si ascoltava e si memorizzava con l’aiuto della rima. I trovatori recitavano i loro poemi in Italia come in Francia. 

Quando ancora il Paradiso non era stato completato, i testi dell’Inferno e del Purgatorio circolavano già, e questo rispondeva ad una volontà politica dello stesso Dante. Aveva il desiderio di essere capito dai lettori/ascoltatori, che non conosceva ma che esistevano nella sua immaginazione, non solo gli studenti ma anche lettori colti seppur non letterati, che non conoscevano il latino ma parlavano un bel volgare. Per il traduttore in fondo si pone la stessa questione. 

Come ha già fatto nel Convivio III, anche nel canto XXXII dell’Inferno, il cerchio della Caina e dei traditori, Dante, che vive un’esperienza fuori dalla norma, dichiara la necessità di inventare parole per descrivere “il fondo a tutto l’universo”, il fondo dell’inferno dove si trova: 

S’io avessi le rime aspre e chiocce, 

come si converrebbe al tristo buco 

sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,

io premerei di mio concetto il suco 

più pienamente; ma perch’io non l’abbo, 

non sanza tema a dicer mi conduco; 

ché non è impresa da pigliare a gabbo 

discriver fondo a tutto l’universo, 

né da lingua che chiami mamma o babbo. (Inf. XXXII, 1-9)

La nascita del volgare sublime: risorse e sfide

La nascita del volgare sublime della Commedia è legata allo sviluppo della lingua poetica in Italia, eredità dei poeti provenzali del XII secolo: Bertran de Born, che Dante incontra nel canto XXVIII dell’Inferno, Giraut de Borneil, canto XXVI del Purgatorio, “l’uomo del Limosino” (ha studiato e si è ritirato nel Limosino), e Arnaud Daniel. Tutti e tre erano i “serventi” della lingua e hanno composto “canzoni” spesso in endecasillabi o in eptatsillabi, cioè i “sirventès” (serventes), poemi satirici o poemi che celebrano in vari modi “il fin’amor”. Il primo modo è il “trobar clus”, “trobar/trovare”, un modo ermetico. Il secondo è “trobar leu”, più aperto. Il terzo è il “trobar ric”, “ric/ricco”. Ogni poema ha il proprio sistema di strofe e di rime. Per esempio, la rima dell’ultimo verso diventa la prima della strofa seguente. Non è il sistemo complesso della terzina ma lo richiama. 

“Il fin’amor” è, in poesia, la sublimazione d’un amore, amore quasi divino, amore della bellezza, amore etereo. Pensiamo a Beatrice. 

Lo stile, le creazioni poetiche hanno influenzato, un secolo dopo, Guittone d’Arezzo, Bonagiunta da Lucca e Giacomo da Lentini detto “il Notaro”, che ha fondato “la scuola siciliana”. Tutti e tre hanno sviluppato una poesia in lingua toscana. Dante li incontra nella Commedia (canto XXIV del Purgatorio) ma per lui sono poeti minori rispetto a Guinizzelli, il padre del “dolce stil novo[3]“ che incontra nel canto XXVI del Purgatorio, e all’amico Guido Cavalcanti. Ricordiamo che Dante grazie a questi poeti ha contribuito al rinnovamento poetico in corso a Bologna e Firenze.

La magnificenza dell’esperienza vissuta da Dante grazie a Beatrice può essere espressa solo da una lingua nobile, ”lo stile tragico”, che Dante definisce così: 

"È ben chiaro che usiamo veramente uno stile tragico solo quando con la profondità del pensiero s'accordano sia la magnificenza dei versi che l'altezza della costruzione e l'eccellenza dei vocaboli[4]". 

Dante ha deciso di scrivere in volgare, ma in un volgare “illustre”, quale è, secondo Risset[5], la lingua poetica. Come inventare una lingua che sappia esprimere libertà e sperimentalismo? Come arricchire il patrimonio linguistico? Dante crea la sua lingua a partire dal volgare, secondo lui parlato dai suoi antenati. Nel Convivio I spiega perché ha scelto il volgare: come il francese aveva fatto due o tre secoli prima con la letteratura provenzale e francese in lingua d’oc e d’oil (La Chanson de Roland [6], i romanzi di Chrétien de Troie, Lancelot, Perceval ou Le conte du Graal, Tristan et Yseult, il poema Le Roman de la rose o Le Roman de renard) anche Dante dona prestigio alla “lingua del sì”, che ancora non si chiama lingua italiana. Così la definisce nel De vulgari eloquentia: 

"Definisco volgare illustre, cardinale, regale [aulico] e curiale quel volgare d’Italia che è di ogni città italiana ma non sembra appartenere a nessuna, e sulla cui base tutti i volgari municipali degli Italiani vengono misurati, soppesati e comparati [7]".

Il volgare non è né il greco né il latino - la lingua perfetta secondo Dante per esprimere i pensieri filosofici-, ma una lingua che tutti possono parlare, anche se in Italia, in quei tempi, convivono molti volgari. Ciononostante, il volgare che Dante ha in mente non è quello della “plebe”, del basso popolo, ma una lingua letteraria di altissimo livello per i poeti illustrissimi, quella, per esempio, del suo amico Guido Cavalcanti, capace di superare il prestigio delle lingue d’oc e d’oil. Poiché desidera dire ciò che non è mai stato detto, immagina un idioma nuovo costituito dalle sue invenzioni lessicali, i cosiddetti ”dantismi”, cioè neologismi, neoformazioni con adattamenti semantici di voci dell’uso o della tradizione letteraria.

Dante crea il suo volgare illustre e, al tempo stesso, immagina il sistema molto sottile delle terzine che, con l’endecasillabo, impongono il loro ritmo al poema.

Tradurre la Commedia, “l’opera aperta” 

Tradurre è un doppio incontro: con l’autore e con il proprio lettore. Tradurre la Commedia pone il problema di ogni traduzione poetica: rendere conto in un’altra lingua di un’opera poetica, sapendo che un poema esiste attraverso la lingua. Il fatto che, nella Commedia, Dante inventi la sua lingua, pone ulteriori problemi al traduttore, costretto a muoversi tra due lingue, la sua e quella di Dante cercando di non tradire (troppo) nessuna delle due. Questi problemi rinnovano quelli che si ponevano allo stesso Dante quando scriveva la Commedia. Benché la traduzione sia sempre una perdita in rapporto all’originale, quale che sia la sua qualità, ciascun traduttore ha la responsabilità dell’opera e del suo futuro. 

Tradurre la Commedia significa intrecciare due voci, due singolarità, due sensibilità, due culture e due lingue: il volgare sublime di Dante nel Trecento e il francese contemporaneo. “Bene ascolta chi la nota [8]” (Inf. XV, 99), consiglia Virgilio a Dante durante l’incontro con Brunetto Latini nell’Inferno.

III. Breve storia delle traduzioni in Francia dal Medioevo al 1950

La Commedia dal Medioevo fino a metà Ottocento

La Commedia comincia ad essere composta intorno al 1306-1307. Negli anni 1314-1315 (metà del 1314 e autunno del 1315) vengono pubblicate due cantiche, l’Inferno e il Purgatorio, in molte copie integrali o parziali, talvolta trascritte a memoria. A partire dalla metà del Trecento, le riproduzioni del testo si moltiplicano (oltre 800) e la Commedia è tradotta e commentata: in Francia nasce un grande interesse per la cultura dantesca, per la novità della scrittura e l'universalità dei suoi contenuti. Oggi, non sappiamo come le immagini e le allusioni fossero rappresentate e percepite allora. 

Nel Medioevo

Circa un secolo dopo Dante, la poetessa Christine de Pizan [9] alla fine del Débat sur le Roman de la rose [10], consiglia ai suoi lettori di leggere la Commedia

"Mais se mieulx veulx ouyr descripre paradis et enfer, et par plus soubtilz termes et plus haultement parlé de théologie, plus profitablement, plus poetiquement et de plus grant efficace, lis le livre que on appelle le Dant, ou le te fais exposer – pour ce qu’il est en lengue flourentine souverainement dicté - : la orras autre propos mieulx fondé, plus soubtilment (ne te desplaise) et ou plus tu pourras prouffiter que en ton Rommant de la Rose, et cent fois mieulx composé, ne il n’y a comparoison (ne t’en courrrousses ja)". 

Nei secoli successivi l’interesse cambia. Nel Rinascimento, alla corte di Francesco Ie della sorella Margherita di Navarra, si leggono ogni giorno versi della Commedia, la cui scrittura ispira Scève per la stesura della sua Délie. Ma poco dopo è Petrarca a diventare un modello, per esempio per Ronsard e Du Bellay. Le tre cantiche della Commedia sono tradotte in Francia per la prima volta in decasillabi e terzine nel 1596-1597 da Balthazar Grangier.

Voltaire e il Settecento

Nel Settecento, Voltaire esercita un'influenza molto negativa, poiché impone il modello della lingua francese, secondo lui più prestigiosa dell’italiano. Voltaire si prendeva gioco della lingua di Dante, la considerava selvaggia e oscura rispetto al suo francese, modello di chiarezza per tutti. Condannava “les grossièretés”, la volgarità del volgare del poeta trecentesco. Secondo lui, la Commedia era “una battuta in versi [11]“ e un “guazzabuglio d’un gusto bizzaro”. Il suo disprezzo anche delle traduzioni e dei traduttori ha fatto sì che non ci siano molte traduzioni in Francia in quell’epoca. Ricordiamo la traduzione di Rivarol, che ha tradotto Dante con il desiderio di produrre un testo nella lingua del suo secolo, migliorando quella di Dante. Per fare ciò e per eliminare ogni oscurità, ha commentato il testo, strutturando qualche passaggio secondo la logica francese e non secondo il testo di Dante: un modo di razionalizzare il discorso dantesco.

E tuttavia, malgrado Voltaire, il giorno prima la sua morte, Luigi XVI chiese che gli venisse letto il Paradiso.

Nell’Ottocento

In Francia, nell’Ottocento, Dante è di moda nelle arti. Delacroix dipinge Dante et Virgile aux enfers (1822). Qualche anno dopo, il pittore Hippolyte Flandrin dipinge, ispirato dal canto XIII del Purgatorio, un’opera dal titolo Le Dante, conduit par Virgile, offre des consolations aux âmes des Envieux (1835). 

Gli scambi tra l’Italia e la Francia sono molti: viaggiatori, ambasciatori, diplomatici come Montor che traduce tutta la Commedia, profughi politici come Pier-Angelo Fiorentino (un altro traduttore). Il rinnovo dell’interesse per la Commedia e per Dante simboleggia un incontro tra le nostre due culture. Nell’Ottocento, l’oscurità della lingua di Dante diventa per molti scrittori una qualità. Chateaubriand, in Le génie du christianisme (1802), analizza l’Inferno. Balzac, in Les Proscrits (1831), fa di Dante un personaggio centrale per un racconto ambientato a Parigi all’inizio del Trecento. Alexandre Dumas, in Impressions de voyage. Une Année à Florence (1851), parla di Dante. Stendhal, la cui madre possedeva una bella edizione della Commedia e la conosceva bene, legge la Commedia e ne parla nel suo Journal e nella Vie de Henri Brulard (1890). Hugo, che ammira il genio di Dante, ne la Préface de Cromwell (1827), elogia la lingua di Shakespeare, più vicina a quella di Dante che a quella di Voltaire. Per lui, Dante e Milton sono i due pilastri riuniti da Shakespeare: “les deux arcs-boutants dont il [Shakespeare] est comme l’arc central”. 

Qualche anno dopo, Hugo scrive un poema epico intitolato “La vision de Dante [12]“, dove immagina un dialogo con Dante avvenuto nel 1853. Inserirà poi questo poema nell’ultima parte della Légende des siècles. Immagina che Dante torni sulla terra cinquecento anni dopo la sua morte e scopra lo stato del mondo e della Francia, simile a quello dei cerchi infernali che ha visitato nella Commedia: in Italia e in Francia sembra regnare il caos come al tempo del futuro giudizio universale.

Hugo accusa i re, i principi e soprattutto il papa Pio IX d’avere ingiustamente sacrificato migliaia di innocenti. Il primo verso del poema è: “Dante m'est apparu. Voici ce qu'il m'a dit” - “Dante mi è apparso. Ecco ciò che mi ha detto [13]“.

Gli ultimi versi: 

Mon Dante,

Prends ce pape qui fit le mal et non le bien,

Mets-le dans ton enfer, je le mets dans le mien.

Mio Dante,

Prendi questo papa che fece il male e non il bene

Mettilo nel tuo inferno, io lo metto nel mio. 

Anche nelle Contemplations III c’è un incontro con Dante [14]. 

Quanto a Nerval,  si riconosce come una “reincarnazione” di Dante in Aurelia (1855).

Alla fine del secolo, lo Stato francese commissiona allo scultore Rodin un’opera che doveva prendere posto all'ingresso del Museo di Arti decorative. Rodin, pensando alla Porta del Paradiso di Lorenzo Ghiberti [15]nel Battistero di San Giovanni di Firenze, dove Dante fu battezzato, concepisce la Porta dell’Inferno, con scene della Commedia (Ugolino e i suoi figli, Paolo e Francesca). Il modello di fusione in gesso di questa Porta, alta 7 metri, è stato esposto nelle Scuderie del Quirinale [16]a Roma.

Qualche traduzione tra il 1850 e il 1950 

Dall’inizio del secolo fino al 1867, circa una quindicina di traduzioni

Nell’Ottocento, quando viene pubblicata nuovamente la traduzione di Rivarol, circolano più o meno quindici traduzioni in versi o in prosa. Nella Prefazione all’edizione del 1867, Nicolas David fa l’elogio di Dante e del suo genio. Siamo ormai lontani dal giudizio di Voltaire, tant’è che, fino alla fine del secolo, ci sono altre cinque traduzioni, riedizioni di traduzioni dei secoli passati e molti saggi sull'opera di Dante. Nonostante ciò, il problema rimane: quello della lingua di Dante e della scelta tra prosa e verso. 

Prima metà del Novecento.

Agli inizi del Novecento, ci sono due “testimoni” dell’opera di Dante: Proust e Claudel. Proust, nella Recherche, allude talvolta a Dante, quasi facendo un paragone tra il mondo della Commedia e  il salotto dei Verdurin. Poco dopo, nel 1921, in occasione del 60anniversario della morte di Dante, Claudel scrive l'”Ode jubilaire pour le six-centème anniversaire de la mort de Dante“, dove immagina un dialogo  racconta il suo cammino dall’esilio al Paradiso

Tra il 1932 e il mese di giugno [18] del 1940, l'organo del Comitato di Parigi della Società nazionale Dante Alighieri pubblica la sua rivista [19] mensile intitolata Dante, con articoli [20] di letteratura in italiano e in francese. Il direttore della rivista è il poeta Lionello Fumi [21] di cui Pézard tradurrà le poesie e su cui scriverà un saggio, L'Évolution lyrique de Lionello Fiumi, che sarà tradotto in italiano. 

Tra il 1900 e il 1962 ci sono dodici traduzioni [22] della Commedia, sia in versi che in prosa, e molte riedizioni di traduzioni dell'Ottocento, spesso con illustrazioni o riproduzione di quadri. Tra gli anni ‘50 e il 2020, ci sono ancora riedizioni di traduzioni dell’Ottocento o della prima metà del Novecento e dieci nuove traduzioni.

IV. I dieci traduttori francesi di Dante dal 1965 ad oggi

Leggere La Commedia in francese è un’avventura culturale. È necessario abbandonarsi alla lettura, senza cercare di capire tutto, guidati solo dal racconto, dal flusso degli avvenimenti e dalla musica della lingua. È un viaggio nel tempo del traduttore.

Chi sono i traduttori?

Ci sono dieci traduttori dal 1965 al 2020 tra cui tre traduttrici. Cinque traduzioni [23] tra il 1965 e il 1999: Pézard, Portier, Risset, Scialom e Vegliante; cinque [24] tra il 2001 e il 2020: Garin, Delorme, Dandrea, e gli ultimi: Ceccatty e Robert.

Pézard e Portier sono nati alla fine dell'Ottocento, Scialom, Risset, Dandrea e Delorme intorno alla Seconda Guerra Mondiale; Vegliante, Garin, Ceccatty e Robert dopo questa Guerra, il che ne influenza la formazione universitaria, il progetto, i presupposti e la creatività. Ciascuno ha creato un’opera nuova aprendosi in modo diverso alla creatività di Dante e al suo mondo. Del resto, secondo la giurisprudenza francese, il traduttore diviene l’autore dell’opera. 

Oltre a ciò, se Dante è stato il testimone di eventi straordinari, il traduttore è portavoce dell’opera. Ha un alleato, il suo proprio lettore che spesso legge con una certa complicità. Si potrebbe dire come nel canto V del Paradiso

Pensa, lettor, se quel che qui si inizia

non procedesse, come tu avresti 

di più savere angosciosa carizia [25] (Par., V, 109-111)

Le dieci traduzioni sono in versi [26]: ottosillabi, decasillabi, endecasillabi, versi alessandrini (dodici sillabe). Solo Delorme e Robert hanno scelto versi rimati; per gli altri, senza versi in rima il ritmo del testo è più flessibile. 

Ho scelto di studiare particolarmente quattro traduzioni molto diverse di traduttori innamorati dell’Italia e che conoscono bene l’opera di Dante: Pézard, Risset, Ceccatty e Robert.

Pézard, Risset, Ceccatty e Robert: I loro presupposti, obiettivi e scelte.

Pézard e Ceccatty hanno concepito due progetti traduttivi, due traduzioni diametralmente opposte ma che sono il risultato di un'idea simile: tradurre la Commedia significa scrivere un testo leggibile dai loro lettori: per Pézard, gli studenti, gli intellettuali francesi e per Ceccatty, cinquant'anni dopo, tutti i lettori contemporanei. Per ambedue, la traduzione è quasi “un inizio di spiegazione“.

Un po’ come per Dante, la vita di Pézard [27], nato nel 1893, è legata alla storia della Francia. Ammesso all’École normale supérieure alla fine di luglio 1914, è impegnato tre settimane dopo nell’inferno della Prima Guerra mondiale. Ferito nel 1916, può riprendere i suoi studi a Normal’Sup e, nel 1919, diventa professore associato di lingua Italiana. Tra le due Guerre mondiali, ha legami stretti con gli intellettuali italiani tra cui Fumi [28], direttore della Rivista Dante. Nel 1945, in ritardo a causa della guerra, discute la sua tesi Dante sous la pluie de feu, Canto XV dell’Inferno.

Quando Gaston Gallimard [29] gli commissiona la traduzione per la prima volta in Francia di tutta l’opera [30] di Dante, Pézard concepisce un progetto originale – “Una follia! “-: tradurre la Commedia in un francese medievale [31] che i suoi lettori, studenti e gente colta, avrebbero capito perché l’avevano studiato all’Università. Pensa cosi di far percepire al suo lettore l’originalità della lingua di Dante e dare alla sua poesia “un'impressione da lontano [32]“.

Per esempio, nel canto IV del Paradiso, Pézard [33] traduce: “O amanza [34]del primo amante, o diva“ (Par. IV, 118), da “O du premier amant divine amance“, rinnovando il gesto di Dante, che al posto di “amore“ ha preferito “amanza“ dal provenzale amansa.

A partire da un’idea simile, spiegare cioè il testo, Ceccatty [35] concepisce un progetto quasi opposto. Pubblica la sua traduzione con una lunga prefazione ma senza nessuna nota a piè di pagina o alla fine e senza nessuna spiegazione: ha tradotto, dice, solo ciò che capiva [36], cioè la sua traduzione è in sé stessa la spiegazione, e scioglie i passaggi altrimenti ermetici affinché il testo risulti comprensibile in un contesto tanto diverso da quello di Dante [37]. Attraverso la sostituzione o l’eliminazione di perifrasi, metafore, ripetizioni, vuole dare una visione della Commedia come un testo attuale, quasi un romanzo, per un pubblico moderno e vasto. 

Un esempio semplice nel canto XXXI dell’Inferno

Qual pare a riguardar la Carisenda 

sotto ’l chinato, quando un nuvol vada 

sovr’essa sì, ched ella incontro penda (Inf. XXXI, 136-138). 

Pézard traduce “la Garisende“, Risset e Robert non lo traducono e Ceccatty non dà il nome ma spiega : “Telle à Bologne la grand-tour / Paraît penchée quand on la voit / Par en bas, effleurer la nue. “

Veniamo a Jacqueline Risset [38], italianista, professoressa di letteratura francese alla Sapienza, amica di Fellini, autrice di molti libri di poesia e saggi. Nel 1982 pubblica un saggio sull’opera di Dante [39], Dante écrivain ou L’intelletto d’amore. Risset pensa che la traduzione della poesia - e quella di Dante soprattutto -, sia un’“opera impossibile” e propone una traduzione molto diversa da quella di Pézard, rifiutando di tradurre i nomi propri e rifiutando ogni arcaismo. Cerca di essere il più letterale possibile. Un esempio con il verbo “insusare” creato da Dante: Risset traduce “si haut“. Il passagio in questione si trova nel canto XVII del Paradiso. Cacciaguida, capostipite della famiglia degli Alighieri, suggere cosi il percorso di suo nipote Dante: 

O cara piota mia che sì t’insusi,

che, come veggion le terrene menti

non capere in triangol due ottusi, 

           cosi vede le cose contengenti. (Par. XVII, 13-16) 

Risset traduce cosi: “Chère souche de mon lignage, qui vas si haut / Que de même que voient les esprits terrestres / que deux obtus ne tiennent pas dans un triangle, / de même tu vois les choses contingentes. ”

Nel De vulgari eloquentia, Dante spiega che l’endecasillabo era il verso più nobile perché il più adatto a tradurre un pensiero nobile. Rispettando lo sforzo di Dante, Robert ha fatto la scelta di tradurre tutta la Commedia in terzine e in endecasillabi, creando così un nuovo spazio di libertà. Traduce i nomi propri ogni volta che è possibile. Un esempio: nel canto VI dell’Inferno, Ciacco domanda a Dante: 

dimmi ove sono e fa ch’io li conosca; 

ché gran disio mi stringedi savere 

se ‘l ciel li addolcia o lo ‘nferno li attosca [40]. (Inf. VI, 82-84) 

Robert introduce un chiasmo, che rende conto del parallelismo nel verso di Dante : “dis-moi où ils sont et leur sort réel / car un grand désir m’étreint de savoir : / ont-ils miel du ciel ou d’enfer le fiel? “ 

V. Dalla traduzione all’impossibilità di tradurre

Alcuni propositi dei traduttori 

I traduttori esprimono, tra sfumature e giochi con la lingua, un rapporto particolare con l’opera di Dante. Nel canto XXVII dell’Inferno, Guido da Montefeltro parla a Dante:  

Se tu pur mo in questo mondo cieco 

caduto se’ di quella dolce terra 

latina ond’io mia colpa tutta reco (Inf. XXVII, 25-27). 

Pézard traduce “terra latina” con “la terre italique”; gli altri “la terre latine”. Pochi versi dopo, Virgilio dice a Dante: “Parla tu; questi è latino.” (Inf. XXVII, 33) Risset traduce “italien” e non “latin [41]”. 

Poi, nel canto XVII del Paradiso, Cacciaguida prevede il futuro di Dante: 

Né per ambage, in che la gente folle 

già s’inviscava pria che fosse anciso 

l’Agnel di Dio che le peccata tolle, 

ma per chiare parole e con preciso 

latin rispuose quello amor paterno, 

chiuso e parvente del suo proprio riso (Par. XVII, 31-36) 

Nessun problema per la traduzione del latinismo “inviscare [42]” / “s’engluer” in francese. Tuttavia, che significa un “preciso [43] latin”? È la lingua latina o solo una lingua precisa e intelligibile? Pézard e Robert traducono “latin précis”; Pézard in una nota spiega: “Nel medioevo, gli Italiani e i Francesi nominavano "latin" un linguaggio chiaro”. Risset traduce “mais par mots clairs et par langage / précis“; Ceccatty elimina la questione con due aggettivi: “Mais en mots clairs et bien précis.”  

Un altro esempio. Ci sono più di duemila nomi propri nella Commedia; nomi di città [44], di paesi o di personaggi. Alcuni traduttori, più vicini alle fonti italiane, preferiscono non tradurre questi nomi. Altre volte, i nomi delle regioni e delle città più conosciute sono tradotti come nel canto XX del Purgatorio “Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia” / “Douai, Lille, Gand et Bruges” (Purg. XX, 46) o ancora “Normandia, Guascogna” (Purg. XX, 66), “Fiorenza” (Purg. XX, 75)/”Normandie, Gascogne”, “Florence”. Nel verso 67, il nome “Italia” diviene naturalmente in francese “L’Italie”. Tuttavia, Pézard talvolta traduce “Ytaille”, omagio postumo a Brunetto Latini, il maestro di Dante, che usava la parola “Ytaille” nel suo Tresoro [45] scritto mentre era in esilio a Parigi. 

Alcuni versi dopo, Dante critica la politica del re di Francia Filippo IV il Bello [46] nei confronti della Chiesa: 

Perché men paia il mal futuro e ‘l fatto, 

veggio in Alagna intrar il fiordaliso, 

e nel vecario suo Cristo esser catto.  (Purg. XX, 85-87)

Pézard traduce “Alagna/Alaigne”, Risset e gli altri “Alagna/Anagni”. Alagna era una piccola città dove stava la residenza del Papa. Ma il nome, all’epoca di Dante, evocava l’attacco d’Alagna/Agnani l’8 settembre 1303, quando il Papa Bonifacio VIII, “vicario di Cristo”, nato ad Agnani, era in lotta per motivi economici con il re di Francia Filippo IV il Bello nominato dalla metonimia “il fiordaliso” “la fleur de lys”. Tutti traducono “vicario” “vicaire” tranne Ceccatty, come ha fatto all’inizio del canto che precisa: “Pour amoindrir les maux futurs / Ou faits, France entre à Agnani / Et Christ, en son pape, est captif.” 

C’è un’altra menzione d’Alagna nel canto XXX del Paradiso quando Dante prevede il suo destino: 

“Ma poco poi sarà da Dio sofferto 

nel santo officio: ch’el sarà detruso 

là dove Simon mago è per suo merto, 

e farà quel d’Alagna intrar più giuso. (Par. XXX, 144-148) 

Ceccatty, di nuovo, spiega : “Il survivra, Dieu l’enlevant / Du Saint-Office et le jetant / Dans la bolge des simoniaques. / Plus bas encore que Boniface!“

Dante denuncia i rapporti di simonia nella curia romana, cioè Bonifacio VIII e Clemente V, e il re di Francia Filippo il Bello. Alla fine del canto XXXII del Purgatorio, immagina una scena quasi sessuale. 

Sicura, quasi rocca in alto monte, 

seder sovresso una puttana [47] sciolta 

m’apparve con le ciglia intorno pronte; 

e come perché non li fosse tolata, 

vidi di costa a lei dritto un gigante; 

e basciavansi insieme alcuna volta. 

Ma perché l’occhio cupido e vagante 

a me rivolse, quel feroce drudo [48]

la flagellò dal capo infin le piante.  (Purg. XXXII, 148-156)

La puttana è la curia, il drudo, l'amante disonesto, il re. “Puttana” è “putain” in francese. Contrariamente agli altri traduttori, Ceccatty [49]traduce “une pute”, parola molto più negativa di “putain”, più volgare, più sdegnosa. Dunque, la critica è più violenta; la parola “drudo” è tradotta da Risset “amant féroce“ o “le rude galant”, da Pézard e da Robert “ce brutal ami”. Ceccatty traduce un “protecteur”, più spregiativo di “amant féroce”. Il re è veramente un “souteneur”, uno sfruttatore, un ruffiano. È una scena di prostituzione: la simonia nel tempo di Dante sarebbe prostituzione oggi. 

Talvolta Dante gioca con la lingua. Come tradurre questi giochi linguistici? Nel canto XXI dell’Inferno, crea i nomi dei diavoli in quello che si può quasi definire un festival creativo [50]. Il processo è lo stesso: creare un nome che gioca con la lingua del popolo e che si capisce facilmente: 

Tra’ti avante, Alichino, e Calcabrina”. 

cominciò elli a dire, ““e tu Cagnazzo ; 

e Barbariccia guida la decina. 

Libicocco vegn’oltre e Draghignazzo, 

Ciriatto sannutto  e Graffiacane 

e Farfarello et Rubicante pazzo. (Inf. XXI, 118-123) 

Qui entra in gioco la creatività dei traduttori. Risset mantiene la parola di Dante e traduce solo in nota a piè di pagina. “Graffiacane” diviene in Pézard “Griffedogue”; “Grifferoquet” in Robert e “Griffechien” in Ceccatty. 

Come tradurre i numerosi neologismi? È possibile per i traduttori creare parole o espressioni che non siano un calco delle parole di Dante? È più evidente quando il traduttore spiega il senso particolare o dà un senso un po’ diverso. Vediamo un esempio:

Nel canto XVII del Paradiso, Cacciaguida, per suggerire il percorso di suo nipote Dante, crea il verbo “infuturarsi”: 

Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie, 

poscia che s’infutura la tua vita 

vie più là che ‘l punir di lor perfidie. (Par. XVII, 97-99) 

Risset e Robert creano il calco in francese “s’enfuturer”, una parola sciatta perché non ha le vocali aperte di “infutura”. Più chiare le traduzioni di Pézard che precisa il senso: “car à ta vie un règne futur s’ouvre /qui passera de loin leur châtiment.” E Ceccatty: “Ta revanche va dépasser / En postérité leur échec.” O Emparadisar (quella che ‘mparadisala mia mente, Par. XXVIII, 3). “Emparadisar ” vs “emparadise” in Pézard, Risset e Robert ma Ceccatty “celle qui rendit / Mon cœur captif du Paradis”.

Metafore, perifrasi e metonimie, dal Trecento ad oggi

Spesso Dante utilizza perifrasi, metafore o metonimie. Nei primi canti dell’Inferno fa riferimento a molti eventi politici attraverso allusioni che forse erano chiare per i suoi lettori ma che non lo sono più per noi. Ciacco predice il futuro di Dante nel canto VI dell’Inferno

E quelli (Ciacco) a me: "Dopo lunga tencione 

verranno al sangue, e la parte selvaggia [51]

caccerà l’altra con molta offensione. (Inf. VI 64-66) 

Pézard e Risset traducono “la parte selvaggia [52]” con “le parti sauvage” ; Robert precisa: “Et lui : "Après beaucoup de dissensions / viendra le sang, et le parti des bois / chassera l’autre avec graves affronts." Ceccatty spiega il senso politico della metafora: “Après, dit-il, s’être insultés / Ils en viendront au sang, les Blancs / Chasseront les Noirs offensés.”

Nel canto XXX del Purgatorio, ci sono i “Venti schiavi” (Purg. XXX, 87); Treccani precisa: “schiavo (pop. tosc. stiavo) [lat. mediev. sclavus, slavus, propr. “prigioniero di guerra slavo”.] Il “TLF” dà l’origine della parola: “Dal latino medievale “sclavus “slave”, Slavoni  vs gli Sclavini erano un popolo vicino ai Bulgari [53]”. Nel francese del Medioevo: “sclavus variante di “slavus”, perché molti Slavi erano stati venduti come schiavi.” Pézard traduce “vents esclaves” ; Ceccatty “les vents esclavons”. Più chiara Risset, “les vents slaves”. Robert traduce chiaramente “les vents de Slovénie”. 

Nel canto XIII del Paradiso, Tomaso allontana i dubbi di Dante su Adamo, Cristo e Salomone: 

Tu credi che nel petto onde la costa 

si trasse per formar la bella guancia 

il cui palato a tutto 'l mondo costa. ( Par. XIII, 37-39) 

La metonimia è utilizzata per molti riferimenti biblici: per indicare Adamo (l’episodio della creazione di Eva, anch’ella designata metonimicamente con l’espressione “bella guancia”), e per descrivere la golosità che causò il peccato originale (il palato). Tutti i traduttori traducono conservando le metonimie ma Ceccatty adotta direttamente i nomi dei personaggi: “Tu crois qu’en Adam, dont la côte / Fut la belle Ève qui, gourmande, / Coûta si cher à tout humain…”

Poi, nel canto XVII del Paradiso, Cacciaguida avvisa Dante: 

Tu proverai si come sa di sale 

lo pane altrui, e come è duro calle 

lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. (Par. XVII, 58-60) 

Robert rispetta le rime di Dante “sale/scale/ vs salé/escaliers” e traduce “Tu éprouveras combien est salé / le pain d’autrui, et pénible pour toi / de parcourir d’autrui les escaliers.” Ceccatty spiega il senso che Barbero [54] dà: “Tu sauras que le pain d’autrui / a goût amer. Et qu’il est dur de quérir l’hospitalité”. Barbero spiega così le metafore “di sale lo pane altrui” e “‘l salir per l’altrui scale”. Altri Ser, per esempio Ciacco come Dante, in cambio di servizi diversi vivevano alla corte di signori come Bartolomeo della Scala [55] che Dante menziona qualche verso dopo con l’espressione “la cortesia del gran Lombardo” e suo fratello Cangrande [56](Par. XVII, 71), in un tempo difficile per tutti perché erano anni di scarsezza e di fame (1311-1317). Sono quasi buffoni, scrocconi (pique-assiette). Secondo Barbero, il pane altrui è l’esilio e l'amarezza dell’ingratitudine. 

Il trobar clus: il limite del tradurre

Dante testimonia di ciò che vive e che vede, malgrado il rischio di scrivere. Spesso segue le orme di Arnaut Daniel [57] e Bertan de Born, di cui ammira il “trobar clus” cioè “versi complessi comprensibili solo da iniziati”, versi in una lingua che non si può intendere alla prima lettura ma il cui senso stimola la partecipazione del lettore che deve interpretarli. 

Dal canto VIII dell’Inferno fino al canto XXXIII del Paradiso, Dante esorta i suoi lettori alla vigilanza, in un dialogo fittizio che permette di tessere un legame amichevole. Nell’Inferno

O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, 

mirate la dottrina che’ s’asconde 

sotto ‘l velame de li versi strani [58]. (Inf. IX, 61-63) 

Nel Convivio II, I. 6-7, poi nella sua Epistola a Cangrande, dichiara che i suoi testi hanno quattro sensi, il primo è letterale, il secondo allegorico, il terzo morale e il quarto anagogico.

Nel canto IV dell’Inferno, Virgilio e Dante entrano nel Limbo la sera di venerdì 8 aprile (o 25 marzo) del 1300. È il cerchio dei patriarchi biblici e ,dopo, degli “spiriti magni” che si trovano in un castello: 

Venimmo al piè d’un nobile castello, 

sette volte cerchiato d’alte mura, 

difeso intorno d’un bel fiumicello. (Inf. IV, 106-108) 

Cosa significavano le “sette volte cerchiato d’alte mura”? “Alte mura” cioè in francese “murs, murailles, enceintes”. Tutte le traduzioni sono equivalenti. Ma nessun traduttore fa intendere il senso delle “alte mura” al suo lettore che perde la sottigliezza del pensiero di Dante. 

È necessario affidarsi alle note a piè di pagina che chiariscono il testo e approfondiscono il pensiero di Dante. Risset spiega nella nota che il “nobile castello” è un’allegoria della filosofia che rappresenta la ragione umana senza la luce divina. Robert traduce “un noble château / entouré sept fois par d’immenses murs” ma ipotizza in una lunga nota che queste mura fossero i setti rami del sapere “fisica, metafisica, matematica, etica, politica, economica e dialettica”, che loro stessi rappresentavano le tre virtù teologali e le quattro virtù morali e intellettuali “prudenza, giustizia, coraggio e temperanza”.  

Un ultimo esempio. Nell’Inferno, Dante da una parte fa riferimento ai primi versi dei bambini, “lingua che chiami mamma e babbo” (Inf. XXXII, 9), dall’altra si prende gioco del suo lettore inventando due volte un gergo incomprensibile. Il primo verso del canto VII dell’Inferno è il seguente: “Pape Satàn, pape Satàn aleppe!” (Inf. VII, 1) Nessun traduttore lo traduce. Secondo Risset, è un gioco fonetico. Robert traduce solo l’interiezione “ahi!”. Le interpretazioni sono molte. È lo stesso nel canto XXXI “Raphèl mai amècche zabi almi [59]” (Inf. XXXI, 67-69). Nessuno lo traduce perché è incomprensibile e intraducibile [60]. Secondo Risset, il verso è composto da suoni ebraici e arabi per esprimere la confusione delle lingue dopo Babele. 

Per concludere

Dante si è proposto di testimoniare ciò che ha visto. Nel suo viaggio, ha messo alla prova i limiti del linguaggio perché l'esperienza, vissuta e immaginata da nessun umano prima di lui, è tanto straordinaria quanto indicibile. Come trovare parole per dire un’esperienza umana così diversa, così vile o così bella? Come essere il testimone delle esperienze più orribili? Alla fine dell’Inferno, nel canto XXXIV, il canto della Giudecca, Dante scopre il mostro con “tre facce alla sua testa” (v. 38): 

Com’io divenni allor gelato e fioco, 

nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo, 

però ch’ogne parlar sarebbe poco [61]. (Inf. XXXIV, 22-24)

Come trasmettere l’indicibilità dell’esperienza umana più alta che è quella dell’amore? Più Dante si eleva nel Paradiso, più gli è difficile trovare parole: 

E quel che mi convien ritrar testeso, 

non portò voce mai, né scrisse incostro, 

né fu per fantasia già mai compreso [62](Par. XIX, 7-9) 

Poi, nel canto XXX, non è più capace di scrivere, a tal punto che dice: “Da questo passo vinto mi concedo [63]“ (Par. XXX, 22). Alla fine del Paradiso dichiara di essere come un neonato, senza parole: 

Ora mi sarà più corta mia favella, 

pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante 

che bagni ancor la lingua a la mammella [64]. 

[...] Oh quanto è corto il dire e come fioco 

al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi, 

è tanto, che non basta a dicer “poco [65]“ (Par. XXXIII, 106-108; 121-124)

Dire l’indicibile è il segreto e la magia della Commedia: nessun commento, nessuna traduzione potrà mai esprimerne la ricchezza e l’essenza profonda.

  1. Dante, Convivio, I, VII, 14. “Et que chacun sache que nulle chose harmonisée par lien musaïque ne se peut transmuer de son idiome en un autre, sans rompre toute sa douceur et toute son harmonie“.
  2. “Traduire l’absent“, in Pascal Quignard, l'écriture et sa spéculation a cura di Franck Jedrzejewski, Lambert-Lucas, 2020. “Chaque traduction fouille dans sa propre langue jusqu’à deviner l’inconnu de ses abîmes, fouille dans l’autre langue, pour ressentir le rythme, le temps, le souffle qui la traversent et en sont l’essence secrète“.
  3. Dante crea l’espressione “dolce stil novo” nel canto XXIV (v. 57) del Purgatorio.
  4. Dante, De vulgari eloquentia, II, IV, 6. “Le style est tragique quand la solennité des vers, l’élégance de la construction coexistent avec la profondeur de la pensée.”, De l’éloquence, II, IV.
  5. Risset, Dante écrivain ou l’intelletto d’amore, Seuil, 1982, 2.3, p. 81.
  6. La Chanson de Roland, Lancelot, Perceval, Perceval ou Le conte du Graal, Tristan et Yseult XI° secolo, Le Roman de la rose, Le Roman de renard, XIII° secolo.
  7. De vulgari eloquentia (I, XVI, 6). “Nous appellerons illustre, cardinal, royal et courtois (c’est-à-dire digne de la cour) le vulgaire italien qui appartient à chaque ville italienne et ne semble en même temps appartenir à aucune en particulier et qui nous fournit le critère pour mesurer, évaluer et comparer entre eux tous les vulgaires municipaux des Italiens.”
  8. Ceccatty : “Pour bien noter, il faut entendre.”
  9. Christine de Pizan (1364-1430), poetessa francese nata a Venezia nel 1364.
  10. Christine de Pizan, Jean Gerson, Jean de Montreuil, Gontier et Pierre Col, Le Débat sur le Roman de la Rose, Édition critique, introduction, traductions, notes, Hicks, E. (éd.), Paris, Éditions Honoré Champion, 1977, coll. Bibliothèque du XVsiècle.
  11. “Une plaisanterie en vers”
  12. Hugo, La Légende des siècles, Dernière série ”, chant XX “La vision de Dante“, 1883.
  13. Hugo riprende lo stesso copione dell’incontro tra Virgilio e Dante nell’Inferno I, 65-67 “comme vous j’étais jadis homme“; “gridai a lui /qual che tu sia, od ombra od omo certo! / Rispuosemi: Non omo, oma giù fui“ e sviluppa temi danteschi, particolarmente quelli della giustizia e della corruzione del Papa.
  14. Lo stesso copione nel Terzo libro delle Contemplations intitolato “Les luttes et les rêves“ : “Un soir, dans le chemin, je vis passer un homme / Vêtu d’un grand manteau comme un consul de Rome, / Et qui me semblait noir sur la clarté des cieux. […] Maintenant, je suis homme, et je m’appelle Dante. “
  15. Lorenzo Ghiberti (1425-1452).
  16. Inferno, a cura di Jean Clair, Scuderie del Quirinale, Roma, 15/10/2021-9/01/2022.
  17. Claudel, Œuvres complètes, Gallimard, Pléiade, p. 675-689.
  18. Giugno 1940 in Francia, il mese terribile del dilagare delle truppe tedesche sulla Francia e dell’esodo. Dopo la guerra, la Società dantesca di Parigi è sostenuta da André Pézard, Paul Renaudet, Mario Roques e Étienne Gilson con il sostegno della Società dantesca italiana e Francesco Mazzoni.
  19. Dante : bulletin mensuel de culture latine : / directeur, [Numérotation : 1année, n° 1 (mars 1932) - année, n° 4/6 (avril/juin 1940] Publication : Paris, 1932-1940. Testi in francese e in italiano. Il sottotitolovaria. Il nome del direttore non figura sui n° 1-5. La menzione della Societànazionale Dante Alighieri non figura più nel titolo a partire dal 1934.
  20. Tra gli articoli, lettere ritrovate di Stendhal che parlano degli autori italiani e articoli su Dante, “Dante un francescano?” di Henri Buriot-Darsilles e “Dante un ghibellin?” di Henri Hamaide.
  21. André Pézard, L'Évolution lyrique de Lionello Fiumi Napoli, Edizioni di "Realtà", 1957. Fumi ha pubblicato nel 1928 con Armand Henneuse una antologia della poesia italiana.

22. Amédée de Margerie (1900), Adolphe Méliot (1908) in prosa, Ernest de Lamminne (1914), André Pératé (1922), Joseph Berthier (1924), Louise Espinasse Mongenet (1932), André Doderet, Martin Saint-René, Henri Longnon (1938) e André Masseron (1947).

23. André Pézard (1965), Lucienne Portier (1987) ha tradotto la Commedia quando era già pensionata da molti anni. Jacqueline Risset (1985-1990), Marc Scialom (1996), regista e poi professore d’italiano, ha tradotto Il Decameron e La Commedia. Jean-Charles Vegliante, nato a Roma, professore alla Sorbonne, Parigi, saggista, poeta e traduttore (1996-1999). Pézard, Risset e Vegliante sono “Anciens élèves de l’École normale supérieure (ENS)“ dove hanno studiato l’italiano. Alexandre Cioranescu (1911-1999), romanziere, traduttore romeno, ha pubblicato una traduzione nel 1968. Kolja Mićević (1941-2020), poeta, saggista, traduttore serbo ha pubblicato una traduzione nel 1998.

24. Didier-Marc Garin (2003), compositore, ha tradotto La Commedia per creare un’opera musicale. Alain Delorme (2011) alto funzionario, l’ha tradotta quando era pensionato. Claude Dandrea (2013) professore d’inglese, ha tradotto qualche libro dall’inglese e, pensionato, ha tradotto in francese qualche poema di Giosuè Carducci e La Commedia. René de Ceccatty (2017) è scrittore e traduttore in giapponese e italiano. Danièle Robert (2016-2020) traduttrice dell’inglese, spagnolo, latino e italiano.

25. Tradotto chiaramente da Risset : “Pense, lecteur, si ne continuait plus / ce qui commence ici, comme tu aurais / une angoissante envie d’en savoir plus;” e da Ceccatty : “Lecteur, imagine combien / Tu m’en voudrais si j’arrêtais / Ma description en cet endroit. “

26. In ottosillabi (Delorme, Ceccatty), decasillabi (Pézard, Risset), endecasillabi (Robert), alessandrini (dodici sillabe) sia due, sia tre possibilità (Portier). I versi sono numerati da tutti tranne da Dandrea, Ceccatty e Robert per le tre cantiche in un solo libro. Note a piè di pagina o alla fine del libro, per tutti tranne Vegliante ma con qualche spiegazione all’inizio di ciascuno canto e tranne Ceccatty.

27. Professore a Avignone, Lione e al Collège de France a Parigi da 1951. Dopo un libro sulla sua vita alla guerra, pubblica molti manuali di grammatica e di lingua italiana e qualche libro sul Roman de Renard. Pubblica anche saggi e commenti su autori italiani tra i quali Dante, traduce La Vita nova (1933), qualche canto della Commedia (1938), Il Convivio (1940).

28. Nel 1957, pubblica un saggio intitolato L’evoluzione lirica di Lionello Fumi, che fu il direttore della Rivista Dante prima la guerra ecc.

29. Il fondatore della casa editrice Gallimard.

30. Pubblicata nella famosa collana di La Pléiade nel 1965.

31. Non quello dell’epoca di Dante o anteriore, cioè né la lingua di Bertran de Born né quella d’Arnaut Daniel dell’Undicesimo ma quella più leggibile oggi di Villon nel Quattrocento con alcuni accomodamenti. L’edizione nella Pléiade è come un tesoro per la ricerca perché Pézard ha un dispositivo critico straordinario. La sua traduzione è stata quasi un modello per gli altri traduttori: Anche Portier ha uso di arcaismi, Scialom ha ripreso espressioni di Pézard, Vegliante ha tradotto La Commedia con la traduzione di Pézard sotto gli occhi.

32. Inoltre, per fare rivivere in lui il provenzale che certamente conosceva.

33. Pézard traduce l’italiano “anzi” tra “ain“, dal provenzale “anz” sparito del vocabolario francese da secoli. “Sicché” diviene “si que“.

34. Donna amata: (Dante, rivolto a Beatrice, amata da Dio). Vegliante e Ceccatty preferiscono una parola creata dalla psicoanalisi “aimance”. Gli altri traducono senza originalità “amant“.

35. Ceccatty ha tradotto la Commedia in ottosillabi non rimati, versi più flessibili. L’assenza di rime elimina certi problemi di costruzioni lessicali e sintattiche.

36. “N’écrire que ce que je comprenais afin de le faire comprendre aux lecteurs”.

37. Pour que dans un environnement culturel aussi différent qu’est du XIVe siècle florentin le XXIe siècle français, le texte soit encore compréhensible”.

38. Risset traduttrice di Dante (La Divina e Rime), di Machiavelli e di autori francesi in italiano (Sollers e Ponge). Ha fatto parte con Sollers per quindici anni del gruppo Tel Quel, un gruppo di ricerca in letteratura ispirato dallo strutturalismo. I suoi versi sono decasillabi o alessandrini per dare al testo il ritmo del cammino, come aveva fatto Dante con le terzine, un arco teso, secondo lei, verso il futuro del testo. Risset non ha fatto uso della terza rima ma di omofonie e ha giocato con le possibilità della lingua francese Anche Risset ha un dispositivo critico molto utile. Ha avuto un enorme successo con la sua traduzione, che ha venduto più di 400.000 copie e attualmente, dalla fine di settembre 2021, c’è una nuova edizione a cura di Carlo Ossola nella collana della Pléiade di Gallimard. È divenuta il punto di riferimento per La Commedia

39. Rispettando in un certo modo il “sirvente”, il poema in sestine rimate come hanno fatto Bertrand de Born e poi Arnaut Daniel. Crea cosi concordanze col senso di Baudelaire. Talvolta, gioca con la dieresi o il suo endecasillabo diviene un decasillabo a causa del francese “e” muto.

40. Pézard, “dis-moi où sont, et fais que je les trouve : / désir me point de connaître s’ils goûtent / miel dans les cieux ou venin aux enfers.” ; Risset, “dis-moi où ils se trouvent et fais que je les voie, / car j’ai grand désir de savoir / s’ils ont miel dans les cieux ou poison aux enfers.” ; Ceccatty, “Où sont-ils ? Je veux savoir si / Le Ciel ou l’Enfer les accueille / Dans la douceur ou la fureur.”

41. Pézard precisa in una nota a piè di pagina che “latin” significa “italiano”, cioè non greco.

42. Treccani: V. tr. [der. di visco; cfr. lat. tardo viscare, der. di viscum o viscus “vischio” (io invisco, tu invischi, ecc.) col pref. in-¹] (io invìschio, ecc.). - ■ v. tr. 1. (venat.) [spalmare di vischio, di pania o di altra materia appiccicosa] ≈ impaniare, (lett.) invescare.Invischiare (oggi) : engluer, se laisser entraîner. invischiare [der. di vischio.pe)

43. Secondo Treccani: “preciso” significa una parola che “esprime esattamente il pensiero”, un parlare "logicamente netto e intelligibile " (Mattalia).

44. Nel canto IX dell’Inferno, “Ad Arli” (Inf. IX, 112) è tradotto “En Arles” da Pézard, poi Scialom, Ceccatty, Risset e Robert “à Arles”. In francese, è possibile per pochi nomi di città dire “En” e non “à”, sia a causa dello iato tra le due “a” sia perché dire “en Arles” sottintende che si appartiene al paese, esprime una prossimità. Nel canto XXXI dell’Inferno, Risset e gli altri traduttori non traducono Montaperti (Inf. XXXII, 81), perché è un luogo della famosa battaglia per la storia dell’Italia. Pézard, Scialom, Garin e Dandrea traducono “Montapert”.

45. Nella terza parte, Latini espone le sue idee politiche legate alla politica a Firenze.

46. “Il principe d’i novi Farisei” (Inf. XXVII, 85)

47. Già nel canto XIII dell’Inferno, nei versi “La meretrice che mai da l’ospizio / de Cesare non torse li occhi putti,” (Inf. XIII, 64) Ceccatty ha tradotto la “meretrice” con “La grande pute qui jamais / Ne lâcha des yeux l’empereur”. Cesar/ non è il Cesar romano, ma più chiaramente “l’empereur” cioè Federico II. Treccani precisa: “meretrice” s. f. [dal lat. merĕtrix -icis, der. di merere “guadagnare”]. – Donna che si prostituisce, sinon. letter. di prostituta, puttana.”

48. Drudo s. m. (f. -a) e agg. [dal provenz. ant. drut), l’amante disonesto.

49. Ceccatty: “Solide, comme sur un mont / Une forteresse, une pute /Dépenaillée, guettait ses proies. / Pour empêcher qu’on l’enlevât, /Je vis un géant debout près d’elle. /Ils s’embrassaient de temps à autre. / Elle me lança une œillade, / Et son protecteur, s’irritant, / La flagella de pied en cap.”

50. Solo Alchino è un diavolo conosciuto.

51. Selvaggio (ant. salvàggio) agg. e selvaggio m. (f. -a) [dal provenz. salvatge, che è il lat. silvatĭcus: v. selvatico] (pl. f. -ge). – 1. agg. a. Di pianta, che vive e cresce nelle selve, selvatica, non ... Enciclopedia dantesca “e parte selvaggia, / caccerà l’altra con molta offensione” (Inf. VI 65), il partito dei Bianchi, così definiti “per ciò che messer Vieri de' Cerchi... e' suoi consorti erano tutti ricchi... e per questo erano non solamente superbi e altieri, ma egli erano salvatichetti intorno a' costumi cittadineschi per ciò che non erano acostanti all'usanza degli uomini". Salvatichetti : “di persona scontrosa, poco socievole: è un ragazzo un po’ selvatichetto”, scontrosa : “ombrageux, farouche”.

52. Dante usa questa parola alcune volte nel senso comune nelle espressioni “esta selva selvaggia” (Inf. I, 5). Pézard: “cette forêt sauvage”, o nel canto XIII del Purgatorio, pensando agli “invidiosi” che a tutti un fil di ferro i cigli fóra / e cusce sì, come a sparvier selvaggio” (Purg. XIII, 70-71). In francese, Pézard ha la parola giusta: “un épervier hagard”; Risset : “comme on fait à l’épervier sauvage”.

53. “Peuple voisin des Bulgares, les Esclavons“.

54. Alessandro Barbero, Dante, Traduzione Sophie Royère, Flammarion, 2021, Les mystères de Vérone, p. 239-250 (I misteri di Verona).

55. Bartolomeo della Scala (1277-1304), signore di Verona (1301-1304). Dante fa allusione a suo fratello cadetto Cangrande della Scala (1291-1329), signore di Verona (1312-1321): “Con lui vedrai colui che ‘mpresso fue, / nascendo, sì da questa stella forte, / che notabili fier l’opere sue“ (Paradiso XVII, 76-78)

56. Cangrande della Scala.

57. Si ricorda che Dante riprese versi di Arnaut Daniel in provenzale.

58. Risset: “O vous qui avez l’entendement sain, / voyez la doctrine qui se cache / sous le voile des vers étranges.” Robert: “Ô vous qui êtes d’un entendement sain, / considérez le sens profond caché / sous le voile de mes vers sibyllins.”

59. Ceccatty scinde il verso in due parti e ne fa un elemento del discorso della “fiera bocca” “l’ignoble gueule” (v. 68).

60. Incompréhensible et intraduisible.

61. Dante scopre il mostro dal triplo volto: Ceccatty: “Ne me demande pas lecteur / D’expliquer mon effroi. Écrire, parler serait de peu d’effet.”

62. Risset: “Et ce qu’il me faut décrire à présent / jamais voix ne l’a dit, ni encre écrit, / et jamais l’imagination ne l’a conçu”.

63. Ceccatty, “Je déclare forfait ici“

64. Risset “Ma parole désormais sera plus courte, même au regard de ce dont j’ai mémoire, / que d’un enfant qui baigne encore la langue au sein”.

65. Robert “Oh! Que les mots sont faibles et défectueux / à ma pensée ! Et pour ce que je vis, / il est insuffisant de dire "peu ".

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