Maria Callas: attrice del Novecento
Testi scandalistici e studi: quando gli opposti convergono
Nelle varie lingue, la bibliografia su Maria Callas comprende diverse centinaia di titoli [1]. È un corpus disomogeneo e vastissimo, che, combinando specializzazione e generi di consumo, evidenzia la doppia natura del suo argomento: artistico e globale, radicato nella storia del teatro d’opera eppure presente nella dimensione d’una cultura pop in stato di continua auto-citazione e auto-rigenerazione mediatica. In questa bibliografia, accanto alle ricerche documentarie e agli studi musicali, vi sono decine di narrazioni biografiche che insistono su vicende dai riflessi scandalistici: la rottura con la madre e la sorella, il dimagrimento, la perdita della voce, le rivalità, gli innamoramenti, il rapporto con Onassis... Naturalmente, accanto ai numerosissimi libri che hanno scandagliato la vita della donna, figurano studi interessati a comprenderne l’arte e il messaggio culturale [2].
Tuttavia, fra i primi e i secondi ci sono intersezioni, ricorrenze, sguardi reciproci. Parlando di Maria Callas, i testi divulgativi si rivolgono infatti a quei numerosi destinatari che, pur sentimentalmente interessati ai fatti d’una personalità familiare e non all’acquisizione di conoscenze specifiche, presentano un retroterra culturale dove trovano posto altre letture, criteri di scelta, motivi d’interesse, e almeno la visione o l’ascolto di qualche opera o aria.
Considerando che proprio questo ascolto – magari distratto o raro – è comunque alla base dell’acquisto d’un libro sulla cantante, le ricostruzioni biografiche, anche quando commisurate all’esigenza d’una comprensione emozionale e istantanea, non possono fare a meno di riprendere e citare, più o meno consapevolmente, l’essenziale insieme di caratteristiche vocali – un vero e proprio canone callassiano – che, elaborato dagli approfondimenti critici degli anni Cinquanta, ha definito per tempo il rapporto fra Maria Callas e la sua stessa voce. Una voce che ha riscoperto tecniche, ha rinnovato il repertorio operistico, si è dilatata nell’interpretazione del personaggio riformando dall’interno il teatro lirico e, nello stesso tempo, ha trattenuto, e quasi coltivato, i germi del collasso.
Germi già attivi al momento dei massimi trionfi scaligeri.
Il canone callassiano e, poi, la vita conclusa di Maria Callas, definiscono un archetipo umano al quale ognuno può applicare, quale strumento di decifrazione immediata, una parte di sé stesso. Mentre le saldature di volontà e potenza descrivono archetipi paterni o inquietanti ideologie del superuomo, la coesistenza di potenza e fragilità evoca condivise radici umane. È la storia di molti. La potenza in atto viene disgregata dalle fragilità che essa stessa alimenta forzando limiti, consumando energie, facendo leva sull’impossibile al fine di modificare l’esistente. D’altra parte, esaurendosi in quanto azione immediata, la potenza si rigenera in forma di lascito culturale. E il lascito, nel caso di Maria Callas, contiene e trasforma artisticamente le fragilità della voce, consentendo all’ascoltatore contemporaneo di seguire, di registrazione in registrazione, il tragico compiersi d’un percorso umano. Come le azioni sceniche degli attori, le registrazioni callassiane non sono solo musica o solo teatro, ma svolgimenti di vita che mostrano l’interagire – spesso conflittuale – fra il divenire della persona nel proprio tempo biografico e il farsi del canto nel tempo dell’esecuzione.
Nel 1969, allorché la parabola operistica di Maria Callas era ormai conclusa (l’ultima opera interpretata era stata la Tosca del 1965), i musicologi Rodolfo Celletti, Eugenio Gara, Giorgio Gualerzi e Fedele d’Amico si riunirono attorno a Luchino Visconti e al direttore d’orchestra Gianandrea Gavazzeni, al fine di disgiungere l’opera della cantante – un caposaldo della cultura novecentesca – dalla dimensione corrosiva e invadente della fama mondana. In quel contesto, dove si ribadiva che la grandezza anche teatrale di Maria Callas precedeva la fase del dimagrimento e della valorizzazione estetica di sé stessa, Fedele d’Amico sentì il bisogno di precisare che "la Callas [è] un fenomeno nuovo; e che perciò il mito del suo personaggio, per quante degenerazioni abbia potuto subire, non sia nato sul vuoto, sia nato su qualche cosa. In che consiste questo qualche cosa? [3]"
Musicologi, regista e direttore d’orchestra avvertivano il bisogno di contrapporre al mito vuoto della Callas protagonista del jet set il mito pieno dell’artista. L’uno e l’altro «mito» avevano però uno stesso oggetto: la personalità di Maria Callas. È una trasversalità tutt’altro che scontata e, anzi, indicativa di vicinanze insospettate. Il «mito della personalità», quasi del tutto assente fra i cantanti lirici contemporanei, riguarda infatti, con una certa frequenza, gli attori teatrali o cinematografici e, in modo sistematico, i cantanti pop, per i quali tale «mito» è un indispensabile requisito da acquisire, rinnovare e far fruttare sia in senso artistico che commerciale.
In anticipo sui tempi, Maria Callas lavorò in modo sperimentale e sostanzialmente individuale – nonostante le fondamentali indicazioni del Maestro Tullio Serafin e l’indefessa assistenza del marito Giovan Battista Meneghini – alla riformulazione in senso mitopoietico della propria personalità. Si trattava di trasformare gli ovvi successi d’una carriera in sicura ascesa in operazioni di riforma che rinnovassero stabilmente le tecniche vocali, i repertori e la stessa percezione mediatica e globale del teatro d’opera. Nel 1982, Jean Lacouture rinfresca il canone callassiano, introducendo l’azione dei media e spostando l’attenzione dalla riscoperta della vocalità della Pasta e della Malibran alla disgregazione del sistema dei ruoli. Per lui, l’apporto della Callas si può riassumere in tre «rivoluzioni»: l’irruzione della cultura operistica nella conversazione di tutti i giorni; l’abolizione delle convenzioni stilistiche e delle barriere fra i registri (rese obsolete dal fatto che una cantante aveva potuto interpretare Brünnhilde, Turandot, Elvira e Rosina); la reinvenzione della recitazione tragica applicata all’opera [4].
Vista in prospettiva, l’azione culturale di Maria Callas si risolve in una rivoluzionaria «regia di sistema» [5] che eccede le ampie competenze della regia lirica, invadendo mediaticamente gli spazi della quotidianità sociale con immagini e gesti d’artista. Tuttavia, anche prima del celebre dimagrimento e delle clamorose affermazioni scaligere, il fatto che la cantante non agisse solo nell’opera, ma anche sull’opera, incominciava ad emergere agli sguardi più attenti. Il tenore Giacomo Lauri-Volpi, che, già anziano ma ancora in arte, vide la Callas in Norma nel febbraio del 1950, notò che, al confronto con la cantante, tutti gli altri interpreti sembravano entrare in zone di marginalità diversamente caratterizzate. Equilibri e strutture dell’opera belliniana venivano così modificati dalla presenza della protagonista:
La voce, lo stile, il portamento, la forza di concentrazione e di espansione – sistole e diastole prodigiose dello spirito – raggiungono in questa donna un’efficacia non comune. Davanti alla sua personalità inquieta e possente, «Adalgisa» scompare nell’ombra. «Pollione» non è più il «fiero latino». Appena «Oroverso» le tiene testa, con dignità ed ardore. Nell’ultimo atto, la voce implorante di Norma m’ha dato la gioia pura dell’arte: «Pensa che son tuo sangue» è quanto di più materno e straziante sia stato mai scritto nel teatro di musica [6].
Il 30 gennaio del 1953, dopo avere cantato con Callas Lucia di Lammermoor e Trovatore, Lauri-Volpi ipotizza che, in un futuro imminente, «l’Eroe cantore» farà rinascere il teatro lirico occupando il posto che gli compete all’interno del nuovo ordinamento registico. La sua previsione accosta l’emergere della «giovane artista» alla nuova «sovranità» del «regista famoso», individuando in questa auspicata diarchia il superamento degli arbitri, delle approssimazioni, degli smorti retaggi del teatro lirico:
Ed ora, badate, non [ostacolate] […] una giovane artista che, va suscitando il consenso delle folle e potrebbe ricondurre il teatro lirico all’epoca d’oro del fanatismo popolare per il canto. Dobbiamo comprendere che, se la decadenza dell’opera va attribuita all’ingerenza di forze che soppiantarono l’autorità e la personalità del solista […] sta affacciandosi alle porte una nuova sovranità: quella del regista famoso […] che detronizzerà e masse e direttori e sarà il vero […] Demiurgo del dramma in musica, che tutto regolerà e governerà: scenari, luci, prospettive, coro, orchestra, cantori, movimento scenico, interpretazione... E l’Eroe cantore conoscerà finalmente il posto che gli compete, grazie all’acuto senso della misura e dell’equilibrio che il nuovo Animatore avrà cura d’instaurare [7].
Per comprendere le ragioni di questa insolita alleanza che coniugava «Eroe cantore» e regista a tutto discapito dell’autorità esercitata dal direttore d’orchestra, occorre considerare che Lauri-Volpi odiava Arturo Toscanini, colpevole di averlo tenuto lontano dalla Scala per sette anni. A lui, si riferiva chiamandolo spregiativamente «il Nume». Tuttavia, questa visione dell’opera futura, per quanto influenzata da vicende personali, sarebbe stata presto confermata, negli anni 1954-1957, dalla collaborazione fra Maria Callas e Visconti. Intesa, questa, fortemente cercata sia dal regista, che «dopo ogni recita» inviava alla Callas «lunghi telegrammi […] seguiti da richieste di poter lavorare con lei» [8], sia dalla cantante che rese possibile la collaborazione intervenendo energicamente presso la direzione della Scala. Sull’episodio si diffonde Giovan Battista Meneghini:
Anche a Ghiringhelli, Visconti non era simpatico. Nonostante tutto quello che è stato scritto, non credo che lo fosse neppure a Toscanini. Infatti, non mi risulta che il grande maestro abbia raccomandato Visconti alla Scala. […] Le uniche persone che si sono interessate realmente perché Visconti entrasse alla Scala, siamo stati io e Maria, Ne parlavamo spesso a Ghiringhelli, il quale, forse stanco di sentirci raccomandare Visconti, decise di farlo lavorare [9].
Il dimagrimento, la collaborazione con Visconti, i vestiti di Biki, i servizi fotografici di Cecil Beaton (lo stesso fotografo di Greta Garbo e Audrey Hepburn), la vicinanza con con Zeffirelli, furono per Maria Callas strumenti d’un generale restyling visivo dell’opera lirica, intesa sia in quanto pratica artistica sia in quanto presenza mediatica. Grazie al molteplice definirsi della sua personalità di artista e personaggio pubblico, ciò che avveniva sulle scene del teatro d’opera e intorno ai loro protagonisti cessò di essere una questione di musica coreografata per ambientarsi fra i fenomeni di punta dell’immaginario contemporaneo.
Fedele d’Amico riconosce che l’importanza storica di Maria Callas non si limita alle interpretazioni, ma riguarda l’interpretare e, a monte dell’azione vocale, i repertori musicali:
Il suo avvento ha rinnovato due cose. Anzitutto il repertorio: tutto un tipo di opere fino a ieri considerate morte o ineseguibili è stato riqualificato dalla sua esperienza; e dico tutto un tipo di opere, non semplicemente quelle singole che lei ha cantato. In secondo luogo ha rinnovato il nostro modo di ascoltar l’opera, ossia le nostre pretese, e perciò i mezzi di soddisfarle, ossia gli interpreti. Questa è la Callas storica; libero poi, chi voglia, di preferire la sua immagine mitica [10].
Tuttavia, il musicologo non si spinge a seguire gli sviluppi di quella che Jean Lacotoure chiamerà la prima rivoluzione di Maria Callas. Per lui ciò che riguarda la musica si risolve in atti interpretativi e d’ascolto, in rappresentazioni e in registrazioni, senza perciò toccare il problema della ricezione sociale delle rappresentazioni operistiche. Questione che, invece, occupò Maria Callas fin dagli anni della formazione ateniese. Ricorda Kiki Xakousti, giovane vedova, che abitava con la figlia e la madre giusto di fronte all’appartamento dei Kaloyeropoulos (cognome originario di Maria Callas):
Quanto alla voce a alla carriera, Maria era ottimista per ciò che riguardava il suo avvenire. Ma anche allora non smetteva di ripetere che la gente ne aveva abbastanza di vedere delle prime donne enormi. Esclamava: «Diventerò una silfide!» [11].
Le tappe del dimagrimento – avvenuto molti anni dopo la giovanile previsione – sono indicate da Giovanni Battista Meneghini, che, anche se questo non era certo il suo scopo, fornisce agli studi la possibilità di contestualizzare questo fatto apparentemente personale, ma, in realtà, di straordinaria incidenza performativa, nel progredire della carriera e del disegno riformatore della cantante: Gioconda (Scala, dicembre 1952) 92 chili; Aida (Londra, giugno 1953) 87 chili; Norma (Trieste, novembre 1953) 80 chili; Medea (Scala, dicembre 1953), 78 chili; Lucia di Lammermoor (gennaio 1954) 75 chili; Alceste (Scala, 4 aprile 1954) 65 chili; Don Carlo (Scala, 12 aprile 1954) 64 chili [12].
Il dicembre del 1952 è un momento significativo nella storia di Maria Callas che i giorni 7, 9, 11, 14, 17 di quel mese debutta alla Scala nel ruolo di Lady Macbeth, dimostrando di possedere, aldilà del congenito istinto teatrale, trascinanti e duttili capacità di attrice, confermate di lì a poco dall’interpretazione di un altro personaggio infero come la cherubiniana Medea (Firenze, maggio 1953).
La decisione di dimagrire, dunque, segue e poi accompagna il progressivo completamento del canone callassiano, che, dopo l’estremo eclettismo vocale e il recupero individualizzato e inventivo della tecnica del belcanto, annovera anche il visionario intreccio di interpretazione musicale e interpretazione scenica. La fisicità imponente non ostacolava il processo d’immedesimazione e l’energia della performance, ma limitava l’azione della cantante agli ambiti del vecchio teatro d’opera, che accettava per convenzione e anche emozionandosi la visione di una donna che, «malgrado il peso, […] si butt[asse] su e giù per le scale, i piedi in alto la testa in basso, mentre continu[ava] a cantare, emettendo delle note gravi pazzesche» [13]. Se non fosse dimagrita, Maria Callas non avrebbe potuto ambientarsi nella dimensione figurativa delle regie di Visconti; dimagrita l’avrebbe invece trascesa, confermandosi immagine emblematica dell’opera e del canto. Ciò che mi preme osservare è che il dimagrimento coniuga la conquista d’un forte profilo attoriale all’introduzione della regia all’interno dell’opera italiana. Aldilà della questione estetica, si tratta, quindi, di una linea strategica che accredita la dimensione mitica dell’interprete, consegnando alla memoria della collettività la storia d’una metamorfosi vissuta sotto i riflettori.
A guidare la trasformazione della Callas non c’era soltanto il viso fresco e incantevole di Audrey Hepburn, la cui foto Zeffirelli vide nel camerino della cantante «nel periodo in cui era grassissima» [14], ma anche il fatto che la debuttante protagonista di Vacanze romane (1953) vinse quell’anno l’Oscar come migliore attrice. Unite assieme, arte e bellezza erano un passaporto che schiudeva l’accesso a una scena globale e nella quale la vecchia opera lirica, se non voleva correva il rischio di ridursi a fenomeno di nicchia, doveva rassegnarsi ad essere rappresentata da chi – come la nuova Callas – conosceva e parlava sia il linguaggio dell’arte che quello mediale.
Dopo il dimagrimento, si dipartono, a partire dal 1953, filiere di azioni che riformano l’immagine pubblica della cantante. Ci sono i grandi spettacoli con Visconti – La Vestale (dicembre 1954), La Sonnambula (marzo 1955), La Traviata (maggio 1955), Anna Bolena (aprile 1957), Ifigenia in Tauride (giugno 1957) – che dimostrano che l’opera è anche teatro e che questo teatro, vivendo, sorprende, emoziona, riscopre, inventa e cambia continuamente.
E poi ci sono i servizi fotografici, il presenzialismo mondano, le interviste, i rapporti con la stampa e, contestualmente a tutto questo, il crescente aumento dei cachet che, lungi dall’essere un valore puramente economico, attesta la fuoriuscita dal tariffario operistico a effetto dell’entrata nel mito.
Oppure, invertendo i rapporti di causa ed effetto, dimostra che la fuoriuscita dal tariffario, in qualche misura, produce l’entrata nel mito.
Scrive, al proposito, Giovanni Battista Meneghini, che seguiva, da industriale, gli affari della moglie:
Era mia convinzione che il cachet di Maria dovesse salire continuamente, perché in questo modo contribuiva a far aumentare il suo prestigio, a creare il mito della massima grandezza, della irraggiungibilità. Se Maria fosse stata economicamente alla portata di qualunque teatro, non sarebbe mai diventata ‘La Divina’. Questa era la mia teoria e i fatti mi diedero ragione [15].
Sembra probabile che questi percorsi, ora artistici, ora puramente mediatici, ora economici, siano stati condotti, dal punto di vista della cantante, anche allo scopo di trasmettere una scarica di vitalità ai sopiti centri nervosi della vecchia opera lirica. Non differentemente da Eleonora Duse, che diceva che i teatri dovevano bruciare, Maria Callas parlava del suo teatro d’elezione, l’opera, come di una cosa morta: un «cadavere». Ecco cosa risponde a Giacomo Gambetti, che, nel 1969, l’intervista sul set della Medea cinematografica, chiedendole se «pensa che l’opera lirica abbia ancora ragione d’essere, oggi, specie per il pubblico»:
Forse la lirica è superata. Ci vogliono troppi soldi, troppa gente, per poco pubblico. E poi o la si fa nel modo migliore o no. Lo dissi nel ‘54 inaugurando la stagione di Chicago: l’opera è un cadavere che ha ancora qualche reazione nervosa. Ma costa troppo, per raggiungere poi pochi spettatori, e non parliamo della televisione [16].
La scelta delle metafore è indicativa. Eleonora Duse parla di incendio, intendendo che il teatro così com’è deve dissolversi per rinascere diverso.
Maria Callas, avvilita dalla perdita della voce, ricorre invece a un’immagine mortuaria e forse inconsciamente autobiografica, che, però, rivela quale fosse, nella sua prospettiva, la meta delle «rivoluzioni» operistiche. Non si trattava di approdare ad un teatro diverso, nel senso di incognito, latente, ancora contenuto nelle pieghe del futuro, ma di restituire all’opera la sua centralità ottocentesca mettendola in grado di competere con i nuovi media: il cinema e la televisione. Il divismo, quando ancora – per lei – i giochi erano aperti e la sua voce consentiva di condurre straordinarie strategie di rilancio, venne dunque utilizzato come strumento di rivalsa agonistica e di ri-affermazione sociale del genere operistico. Di fatto, il primo e il secondo «mito» della personalità di Maria Callas includono entrambi la dimensione mediatica, con l’importante differenza che, in un primo momento, la cantante combina presenza scenica e identità mondana, ristabilendo e rafforzando l’incidenza del teatro d’opera sull’immaginario collettivo, mentre, poi, resta prigioniera dell’estraneo campo di forze in cui si era introdotta a continuava a sopravvivere ormai priva di strumenti artistici.
Tuttavia, anche nelle fasi parallele e successive alla turbolenta e devastante relazione con Onassis (1959-1968), che dirada le sue interpretazioni operistiche fino al congedo dalle scene con la Tosca data al Covent Garden di Londra (1965), Maria Callas continua a sperimentare soluzioni, influendo sui contesti teatrali in cui opera. In primo luogo, a partire dal gala di Parigi del 1958, dilata le possibilità performative della forma concerto sia utilizzando elementi reali (l’abbigliamento, il podio del direttore, lo spazio del palcoscenico), sia svolgendo sulle musiche dei preludi pantomime descrittive del personaggio e abilmente raccordate al canto drammatico. Se confrontati ai rari filmati delle rappresentazioni teatrali (tre versioni dell’Atto II di Tosca, un recitativo di Norma, brevi sequenze senza audio dalle prove di Medea), le riprese dedicate ai concerti sono relativamente numerose: Parigi (1958), Hamburg (15 maggio 1959 e 16
marzo 1962), Londra (4 novembre 1962). Dall’organizzazione scenica di questi eventi, dalle micro-drammaturgie dei loro singoli numeri come anche dai criteri delle scelte e degli accostamenti, risultano alcuni ricorrenti principi costitutivi per cui ogni concerto presenta momenti di recitazione muta, almeno un brano rappresentativo degli approfondimenti psicologici di Giuseppe Verdi [17], e successioni di personaggi discordanti che valorizzino, con forti effetti di contrasto, l’eclettismo dell’interprete: la Leonora del Trovatore e Rosina a Parigi 1958; Lady Macbeth e Rosina a Hamburg 1959; Chimène (da Le Cid di Massenet) e Carmen a Hamburg 1962; Elisabetta di Valois e Carmen a Londra 1962.
Poi, nel 1969, lavorando assieme a Pasolini alla Medea cinematografica, Maria Callas si dispone a interpretare, con mitezza e comprensione del suo inafferrabile interlocutore ancor più che del loro rapporto e di se stessa, una parte che aveva voracemente metabolizzato la sua identità di donna turbata dalla perdita dell’identità artistica18. L’interiorizzato «terrore» di Medea, barbara spossessata di magia e d’amore, si radica nel «terrore di non essere» che informa l’indole profonda della cantante. Scrive Pasolini in una poesia a lei dedicata:
Eppure lei, lei, la bambina,
basta che per un solo istante sia trascurata,
si sente perduta per sempre;
ah, non su isole immobili
ma sul terrore di non essere, il vento scorre
il vento divino
che non guarisce, anzi, ammala sempre più [19].
Franco Ruffini, riflettendo sulle Medee della Callas, si chiede «quale Callas era capace di recitare». E risponde: «la Callas cantante» [20]. In linea di massima certamente sì, ma non sempre e non solo. Maria Callas, in quanto alter ego performativo del drammaturgo musicale, era in grado di recitare le parti di cui comprendeva, per via intuitiva e di studio, il processo compositivo. Disposizione che riduce notevolmente il campo all’interno della stessa opera lirica, escludendo la totalità dei musicisti contemporanei, mentre tollera, in compenso, il prodursi di casi extra-musicali. Al proposito della Medea di Pasolini è probabile che l’interprete abbia consapevolmente influito – come lei stessa afferma [21] – sulle scelte del regista, e che nel tradurle in azione e presenza filmica, si sia interrogata sulle loro ragioni, disponendosi a interpretare la barbarie attribuitale da Pasolini [22] al di qua d’ogni riferimento autobiografico che non fosse la dedizione di sempre alla comprensione della parte.
Infine, dal punto di vista mediatico, anche la devastante tournée, condotta negli anni 1973/1974, con il tenore Giuseppe Di Stefano costituisce, per quanto disastrosa, un colpo maestro che accende l’attenzione d’un pubblico internazionale sull’auto-celebrazione dei due cantanti.
Le narrazioni intorno a Maria Callas, quelle d’impianto scientifico e quelle più legate all’attenzione per le vicissitudini della donna, elaborano un archetipo umano in cui potenza e fragilità si succedono e gemmano l’una dall’altra determinando continue oscillazioni fra gli estremi, per cui all’immodificabile cronologia dei fatti storici corrispondono successioni di segno contrario, dove la morte solitaria viene riscattata dall’ascendente stabilità del mito, e le modificazioni delle voce alimentano, grazie alle registrazioni, un teatro sonoro che coniuga fruizione musicale e impressioni di presenza: quasi episodi d’una biografia della voce che esponga direttamente, fase dopo fase, le peripezie del suo oggetto.
Un caso a parte è la congerie di testi narrativi e drammatici dedicati a Maria Callas. In questi la «beatificazione laica» della cantante evita di riferirsi alla perennità del suo lascito musicale, per appoggiarsi ai riflessi salvifici di quella sofferenza e di quel patire che l’allontanano dalle contraddittorietà della vita per isolarla – specie nella letteratura a lei ispirata – «nella devozione riservata alla Madre, alla Madonna, a una martire» [23].
La narrazione teatrologica
Applicata a Maria Callas, l’analisi teatrologica – attenta al processo compositivo e alle interazioni fra individualità artistica e sistema teatrale – svolge una narrazione ancora una volta diversa, che non si interessa al «mito» della personalità ma ricava, a partire dai documenti, una drammaturgia eclettica e individualizzata, che, priva d’un alveo di scorrimento precostituito e corrispondente ai suoi impulsi, procede organizzando interferenze fra le dimensioni culturali e artistiche del regista e del direttore d’orchestra, dell’attore e del cantante, dei singoli allestimenti operistici e delle prassi rappresentative in genere.
In questa prospettiva, la formazione di Maria Callas, la sua azione riformatrice, il suo originale lavoro sulla parte nel contesto dell’ensemble e la sua concezione di performance, presentano caratteristiche particolarissime che si staccano dalle prassi d’un teatro eminentemente pragmatico e funzionale come è quello lirico. Intorno a questi elementi e dinamiche vedrò di identificare, nei paragrafi che seguono, snodi di artigianato espressivo, che si inquadrano nel frenetico intrecciarsi di spinte al superamento – dall’introiezione dell’intero spettacolo al rilancio mediatico dell’opera – che animano dall’interno gli slanci più clamorosi e incisivi della parabola callassiana.
Peripezie di voci spezzate
La formazione di Maria Callas attraversa due magisteri successivi, quello del soprano Elvira de Hidalgo e quello del direttore d’orchestra Tullio Serafin. Elvira de Hidalgo, insegnante di canto al Conservatorio di Atene e cantante celebre, all’inizio del secolo, nei ruoli di Rosina e Gilda, trasmise alla giovane Maria Kaloyeropoulo l’antica tecnica belcantistica, che veniva generalmente disattesa a effetto delle modalità veriste che richiedevano voci più potenti che agili, più melodrammatiche che capaci di colorazioni delicate. Straordinario soprano d’agilità nella sua giovinezza, Elvira de Hidalgo restò colpita dal timbro personalissimo dell’allieva, della quale corresse l’incontrollato volume d’emissione e la tendenza «a cantare [...] in una tessitura troppo bassa per la sua voce» [24], facendole esercitare secondo le modalità belcantistiche che comprendevano tanto gli esercizi di Giuseppe Concone (1801-1861) e Heinrich Panofka (1807-1887) che la rivisitazione e l’utilizzo in senso propedeutico e formativo del repertorio ottocentesco ( Norma e Trovatore in primo luogo). Quando, nel 1937, Maria Callas si era trasferita da New York ad Atene, la sua voce possedeva già quell’inconfondibile timbro parlante ed espressivo, che le avrebbe consentito di definire il colore timbrico d’ogni personaggio interpretato, mentre era ancora lontana dal raggiungere quell’impressionate estensione dal fa sotto la riga di sol al fa sopracuto, che l’avrebbe accompagnata nella prima fase della carriera, permettendole di frequentare un repertorio pressoché universale in quanto aperto a parti di contralto, di soprano drammatico e soprano di coloratura. Hidalgo riconobbe che la giovane Maria presentava una forza naturale nel registro di contralto e che a partire da questa dote sarebbe stato possibile ricavare un soprano sfogato o assoluto [25]. La sua azione formativa fu determinante e duratura, ma anche spericolata poiché assecondò l’allieva nel disegno di coltivare le proprie doti nel senso dell’eccezionalità, formalizzando così un fenomeno vocale che, proprio perché unico, si misurava fin dall’origine con le incognite connesse al suo essere ‘fuori norma’. E cioè privo sia di parametri immediati di confronto con altre categorie vocali sia di assodati criteri di conduzione e sviluppo.
Lavorando con Hidalgo sull’estensione del registro, Maria Callas mostrò – già durante la formazione ateniese – una preoccupante mancanza di omogeneità di tono fra le sue «tre voci differenti»: quella alta, quella centrale, quella bassa. Osserva Nicolas Petsalis-Diomidis, che ha per primo studiato in modo esaustivo la formazione ateniese della cantante:
La mancanza di omogeneità di tono fra le tre «voci differenti» rappresenta una particolarità che Maria acquisì molto presto, fin dall’epoca in cui lavorava con Hidalgo, e che si sviluppò di pari passo con l’estensione del suo registro: infatti, era la conseguenza naturale dell’estensione della voce verso l’alto e verso il basso grazie all’uso del petto o della testa come risuonatori. Le sue transizioni erano quasi sempre percepibili e la sua tonalità variava, passando da un registro all’altro. Hidalgo non riuscì a eliminare queste imperfezioni e, più tardi, nemmeno Maria riuscirà a liberarsene, mascherandole in modo astuto, almeno fino agli anni Sessanta [26].
Ascoltando le registrazioni di Elvira de Hidalgo (come il valzer «O légère hirondelle» da Mireille di Gounod o «È strano» dalla Traviata) appare evidente che la sua pratica belcantistica percepiva gli abbellimenti in funzione virtuosistica (con propensione ad allungare le note) ancor più che drammatica e interpretativa, ma proprio la distanza fra il modello della «voce-strumento» e il fenomeno Callas, fa meglio comprendere il senso del percorso formativo della giovane Maria Kaloyeropoulo, che aveva lasciato la precedente maestra di canto, Maria Trivella, e cercato una nuova e più prestigiosa insegnate allo scopo di schiarire la voce e acquisire il controllo di quel registro alto che, solo, consentiva l’accesso alle parti da prima donna assoluta dell’opera italiana. «Trivella appartiene alla scuola francese – confida la giovanissima Callas a Hypatia Louvi, che sarà con lei allieva della Hidalgo –. Non va bene per me. Io voglio sviluppare il mio registro più alto» [27]. Avendo coadiuvato con sensibilità e competenza le precoci strategie dell’allieva, Elvira de Hidalgo va considerata, ancor più che come autonoma formatrice, in quanto ‘coautrice’ d’un fenomeno vocale che, caratterizzato da un funambolico eclettismo conquistato a dispetto del timbro «nerastro» della voce naturale [28], nasceva per esistere con totalizzante pienezza e non allo scopo di durare.
Giunta in Italia nel 1947, dopo un’inconcludente parentesi a New York, Maria Callas entra in contatto con il maestro Tullio Serafin, che, in primo momento, notando l’intensità della voce e la potenza del registro medio, crede di trovare in lei un soprano drammatico wagneriano. In questa fase, l’anziano maestro l’indirizza verso ruoli che erano stati nel repertorio della moglie, il soprano Elena Rakowska [29]: Isotta in Tristano e Isotta (Venezia, Teatro La Fenice, dicembre 1947; Genova, Teatro Grattacielo, maggio 1948); Brunilde nella Valkiria (Die Walküre) (Venezia, Teatro La Fenice, gennaio 1949); Kundry nel Parsifal (Roma, Teatro dell’Opera, febbraio 1949). Tutti cantati in italiano. Alla linea wagneriana, Serafin intreccia altre fondamentali combinazioni di composizione musicale e drammaturgia del personaggio: l’esotica Aida (Torino, Teatro Lirico, settembre 1948), la tragica Norma (Firenze, Teatro Comunale, novembre 1948), alle quali si aggiunge di lì a poco la realistica Violetta (Firenze, Comunale, 1951), che, coniugata alla sacerdotessa belliniana, completa il dittico di riferimento della cantante [30].
A questo già impegnativo repertorio, I Puritani di Bellini (Venezia, Teatro La Fenice, gennaio 1949) e l’Armida rossiniana (Firenze, Maggio Musicale, aprile 1952), sempre dirette da Serafin, aggiungono gli stratosferici virtuosismi di parti originariamente scritte per Giulia Grisi e Isabella Colbran. Da un lato, si profilano, minuziosamente studiati assieme al direttore, parti che accompagneranno l’intera carriera di Maria Callas, dall’altro, i salti di generi, stile e tipo di vocalità contribuiscono ad alimentare intorno alla cantante un febbrile clima d’attesa, pur sottoponendo a rischi d’usura la sua voce.
A differenza di Arturo Toscanini, che «amava le piccole voci» e tendeva ad escludere i cantanti più ampiamente dotati (memorabile lo scontro con Lauri Volpi) e a favore di interpreti intelligenti e disciplinati che si adeguassero alla sua interpretazione, Tullio Serafin seguì con interesse di musicista e formatore i fenomeni vocali dell’epoca, come Enrico Caruso, Titta Ruffo e Rosa Ponselle, che portò al trionfo nel ruolo di Norma dopo due anni di studio.
Il magistero di Serafin sviluppò il processo formativo di Maria Callas, facendole esplorare l’universo drammatico della partitura. Se Hidalgo aveva introdotto la giovane Callas alle tecniche e agli esercizi del belcanto, Serafin legò questi esercizi e tecniche al pensiero creativo del compositore. Pensiero che, attraverso la scrittura musicale, porta il cantante a connettere studio della voce, espressione, testo e recitazione. Nel teatro lirico, il personaggio si presenta infatti in quanto espressione del significante musicale, e non, come accade nel teatro drammatico, in quanto referente distinto dal testo che lo trasmette all’interprete o al lettore attraverso sintomi e segni da tradurre in esperienza scenica o allestimento mentale.
Per l’attore-cantante lavorare sul personaggio significa sottoporre la partitura a interrogazioni e indagini che illuminino il senso dei significanti sonori fino a individuare, a integrazione di questi ultimi, anche gli elementi impliciti e invisibili del processo compositivo: le pause, i respiri, le intenzioni, i gesti e comportamenti scenici. Circa l’insegnamento di Serafin, Maria Callas si è diffusa con particolare ricchezza di indicazioni in una conversazione con Stelios Galatopoulos:
[Serafin] mi aprì gli occhi, mostrandomi che c’era una natura per tutto nella musica: le fioriture, i trilli e tutti gli altri abbellimenti sono l’espressione del compositore, dello stato d’animo del suo carattere nell’opera – questo è ciò che sente in quel momento, le emozioni che lo attraversano e lo attanagliano. […] Una delle prime cose che mi disse (che, di fatto, era un principio basilare del Bel Canto), era di preparare sempre la frase dentro di te, nella tua anima, prima di cantarla: il pubblico te la legge in faccia – quindi la canti e non creerai nessuno stacco, attaccando ad esempio la nota dal basso o dall’alto.
Suggeriva, inoltre, che queste pause erano spesso più importanti della musica stessa, che c’era un ritmo, una misura per l’orecchio umano, e che se la nota fosse stata tenuta troppo a lungo avrebbe, dopo un po’, perduto valore […]
Serafin m’insegnò le proporzioni del recitativo – quanto sia elastico, il tipo di bilancia altalenante che solo tu puoi comprendere nella misura in cui lo tieni leggero.
Ed inoltre egli sosteneva che se vuoi trovare un gesto o un’azione appropriata sul palco devi solamente ascoltare la musica – ad una pausa, ad un accordo, ad un crescendo. Imparerai così, esattamente, la profondità e la giustificazione della musica. Questo è il perché cercai di assorbire, come una spugna, tutto ciò che potei da quest’uomo insigne [31].
Serafin – ricorda il giornalista Michelangelo Bellinetti – «dirigeva mettendosi dalla parte dello spettacolo, sentito soprattutto come fatto dai cantanti» [32]. Rapportandosi a questo empirico sistema, Maria Callas risalì dalla realizzazione della parte, che ne era l’aspetto culminante, alla concertazione fra elementi e funzioni condotta dal direttore d’orchestra.
Agli apprendimenti trasmessi dal maestro, che abbiamo qui ricordati con le parole della cantante, si venne quindi ad aggiungere l’apprendimento – quasi l’’assimilazione’ – del maestro, le cui prescrizioni ai giovani direttori d’orchestra appaiono, di fatto, callassiane tanto quanto le indicazioni trasmesse durante il lavoro sulla parte. Serafin, da un lato, raccomanda ai giovani aspiranti alla direzione orchestrale di «assistere alle prove, tanto di orchestra, come di concertazione, di scena» [33]; spiega loro che «il melodramma […] scende dal palcoscenico in orchestra; non sale da questa […] al palcoscenico» [34]; e insegna a rispettare il cantante che «è uno dei maggiori coefficienti per riuscire a rendere il pensiero dell’autore» [35].
Dall’altro, Maria Callas assiste a tutte le prove (al piano, con l’orchestra, in scena); considera sé stessa il «primo strumento dell’orchestra» [36], collocando sul palco teatrale il fulcro dell’insieme operistico; sostiene che «il primo dovere del cantante» sia quello «di ricreare, o piuttosto di aspirare a trasmettere la volontà del compositore» [37].
Fra Serafin e Maria Callas non si verificò soltanto un passaggio di esperienze, ma un rispecchiamento di concezioni e obiettivi, al cui interno l’anziano maestro poté efficacemente trasmettere gli intenti compositivi che avevano plasmato in forma di parte il suono delle voci cantanti, perché, già di per sé, la giovane artista percepiva la natura «prespressiva» (E. Barba) degli abbellimenti e degli esercizi vocali, racchiudendo, all’interno della propria esperienza di cantante, il passaggio dall’astrazione sonora all’espressione drammatica:
Oggi – afferma Maria Callas –, neppure i grandi cantanti hanno mai sentito parlare del Panofka o del Concone o d’altri libri di questo genere [che] preparano ai trilli, alle gamme, alle roulades [rapide scale ascendenti e discendenti] e ai legati. Per me questi non sono secchi vocalizzi, né particelle ghiacciate di gamme cromatiche, di acciaccature o trilli, ma dei fantastici embrioni di melodie, delle prove, dei primi tentativi di brani musicali che non hanno ancora preso forma [38].
Il fatto che la Callas abbia contribuito a cambiare il repertorio operistico riscoprendo la vocalità dei «soprani drammatici d’agilità» che – come Giuditta Pasta e Maria Malibran – infondevano senso e sentimento agli abbellimenti belcantistici di Norma, Anna Bolena, Desdemona o Amina, presuppone la comprensione del passaggio originario, quello che, attraverso il compositore, andava dalle voci alla partitura. Corrispondendo gli uni agli altri, gli atti creativi dei compositori, che facevano appello all’automa vocalità dei cantanti, e quelli dei cantanti, che rispondevano alla sfida espressiva dei compositori, si risolvevano in esibizioni di creatività drammatica in atto.
Hegel, scrivendo tra gli anni 1817 e 1819 le Vorlesungen über die Aestetik che usciranno postume nel 1836-38, descrive, in termini che sembrano prevedere la performance contemporanea, la fase che storicamente precede la derivazione delle parti dalle voci. E cioè commenta filosoficamente la libera interazione rossiniana fra scrittura musicale e improvvisazione vocale:
[…] nell’opera italiana è sempre stato lasciato molto all’iniziativa del cantante che ha la maggiore libertà d’azione soprattutto negli adornamenti, e, essendo qui la declamazione maggiormente lontana da un’adesione rigorosa al contenuto particolare delle parole, anche questa esecuzione più indipendente diviene un libero fluire melodico dell’anima che gode di risuonare per se stessa e di innalzarsi ai propri voli. Quando si dice, per esempio, che Rossini ha facilitato il compito dei cantanti, ciò è vero solo in parte, perché lo ha reso al contempo più difficile, avendo egli molte volte fatto appello all’attività del loro genio musicale autonomo. Ma se questo è realmente tale, l’opera d’arte che ne scaturisce acquista un incanto del tutto peculiare, poiché in tal caso si ha presente davanti a sé non solo un’opera d’arte, ma lo stesso reale produrre artistico. In questa presenza completamente viva vien dimenticata ogni condizione esterna […], non resta nient’altro che il suono universale del sentimento in genere, nel cui elemento l’anima dell’artista, che su di sé poggia, si abbandona al proprio effondersi e mostra la propria genialità d’invenzione […] [39].
Aumentando l’interesse del pubblico per le situazioni, i caratteri e il dramma, le composizioni operistiche accentuarono le valenze espressive della storia, pur continuando a venire prodotte in una civiltà scenica fondata sulla presenza del cantante, la cui voce era al contempo materia e destinataria del canto drammatico. Raccogliendo le suggestioni hegeliane, possiamo dire che il fenomeno Callas assorbì pratiche e senso di questa prima eredità romantica, ponendo gli spettatori a confronto con processi artistici che trasformavano l’effondersi canoro della voce in drammaturgia musicale in atto. Non si trattava, allora, di seguire un’interpretazione più o meno efficace e seducente, ma di partecipare all’incarnazione della vitale creatività musicale e scenica che aveva prodotto l’opera rappresentata.
Allorché Fedele d’Amico, all’indomani del debutto scaligero di Anna Bolena (1957), osserva che l’interpretazione callassiana apriva la strada a un diverso modo d’intendere e frequentare Donizetti, le sue argomentazioni non descrivono solo la riscoperta di una tecnica vocale, ma la riattivazione d’un rapporto fra il pensiero del compositore e la persona dell’interprete, la cui identità si svincola dal principio dell’autonomia artistica per manifestarsi, piuttosto, nella riattivazione di due processi creativi che si contengono a vicenda: quello del compositore intorno alla voce del cantante e quello del cantante sulla partitura che lo include. Scrive Fedele d’Amico, recensendo l’Anna Bolena con Maria Callas:
È […] chiaro, adesso, che il successo presso i contemporanei [dell’Anna Bolena] si spiega con la spontanea concordia che allora correva fra l’opera e i grandi cantanti per i quali era stata scritta, e i cui talenti, in percentuale maggiore o minore, erano parte costitutiva della sua nascita. […] Quanto alla protagonista, che la Callas fosse naturalmente nella sua parte era chiaro a priori: il direttore non aveva che da levare la bacchetta, per farne tesoro. E ancora una volta, così i suoi accenti iracondi come le sue confessioni a mezza voce sussurrate «au confessional du coeur» furono quelli di una cantante che rimane una delle più folgoranti apparizioni del teatro moderno. La sola, certo, capace di ritrovare d’istinto il clima dell’opera italiana del primo Ottocento, quella ancora permeata del canto fiorito e tuttavia variamente tesa verso le ambizioni drammatiche del Romanticismo […]. Il suo modo di realizzare e trasfigurare la linea musicale delle colorature in una sorta di lirico sospiro […], oppure di trasformarla, analogamente, in prolungata interiezione passionale, rivela un aspetto essenziale di quelle musiche: e precisamente quello che il tempo aveva seppellito, quello che non troviamo più nella pagina scritta. Avevamo oscuramente immaginato che la presenza della Pasta o della Malibran significassero questo. Ma solo la Callas ce ne ha definitivamente accertati [40].
Considerato che sia la Pasta sia la Malibran debuttarono come contralto e che né l’una né l’altra furono «voci fatte unicamente di cristallo, tastiere infallibili, strumenti astratti; ma [proprio come la Callas] voci ricche, accidentate, mosse, espressive» [41], possiamo considerare il ruolo svolto nella storia dell’opera dalle voci disomogenee e difettose che, da un lato, introdussero istanze attoriali, dall’altro, arricchirono le partiture di valenze espressive tanto evanescenti quanto essenziali al riconoscimento del loro senso drammatico.
La partitura registica della parte
Le strategie d’arte che hanno ricavato dai difetti vocali della Callas invenzioni interpretative; l’indiscriminato eclettismo del primo repertorio e poi il concentrarsi su un numero ridotto di parti in continua evoluzione; lo studio accanito; il carattere drammatico delle interpretazioni musicali e quello addirittura mitico – vista la mancanza di rappresentazioni integralmente filmate – delle realizzazioni sceniche, sono tutti aspetti debitamente rappresentati dal canone callassiano, mentre scarso interesse hanno destato le frammentarie indicazioni intorno all’empirica poetica che consentì a Maria Callas di influire sullo spettacolo complessivo.
La storia di un cantante lirico è essenzialmente storia d’una voce, invece, nel caso di Maria Callas gli aspetti vocali si intrecciano a strategie autorali che intercettano l’emergere della regia lirica e le competenze spettacolari del direttore d’orchestra, individuando fra l’uno e l’altro aspetto una terza via che faceva dell’interprete principale il medium del compositore e il diapason al quale accordare esecuzione e allestimento.
Per realizzare la sua opera artistica e riformatrice, Maria Callas non disponeva di strutture intermedie equivalenti a ciò che il testo è per l’autore drammatico, la sceneggiatura per il regista cinematografico, la partitura per il compositore o il progetto scenico per il regista teatrale, ma di un corpo-in-vita e della voce. Certo, la realizzazione della parte comprendeva il testo e la partitura, che, però, confluivano nel lavoro scenico senza esserne stati prodotti.
Per manifestare senso drammatico e suono del canto, non aveva che una possibilità: caricare sulla ‘carretta del corpo’ quanto era stato scritto o composto, portarlo a vista dello spettatore e restituirlo attraverso brandelli di vita scenicamente e musicalmente organizzata.
Fra la memorizzazione della parte – rapidissima, nel caso della Callas – e la sua realizzazione, c’erano, in questo percorso verso lo spettacolo, lunghe fasi di studio, applicazioni e messe a punto di tecniche, ripensamenti solitari, immaginazioni, verifiche, prove, integrazioni, esercitazioni, acquisizioni, correzioni, suggerimenti, vale a dire tutta una serie di operazioni che rientravano fra le funzioni del vivere, senza perciò risolversi in forme di scrittura preventiva. Le interpretazioni di Maria Callas erano piuttosto esperienze di scrittura scenica che assimilavano, sia individualmente che in sede di prove, la scrittura del compositore.
L’opera di Maria Callas – come quella di ogni artista scenico – veniva realizzata vivendo ed era costituita da costellazioni di momenti di vita: tanti quante erano le repliche d’ogni singola parte realizzata. A differenza dei registi, che normalmente affidano a sostituti l’incombenza di mantenere vivo e ritmato, di ripresa in ripresa, uno spettacolo già allestito, la cantante non poteva mai considerare concluso il lavoro sulla parte, che, finché veniva rappresentata, si modificava, si adattava, si trasformava radicalmente: era un organismo vivo, una creazione in divenire, che trovava, nei rapporti professionali con il direttore d’orchestra, il regista e gli artisti dell’ensemble vocale, un contesto in cui trovare e rilasciare stimoli e indicazioni.
Questa modalità creativa implica l’introiezione dello spartito, del testo, degli spazi teatrali e dell’azione drammatica; matura attraverso le interazioni con gli altri membri dell’ensemble e col pubblico; si risolve nella scrittura d’un esistere in condizioni di rappresentazione, che attiva, in funzione della parte, le molteplici funzioni dell’essere umano: intellettive, mnemoniche, affettive, sensoriali, intuitive e puramente organiche (come le funzioni fonatorie); infine, prosegue aldilà dello spettacolo, agendo sulla concezione della parte.
Per indicarla sinteticamente proporrei di utilizzare l’espressione ‘partitura registica della parte’. Con questa intendo segnalare, all’interno del processo compositivo di Maria Callas, sia la presenza di forme artistiche e repertori personali (di gesti, intonazioni e soluzioni figurative), sia l’azione d’una funzione registica introiettata che, senza mai produrre esiti assolutamente definitivi da restituire in quanto memorizzazione del personaggio, guida in itinere l’intreccio scenico di queste forme e repertori, mantenendosi reattiva, imprevedibile e inventiva. La partitura registica della parte non indica, insomma, un progetto da realizzare, ma la dinamica con cui la parte prende vita e si trasforma.
Maria Callas fa spesso riferimento al fatto che, durante le prove e le rappresentazioni, c’è una parte della sua personalità che si sdoppia e assume il controllo dell’interpretazione e dello spettacolo, agendo all’interno del processo compositivo [42]. Parlando con Lord Harewood, questa funzione registica viene implicata dall’esigenza di «misurare lo spazio, la rappresentazione, il ritmo delle cose». Per cogliere il senso dell’osservazione, occorre considerare che Maria Callas la colloca, come detta da lei stessa, al termine di un micro-dialogo di battute in prima persona fra direttore d’orchestra e regista. La considerazione parte da un rilievo di Lord Harewood che nota come le parti dello spettacolo, invece di incollarsi l’una all’altra, «possono cadere in frantumi»:
Talvolta possono e talvolta si frantumano. Spessissimo. Nelle opere di repertorio come Norma o La traviata, so sempre, o quasi sempre – ma potrei dire sempre –, il momento esatto in cui deve interrompersi il coro. So esattamente quando ripeteranno più volte le stesse frasi. In certi casi, la colla prende, diciamo così. È inevitabile. Allora si riesce a incollare tutti i frammenti: scena, orchestra, colleghi, orchestra, coro, e nel frattempo si provano anche i costumi. Si sono visti i bozzetti, quindi... E alla fine si giunge... Dopo tante belle parole fra il direttore e il regista, del tipo: «No, questa è la mia prova...» «No è la mia» «Va bene, ma non posso continuare a fermarmi; bisogna poter misurare lo spazio, la rappresentazione, il ritmo delle cose». Bisogna misurare... perché fino ad allora non era ancora cantata né rappresentata l’opera per intero [43].
La partitura registica della parte coniuga studio del testo musicale e realizzazione scenica, interagendo con le parti dello spettacolo e le azioni di tutte le componenti dell’ensemble (cantanti e mansioni direttive). Non si tratta d’una nozione teorica forte, ma d’un concetto d’uso, che si articola e precisa nel venire applicato. È infatti il lavoro creativo di Maria Callas, che, in questo caso specifico, ne determina procedimenti e sviluppi. E ciò a partire dagli anni della prima formazione, e, a un livello più personale e intrinseco, dalla costituzione fisiologia dell’artista.
Una miopia geniale
Tolti gli occhiali dalle spesse lenti, Maria Callas non vedeva che ombre: la chiazza vibrante del direttore d’orchestra non le consentiva di distinguere gli attacchi, mentre la fitta bruma che copriva lo spazio scenico non le permetteva di cogliere le distanze da percorrere, i punti da raggiungere, gli interlocutori cui rapportarsi. I grandi occhi di Maria Callas lanciavano sguardi e spalancavano abissi, ma, senza gli occhiali, il loro vedere era solo apparente: un raffinatissimo artificio teatrale. Come lei, un altro grande artista di teatro aveva attraversato la scena senza nulla vedere, ma dando l’impressione di fulminare «con cento occhi» (Fellini) quanto gli accadeva intorno. Si tratta dell’indimenticabile Totò. Restituendone la fisiologia scenica, Meldolesi colloca gli handicap visivi fra le fonti dell’energia teatrale:
Totò aveva recitato da sempre a occhi semi-chiusi, con privilegio della vista di memoria, nonostante la sua ripugnanza per la memoria delle prove. […] È ipotizzabile, quindi, che le due viste di Totò si relazionassero costituendo una vista unitaria, una specie di vista da recitazione. Bastava che rimanesse un barlume della vista naturale, perché la vista della memoria permettesse all’attore di vedersi attorno […]. L’attore Totò, che recitava vedendo principalmente con la memoria, esprimeva le sue visioni con tutto il corpo. In fondo, erano quegli straordinari movimenti del corpo a dire ciò che i suoi occhi semi-spenti vedevano. Nel rinascimento l’attore menomato nella vista suscitava ammirazione, perché da tutte le sue membra si sprigionava un’energia tesa e costante [44].
Anche Maria Callas ricavava energia dall’isolamento visivo in cui la teneva la forte miopia, e, come Totò, vedeva principalmente con la memoria. A farle da guida, assieme alla memoria delle prove, c’era però anche la memorizzazione della partitura, degli spazi e dei movimenti da compiere al loro interno. Intorno a lei, la scena lirica era infinitamente mutevole: da uno spettacolo all’altro apparivano e sparivano scale, praticabili, dislivelli, botole, ponti. Anche gli oggetti ponevano insidie, ora, nella Tosca, c’era da raggiungere un tavolo all’altezza del coltello, ora, nel Fidelio, bisognava puntare una pistola e guai a sbagliare direzione. A differenza di Totò, Maria Callas non poteva contare né su spazi standard né su comprimari fidati che fungessero da «accompagnatori artistici». Inoltre, lo svolgersi della rappresentazione operistica rispondeva alla gestualità imperativa del direttore d’orchestra: ruolo che, nel caso della Rivista, era invece attento a raccogliere gli impulsi, i ritmi e gli estri improvvisativi dei protagonisti scenici. Per risolvere l’impasse, Maria Callas fu obbligata a mettere preventivamente in memoria non solo la parte, ma l’intero spettacolo operistico: partitura, spazialità, movimenti. Il suo procedimento è descritto da Elvira de Hidalgo:
Senza gli occhiali non vedeva a un metro, ma questo handicap fisico l’ha considerevolmente aiutata a sviluppare la memoria. Maria Callas ha interpretato dozzine di opere sulla scena senza essere nemmeno in grado di vedere il direttore d’orchestra. Per non sbagliare le sue entrate, ella memorizzava tutta l’opera, i ruoli del tenore, del baritono, dei bassi, del coro, tutto. Quando venne a trovarmi al conservatorio, aveva già preso l’abitudine di imparare le opere intere a memoria [45].
Sulle implicazioni sceniche e recitative della memorizzazione della parte, si sofferma Zoé Vlachopoulou, compagna di studi di Maria Callas e, come lei, afflitta da una fortissima miopia:
Vedevamo appena il direttore d’orchestra, così poco che non potevamo contare su di lui per farci segno quand’era il nostro turno. Le dicevo spesso [a Maria] che questo non m’infastidiva, e lei era d’accordo, il fatto di sapere a memoria i nostri ruoli ci dava un grande sentimento di sicurezza nel caso un altro cantante avesse sbagliato... Maria riconosceva che era un grande vantaggio. Sottolineava che la nostra indipendenza dalla bacchetta del direttore d’orchestra ci permetteva di recitare e di spostarci sulla scena con maggiore libertà. In effetti, quando si è impegnati a seguire il direttore d’orchestra che batte il tempo, il nostro modo di recitare si disintegra, l’emozione se ne va, e non siamo più immerse nel nostro ruolo [46].
Da queste testimonianze potrebbe apparire che la miopia avesse sollevato Maria Callas dall’obbligo di seguire il direttore d’orchestra, le cui funzioni sembrerebbero superate dalla memorizzazione dell’opera. È invece vero il contrario. Non potendo vedere gli attacchi del direttore né far affidamento sull’aiuto del suggeritore, Maria Callas prese infatti l’abitudine di «assistere assiduamente alle prove dell’orchestra» [47], che entrarono anch’esse nella memorizzazione preventiva dell’evento scenico.
La cantante, assommando le prerogative mnemoniche del regista e del direttore d’orchestra, conteneva mentalmente la rappresentazione in fase di realizzazione. Rappresentazione che, tramite il canto e i movimenti scenici, infiltrava dall’interno lo spettacolo concretamente realizzato. Per imprimervi il suo suggello, Maria Callas aveva individuato una modalità, che, presa di per sé, appare semplice e appena sospetta di esibizionismo, mentre, inquadrata nella storia dello spettacolo, riprende le pratiche a matrice attoriale della creatività preregistica.
Come l’Ermolova, come la Duse (ma più come la Duse)
A partire dal debutto nel ruolo di Tosca (Teatro all’aperto di Piazza Klafthmonos, Atene, agosto-settembre 1942), Maria Callas si tenne al principio di cantare a piena voce durante le prove. Mentre i colleghi si risparmiavano in vista del debutto, lei sola anticipava la sonorità – e anche la competitività e le tensioni – dello spettacolo realizzato. Il perché di questo pericoloso scialo di energie, lo spiega, nel 1968, in una conversazione con Lord Harewood:
C’è una cosa che dovete veramente fare; è cantare al massimo della vostra voce a partire da tutte le prime prove con l’orchestra, questo nel vostro interesse e in quello dei colleghi, perché anch’essi adattino la loro interpretazione alla vostra colorazione, esattamente come il direttore d’orchestra e il regista. L’essenziale è verificare le vostre possibilità [48]. (C.I., p. 241)
Cantando a piena voce una partitura già completamente memorizzata, Maria Callas si offriva agli altri cantanti, al regista e al direttore d’orchestra come modello al quale accordare il processo della rappresentazione operistica. Questa strategia di condizionamento ha lascito significative tracce nei ricordi dei direttori d’orchestra. Nicola Rescigno rievoca il surreale svolgimento di prove sfinenti nelle quale la voce sovrana della cantante svettava sulle altre imponendo la sua linea interpretativa:
Cantava sempre a piena voce per poter arrivare alla rappresentazione perfettamente sicura sotto il profilo orchestrale. Mi ricordo una prova di Medea a Dallas che durò dalle sette di sera alle due del mattino. Dopo quattro ore le suggerii di cantare a mezza voce. Con cortesia mi rispose di preoccuparmi degli affari miei, cioè di dirigere, e lei si sarebbe preoccupata dei suoi. Terminò le prove a piena voce [49].
Probabilmente, Maria Callas, «primo strumento dell’orchestra», considerava un ‘affare suo’ il compito d’accordare a sé stessa ensemble e orchestra. Bernstein ammette esplicitamente gli effetti di questo canto sulla conduzione orchestrale, individuando nelle prese di respiro i canali attraverso i quali la presenza della cantante debordava dall’interpretazione della parte svolgendo mansioni direttive e di regia sonora:
[Durante le prove della Sonnambula] la Callas era proprio splendida... cantò come se fosse il primo strumento dell’orchestra – al tempo stesso era il violino, la viola, il flauto... infatti vi furono dei momenti in cui sentivo che io per primo stavo cantando la sua parte e stavo doppiando la sua voce. Ricordati che io ero il direttore d’orchestra [50].
Perché mai il giornalista del settimanale Opera News che intervistava Bernstein avrebbe dovuto ricordarsi che la professione artistica del suo interlocutore era il direttore d’orchestra? E perché l’esercizio di questa mansione avrebbe dovuto rendere sorprendente e insolito il fatto di doppiare, cantando, la voce della protagonista? Per comprendere il senso dell’allusione, conviene ricordare che i direttori d’orchestra, di norma, comunicano con strumentisti e cantanti attraverso il canto. E cioè fornendo l’esempio dei ritmi, delle intonazioni, delle frasi musicali.
La voce che canta – dice il maestro Gianandrea Gavazzeni – è prima di tutto un’esemplificazione dell’idea che il direttore ha di una determinata musica.
Essa è un elemento di grande rilievo perché può esprimere in termini che sono già musicali, più adeguati quindi di una comunicazione verbale, il convincimento del direttore e permette, così, più facilmente l’immedesimazione degli strumentisti [51].
Nel quadro di queste pratiche, il fatto che la stessa voce cantante attraverso la quale il direttore d’orchestra diramava i suoi intendimenti, potesse umilmente doppiare il canto della protagonista, risulta, dunque, un’operazione contraria ai principi gerarchici dell’opera lirica a conduzione unica: sistema, d’altra parte, tutt’altro che definitivo e storicamente egemone, visto che si afferma a seguito della disgregazione del fecondo principio consistente nel comporre le «opere per i cantanti».
È probabile che Maria Callas abbia scoperto le proprietà del suo cantare a piena voce, accorgendosi che «la qualità principale [del maestro Serafin] era quella, probabilmente, di sapere respirare assieme agli interpreti della parti del canto» [52]. Attraverso il respiro si rendeva possibile fare del direttore, degli orchestrali e dei cantanti un organismo unitario, che, incurante di gerarchie formali, veicolasse all’insieme gli impulsi emessi al suo interno, fra cui figuravano le soluzioni successivamente approntate dalla partitura registica della parte. Partitura che era in parte preventiva, e cioè preparata individualmente, e in parte pronta ad assorbire – la Callas si paragonava a una «spugna» [53] – le indicazioni che venivano dai direttori, dai registi, dai cantanti e, poi, dalle reazioni del pubblico. Sicché gli spettacoli con la Callas erano l’esito, non solo di interpretazioni a guida unica, ma anche dell’adattamento del lavoro d’insieme al progressivo svilupparsi, al suo interno, d’un trascinante modello performativo, che continuava a precisarsi e a evolvere, alla ricerca della massima verità e compiutezza, anche durante le rappresentazioni col pubblico e che, poi, aldilà dei singoli allestimenti operistici, non smetteva di rivedere e cambiare, sotto l’egida di diversi registi e direttori di orchestra, le interpretazioni dei personaggi. Se Norma, fra le principali eroine del repertorio callassiano, viene presto trovata e non subisce troppi rimaneggiamenti, Violetta e Medea mutano al punto di incarnare nel tempo diverse identità drammatiche.
Maria Callas non si proponeva di governare lo spettacolo con modalità registiche, ma intendeva accordarlo al senso della sua presenza vocale e scenica, così come, prima della regìa, erano use fare le grandi attrici. Il canto a piena voce di Maria Callas durante le prove non ha nulla a che spartire con la direzione scenica esercitata dai capocomici otto-novecenteschi, che fornivano l’esempio delle battute e dei gesti, mentre corrisponde alla modalità seguite da attrici di primaria importanza come la russa Ermolova ed Eleonora Duse, che dilatavano alla compagnia per contagio l’atmosfera del proprio recitare.
Più vicino di Stanislavskij al mondo degli attori professionisti, Vladimir Nemirovic-Dancenko ha descritto come prima della nuova regia le comiche compagnie pervenissero a realizzare, grazie alla presenza di grandi interpreti, spettacoli organici e internamente animati da convergenti entusiasmi per il testo:
Un giorno, [l’Ermolova] entrando in palcoscenico per una prova, disse con la sua voce profonda, come se parlasse fra sé: «Oggi proverò il terzo atto».
Significava che aveva elaborato una sua idea a casa e che desiderava adesso verificarla. Si metteva a provare il terzo atto a memoria, manifestando il suo straordinario talento. Tutti venivano trascinati, cresceva l’interesse per il testo, la voglia di mettersi alla prova. Lodi, entusiasmo dei più giovani, applausi, inchini e baciamano. L’opera cominciava a scorrere. Gli attori, con emozione sentita o ostentata, si davano consigli l’un l’altro, provavano nuove soluzioni […] ormai procedevano da soli nella preparazione del testo [54].
Mentre l’influenza della Callas sui soprani venuti dopo di lei è oggetto di studio, la sua azione sui colleghi non ha suscitato che scarsi interessi.
Eppure, come risulta dalle registrazioni dal vivo, la sua presenza vocale e scenica esercitava un’influenza paragonabile a quella degli slanci interpretativi dell’Ermolova. Fedele d’Amico, recensendo il donizettiano Poliuto rintraccia i segni dell’incontro fra la partitura registica della cantante e l’ensemble:
ogni melodia che passava da un altro personaggio al suo acquistava un misterioso rilievo, tornava all’altro infinitamente arricchita. E bisognava sentire che cosa diventò il concertato del secondo atto in virtù del suo avvio.
Abbiate un po’ di pazienza prima di seppellire Maria Callas [55].
Anche la Duse predisponeva la recitazione degli attori, manifestando, durante le prove, il suo genio interpretativo. Lugné-Poe ha lasciato un’importante descrizione di questo modo di procedere. Mentre spiegava le parti agli altri attori, la Duse non recitava, anzi «quasi sempre le sue battute erano lette dal suggeritore ad alta voce». Ma poi la direttrice si trasformava lentamente in qualcosa d’altro:
A poco a poco cominciava a venire avanti, diceva qualche piccola battuta. Sembrava trascurarle, finché non si trovava di fronte le battute più importanti: allora, prendendo in mano il copione, dimenticando completamente il bisbiglio del suggeritore, alzando il tono […], penetrava nell’intimità della commedia: come per identificarsi con il testo si piantava contro l’interlocutore, premeva sulla situazione, era insieme la Duse e Lei. Lei, il personaggio. […] Grondanti di sudore, lacrimando sui loro casi, gli attori uscivano dalla prova senza nemmeno aver coscienza di quale punto di appoggio avevano offerto al meccanismo del suo genio [56].
Commentando la descrizione di Lugné-Poe, Mirella Schino individua una dinamica attoriale che, riferita alla Callas, provvede di nuovo senso teatrale le sue leggendarie rivalità coi partner operistici:
Cominciamo ad intravvedere i rapporti tra la Duse e gli altri attori come basati sul principio della resistenza: un gioco di forze che collaborano opponendosi [57].
Anche nel caso della Callas, il cantare a voce piena metteva intenzionalmente alla prova la resistenza dei partner, instaurando – possiamo ripetere la considerazione fatta per la Duse – «un gioco di forze che collabora[vano] opponendosi». Illuminanti al proposito i ricordi del direttore d’orchestra Antonino Votto:
[Maria Callas] [s]entiva la musica, e immancabilmente seguiva il mio tempo.
Quando provavamo era sempre precisa, già perfetta in ogni sua nota. Ma aveva un’abitudine che infastidiva i colleghi: cantava a voce piena anche quando provava, costringendo gli altri a fare altrettanto. Scioccamente, molti cantanti cercano di risparmiarsi, ma una prova è come una corsa a ostacoli: se in pista bisogna correre per due chilometri, non ci si può allenare correndo soltanto per uno [58].
Parlando dell’organicità del teatro degli attori, si intende qualcosa di fondamentalmente diverso dall’organicità del teatro di regia. Quest’ultima presuppone architetture di segni che giustifichino gli accadimenti teatrali; la prima, invece, consiste in relazioni fra presenze che – come in una corsa o in un gioco agonistico – si influenzano mutualmente anche contrapponendosi. L’organicità del teatro di regia parte dall’anatomia dello spettacolo, dal suo essere incastro di strutture, livelli e singoli elementi, mentre l’organicità del teatro degli attori è di natura fisiologica. E cioè riguarda movimenti e passaggi di energie che – specie nel caso dell’opera lirica – animano strutture formali preesistenti, persistenti, autonome. Maria Callas, in altri termini, abita e influenza dall’interno rappresentazioni che la vedono agire in quanto sorgente di vita scenica, e non come autrice di progetti: essendo questi delegati, a seconda dei casi, alla tradizione, al rispetto fedele delle didascalie sia implicite che esplicite, oppure all’inventiva registica.
Le partiture registiche di Maria Callas fra direttori d’orchestra-registi e regie teatrali
Il carattere accentratore e la tendenza al rinnovamento linguistico della regia novecentesca ha ostacolato il riconoscimento dei legami che intercorrono fra questo complesso fenomeno e le più discrete regie condotte dai direttori d’orchestra. Eppure le distinte filiere di pratiche artistiche, che fanno rispettivamente capo al responsabile dello spettacolo e a quello dell’interpretazione musicale, hanno storicamente condiviso le stesse tensioni al mutamento, e si sono teatralmente interfacciate all’interno degli stessi spazi di realizzazione.
Circa il loro rapporto di vicinanza storica vale la pena ricordare alcune concomitanze. Wagner, da un lato, pose i principi teorici e gli obiettivi strategici dell’arte di dirigere l’orchestra [59], dall’altro, fornì in veste di demiurgico metteur en scène i (discutibili) modelli scenici delle sue drammaturgie. Rispondendo ad una analoga ripartizione fra competenze musicali e competenze performative, Giorgio II di Sassonia-Meiningen, da un lato, affidò l’orchestra di Meiningen ad Hans von Bülow che, dirigendola fra il 1880 e il 1885, fece comprendere che «cosa poteva intendersi per un complesso ben fuso e armonizzato» [60], dall’altro, disegnò i bozzetti e finanziò gli spettacoli della celebre compagnia teatrale di Meiningen che, fra il 1874 e il 1890, ebbe un’importanza fondamentale per il teatro tedesco e lo sviluppo del fenomeno registico. Lo stesso Festival di Bayreuth, tempio del dramma wagneriano, fu sul punto di ospitare al suo interno i contenuti visivi dell’incipiente svolta registica. Adolphe Appia, infatti, sottopose il suo piano di allestimento per l’Anello del Nibelungo a Cosima Wagner, che lo rifiutò sdegnata. Le motivazioni della vedova del Maestro, divenuta direttrice e domina del Festival, risultano da una lettera, scritta a Houston Stewart Chamberlain il 13 maggio 1896, a seguito dello sfortunato incontro:
Ho dato un’occhiata in questi giorni alle Notes sur l’Anneau du Nibelungen di Appia, nella speranza di trovarvi qualcosa di utilizzabile. Purtroppo vanamente. Pare che Appia non sappia che nel ‘76 l’Anello è già stato rappresentato qui da noi, e che di conseguenza non vi è più nulla da inventare in fatto di scenografia e regia [61].
In Italia, a effetto del modello gestionale a direzione unica definito da Toscanini alla Scala di Milano negli 1898-1903 e 1921-1929, la responsabilità dell’allestimento scenico rifluì fra le competenze dei direttori d’orchestra di primaria importanza, che, coadiuvati da direttori di scena in grado di realizzarne le indicazioni, concepivano lo spettacolo in quanto ambientazione spaziale e visiva della partitura rappresentata. Di tutt’altro carattere, le potenzialità del nuovo teatro operistico nella Russia sovietica dove la sinergia fra il regista Mejerchol’d e il compositore Shostakovic alimentò, prima del gelo staliniano, la ricerca d’un linguaggio musicale connesso alla dimensione fonica e corporea dell’azione performativa.
Nonostante le evidenti differenze culturali e stilistiche, questi distinti sviluppi del teatro musicale del primo dopoguerra sono accomunati dalla convinzione che la musica e l’azione scenica possano fondare nuove unità da diffondere e comporre, nel caso del direttore d’orchestra, attraverso il controllo del processo rappresentativo, in quello del «regista-musicista» teorizzato da Mejerchol’d, sperimentando linguaggi.
Il teatro di Maria Callas, storicamente, si colloca fra la persistente influenza scenica del direttore d’orchestra e il tardo emergere, in Italia, del regista teatrale; non è dunque un caso che, al suo interno, si profilino situazioni emblematiche della coabitazione fra questi diversi responsabili dello spettacolo operistico. Clamoroso il caso delle rappresentazioni scaligere della Traviata, durante le quali Giulini dirigeva dal podio, mentre Visconti controllava lo svolgimento dello spettacolo – e in modo particolare l’azione della protagonista – dalla buchetta del suggeritore. L’episodio è ricordato dal regista in una conversazione con Maria Callas condotta da Pierre Desgraupes (Parigi, 20 aprile 1969):
Visconti: E io [durante le repliche della Traviata] mi mettevo sempre nella buca del suggeritore. Così, perché Maria non vede molto bene. È una grande qualità per lei, perché sente come immersa in una specie di acquario ma non vede nulla. È solamente come immersa in un mondo suo.
Desgraupes: Ma la vedeva, nella buca del suggeritore?
Visconti: Mi vedeva, perché veniva molto vicina. E mi vedeva. E, soprattutto, io la vedevo e le dicevo le cose da fare...
Callas: Io gli dicevo: taci.
Visconti: Avanza un po’, vai a sinistra, le dicevo delle cose così [62].
La Traviata scaligera è, nella storia di Maria Callas, un momento di particolare avvolgimento registico. Visconti, da un lato, irrompe nella cerchia visiva delimitata dalla miopia, dall’altro, elabora insieme alla cantante, non solo gesti pertinenti alla parte, ma un nuovo repertorio gestuale fatto di piccoli movimenti inutili. Dalla pregnanza simbolica dei gesti operistici si passava alla rappresentazione della malattia. Passaggio che ne implicava un altro ancor più radicale: quello dal segno al sintomo.
Dice Maria Callas:
mi sono gradualmente resa conto che la […] malattia [di Violetta] non le permetteva molti movimenti, né rapidi. Ho anche appreso che meno ci si muove, particolarmente nel terzo e nel quarto atto, più la musica ci guadagna.
Nell’ultimo atto, per non farla apparire troppo rigida, ho trovato dei gesti piccoli, inutili. Per esempio, la facevo provare a raggiungere uno specchio o una qualche cosa sul tavolino, e poi a lasciar cadere la mano perché non aveva abbastanza forza per prendere l’oggetto. Sempre nell’ultimo atto, ho pensato che i fiati dovevano essere corti, il colore un po’ più stanco di prima. Ho lavorato molto duramente per trovare la giusta qualità di quel suono [63].
I movimenti previsti dalla partitura registica della parte potevano però entrare in rotta di collisione con quelli progettati dal piano registico d’insieme. È quanto rischiò di accadere nella Medea scaligera diretta da Bernstein per la regìa di Margherita Wallmann. Maria Callas narra lo scontro con la regista in un’intervista televisiva con Dora Ossenska:
Callas: Era la mia prima Medea alla Scala. Interessantissimo questo episodio perché io avevo ceduto ad un corteo funebre che doveva essere, scritto da Cherubini, interno, vuol dire che quello va dietro il palcoscenico. Il regista voleva fare un bel tableau di corteo funebre davanti, ma, nel frattempo io avevo le mie frasi i miei recitativi che dovevano essere molto serrati molto incisivi anche per non perdere l’atmosfera... perché, sa, è facile che Cherubini cada nel vuoto, un ritmo bisogna tenerlo. Ed io avevo detto... guardi, avevamo cinque giorni per preparare l’opera... per prepararla e andare in scena, cinque giorni sono pochi... e allora le dicevo: ‘Cara, guarda, questo corteo non dovresti metterlo in scena, perché io salto giù come una iena da questi praticabili che facevano scala, e sono già sul corteo... li sbrano’ ‘La logica...’ ‘Tu sei già fuori logica, perché lo spartito ti mette dietro’ ‘Ti garantisco che il corteo sarà fuori quando tu devi scendere’. Allora è successo la quinta volta... eravamo alla prova generale oramai... la quinta volta c’era ancora il corteo funebre in scena quando io dovevo saltare giù, io mi sono messa coi pugni contro la Scala, ho detto ‘O questo si schiarisce, o non c’è spettacolo domani, non è possibile’. Ecco dove uno deve usare la forza, perché, per essere rispettati... o se no la forza di solito, così, non è bella. Ma se uno non ha tempo, uno per forza...
Ossenska: Ma questo è in favore dello spettacolo...
Callas: Certo, poi io andavo con lo spartito. Io non andavo contro il regista, andavo con lo spartito, lo spartito diceva interno, doveva rimanere interno [64].
Nell’autobiografia, Margherita Wallmann omette lo spinoso episodio mentre riporta l’impegno con cui Maria Callas imparò a cantare in posizione supina per realizzare le sue indicazioni registiche:
In una fase finale dell’ultimo atto Maria doveva apparire riversa sulla scalinata, la testa verso il basso, le lunghe chiome di fiamma raggianti come un’aureola di fuoco, l’enorme manto scarlatto fluttuante intono a lei […].
«Margherita, è impossibile! Non ci riesco!» esclamò. E scoppiò in lacrime.
Stavo per decidermi a modificare quella posizione, che in realtà era molto difficile, quando intervenne Oldani [segretario generale del Teatro alla Scala]:
«No, non cambiare. È così bello! E poi la Callas è troppo ambiziosa... vedrai che ce la farà.»
E Maria ce l’ha fatta [65].
Le partiture registiche di Maria Callas non erano progetti di performance, ma organismi inclusivi e relazionali, che si rapportavano alla direzione orchestrale e alla regìa, facendo dell’interpretazione della parte la risultante d’una interazione immediata – a vista del pubblico – fra le pratiche d’insieme alla base dello spettacolo operistico e l’inesauribile work in progress condotto dall’attrice-cantante.
Direttori d’orchestra e registi riconoscono che Maria Callas era «dotata del potere di elevare col suo diretto contributo il prestigio di un intero spettacolo» [66]; possiamo aggiungere che anche questo «potere», come tutte le forme di controllo attuate da singoli nei confronti delle proprie collettività d’appartenenza, prevedeva strumenti e strutture, conflittualità e sinergie.
Non si trattava certamente di un nuovo sistema teatrale paragonabile a quello che, a partire dagli anni Cinquanta, aveva imposto il ruolo del regista al teatro lirico. Va piuttosto osservato che Maria Callas, assieme alla vocalità del «soprano drammatico di agilità», aveva empiricamente riscoperto anche l’autonomia creativa detenuta da questo ruolo che apparteneva a un’epoca storica in cui le mansioni direttive – sia musicali che sceniche – erano lontane dal rivestire l’autorevolezza che sarebbe poi stata detenuta da direttori d’orchestra e registi. Maria Callas condivise con Giuditta Pasta, Maria Malibran e le altre attrici-cantanti della scena romantica, la capacità di gestire e connettere creativamente gli aspetti musicali, drammatici e teatrali dei personaggi interpretati. Ma, mentre i «soprani drammatici di agilità» del pieno Ottocento s’inquadravano in una civiltà teatrale essenzialmente fondata sulle sinergie fra i cantanti e la partitura, Maria Callas, per accordare la rinnovata creatività dell’interprete agli assetti del contemporaneo teatro d’opera, si confrontò con direttori d’orchestra e registi, talvolta conflittualmente, ma anche assimilandone l’esempio. Riccardo Muti ha detto che «Maria Callas è stata per il canto quello che Toscanini è stato per la direzione d’orchestra» [67]. Se consideriamo che Toscanini ricavò uno stile personalissimo dalla lettura scrupolosa, nota per nota, delle partiture, comprendiamo d’acchito una prima ragion d’essere dell’insolito paragone, che presenta, però, anche altre possibilità di senso. La memoria artistica dei direttori d’orchestra include, infatti, a proposito di Toscanini, il successo globale della sua azione riformatrice, che, come osserva Gavazzeni, dette
un valore nuovo alla funzione dell’orchestra nell’opera lirica. Quest’ultima non fu più allora un fatto prevalentemente vocale.; né ci furono più direttori di prima categoria – sinfonici –, di seconda categoria – d’opera. [….] Con la Verdi-Renaissance toscaniniana si impose l’esperienza sinfonica anche nell’opera. Toscanini aveva portato nel melodramma in generale l’esperienza compositiva wagneriana dell’opera totale [68].
La riforma di Maria Callas corrisponde dunque a quella di Toscanini, non solo per avere rinnovato, a partire dalla lettura, il linguaggio dell’interpretazione musicale, ma anche per avere perseguito una teatralità unitaria e organica che ricava dai contenuti espliciti e dagli intenti latenti della partitura le linee guida della realizzazione spettacolare.
Probabilmente, Maria Callas ha ricavato dalle competenze teatrali dei direttori d’orchestra – dei quali assisteva a tutte le prove – una personale cultura d’impianto registico, che le ha permesso di filtrare e far proprie le indicazioni di tanti artisti dell’allestimento scenico: da Visconti a Zeffirelli, da Guido Salvini e Gerardo Guerrieri a Margherita Wallmann e Tatiana Pavlova.
Di certo c’è che il magistero pedagogico di Tullio Serafin precedette i principali incontri coi registi, e che questo magistero saldava interpretazione musicale e rappresentazione scenica. Serafin, infatti, a differenza di De Sabata, che puntava «sulla estrema valorizzazione e acutizzazione di tutti i valori contenuti nell’orchestra», considerava «l’opera soprattutto come ‘spettacolo’ […] come somma di elementi che tendono ad una globalità di risultato esecutivo» [69]. Lavorando con lui, Maria Callas si familiarizzò con l’idea che l’interpretazione drammatico-musicale era un processo segmentato e collettivo, che assorbiva e sollecitava intuizioni, prove, esperimenti. Cognizione che le consentì di rapportarsi da pari a pari e, anzi, su posizioni di forza con l’azione registica di Luchino Visconti, che incominciava a perturbare i processi di realizzazione a guida musicale, facendosi portatrice di nuovi e diversi processi a guida teatrale.
Da Serafin, Maria Callas aveva appreso ad alternare all’aggregazione di parole, note, gesti ed espressioni, temporanei momenti di disgregazione e smemorato ritorno agli inizi del lavoro interpretativo. Lungo la fase in crescita, Maria Callas individuava la ragion d’essere d’ogni singola nota, metteva in partitura il respiro, predisponeva la linea del canto con l’espressione del viso e cercava gesti e movenze all’interno della composizione musicale. Al progressivo dilatarsi della partitura nella presenza del personaggio, facevano però seguito momenti di cancellazione e strumentale dimenticanza:
[Serafin] – ricorda Maria Callas – mi sentì nella parte di Norma e disse: «Lei conosce molto bene la partitura ma ora si dimentichi delle note e ripeta le parole. Deve ripetere il recitativo. Vada a casa e ripeta le parole. Poi così come parla dovrà parlare. […]». Due o tre anni dopo mi disse: «Ora si dimentichi di quello che ha studiato a casa. Lei ora ha uno strumento, lo suoni» [70].
Conoscendo approfonditamente i meccanismi dell’attore, Serafin temeva che la perfezionista Callas finisse per trasmettere al pubblico il fatto di avere scrupolosamente studiato e mandato a mente la partitura e che, a seguito di questa impressione, la presenza del personaggio perdesse spontaneità e vigore. Un’altra versione dello stesso episodio contiene un riferimento alla libertà dell’attore, che rivela gli intenti pedagogici di Serafin:
Dopo la prima prova [della Norma], [Serafin] mi disse: «Ora vada a casa, mia cara Callas, e si reciti queste battute e vediamo che proporzioni, che ritmi troverà. Si dimentichi di dover cantare; si dimentichi quello che è scritto, ma cerchi di essere più libera, di trovare un ritmo scorrevole per questi recitativi» [71].
La cantante doveva dimenticare quello che aveva appreso per poterlo agire in libertà. E cioè, non come esecuzione d’una partitura memorizzata, ma in quanto restituzione irriflessa d’un organismo sonoro diventato parte di sé.
Serafin insegnava agli artisti del canto che era possibile scrollarsi di dosso la tirannia della memoria e riscoprire con sentimento di sorpresa – quasi la si stesse componendo in quel momento – la musica della parte. Così facendo, Serafin additava loro l’arte dell’attore.
Viaggio nella nota. Un intermezzo
Alla concezione del processo compositivo in quanto dinamica antropica ed extra-formale che include l’«intangibile» [72], escludendo una restituzione puramente mnemonica del testo e la ripetizione del già fatto, corrispondeva, nel pensiero e nella pratica artistica di Maria Callas, una percezione della nota in quanto organismo. Ogni segno di nota non si limitava, per lei, a indicare una determinata altezza e una determinata durata, ma introduceva una presenza complessa, costituita da una circonferenza e da un nucleo mobile, che il cantante decideva se situare al centro oppure ai margini dell’organismo sonoro. A questo proposito conviene citare un passaggio dalle lezioni tenute dalla cantante alla Juilliard School of music:
La cavatina [‘Regnava nel silenzio’ della Lucia di Lammermoor] non deve essere troppo lenta e il più legato possibile. Ricordate le note sono tonde, hanno un centro. Qualunque passione o emozione voi vogliate esprimere, sia che la nota sia piano, come qui, o forte, dovete cantare sempre con purezza, nel centro della nota. L’unica eccezione è quando un compositore richiede un portamento o un glissando [73].
Alla separazione del testo dalla musica, che, come chiedeva Serafin, doveva venire recitato fra sé e sé al fine di trovarne il ritmo interno e le accentuazioni di senso, corrispondeva la separazione della musica dal testo.
A seguito della rescissione, la frase musicale si configurava, ancor più che come catena di segni, in quanto aggregato di organismi dei quali l’interprete doveva collocare e colpire vocalmente il centro. Questo, perlopiù, lo si sarebbe dovuto situare nel mezzo della nota, mentre, nel caso dei procedimenti relativi al passaggio da una nota all’altra (i ‘portamenti’) oppure all’innalzamento o all’abbassamento costante e progressivo d’un suono (i ‘glissandi’), doveva veniva spostato al margine del tondo nella direzione della nota successiva.
L’immagine delle «note tonde con un centro», pur utilizzata dalla Callas in quest’unico frangente, illumina il mondo sonoro della cantante, che, nei rischiosi pianissimi e nelle intonazioni parlate, sembra mirare, cantando «come su un filo sottilissimo che può rompersi da un momento all’altro» [74], al centro superstite di note senza più un corpo e ridotte a pura essenza del suono.
Negli stessi anni dell’ascesa italiana di Maria Callas, il compositore Giacinto Scelsi ha indagato la costituzione sferica della nota con parole sorprendentemente simili a quelle utilizzate dalla cantante. Scrive:
Il suono è sferico, è rotondo. Invece lo si ascolta sempre come durata e altezza.
Non va bene; ogni cosa sferica ha un centro: lo si può dimostrare scientificamente. Bisogna arrivare al cuore del suono. Solo allora si è musicisti, altrimenti si è solo artigiani [75].
Tutti possono leggere i percorsi del suono lungo le linee del pentagramma, ma solo gli artisti viaggiano nelle note. Per questo, nonostante appartengano a diversi emisferi del mondo musicale, Giacinto Scelsi e Maria Callas dialogano attraverso il loro vivere il suono. Va valutata la possibilità che l’immagine delle «note tonde con un centro» sia giunta a Maria Callas attraverso Carlo Maria Giulini che, nel 1938, aveva eseguito per la prima volta a Roma Preludio, arioso e fuga di Scelsi [76]. Ma non è nemmeno escluso che la fonte di questo pensiero sia, ancora una volta, Tullio Serafin:
La prima, primissima cosa che mi ha improvvisamente rimproverato Serafin: non importa quale nota si canta, non importa che sia drammatica o leggera, bisogna sempre arrivare nel cuore della nota [77].
In ogni caso, il passaggio dal «cuore» al «centro mobile» della nota è altrettanto notevole dell’eventuale ideazione dal nulla di questa seconda immagine. La nozione di «cuore della nota» tollera infatti implicazioni espressive, che corrispondono alla concezione melodrammatica di Serafin per il quale il testo faceva capire il senso della musica. Mentre la nozione che equipara la nota a un tondo con un centro mobile inquadra l’azione vocale all’interno d’un rapporto sonoro che esclude l’intromissione di segni verbali. Maria Callas, commentando la cavatina di Lucia, ricorre a concetti che disattivano gli automatismi semantici, consentendo all’interprete di ritrovare poi, da attore, la sorpresa del senso.
Attrice del Novecento
In un articolo del 1962, Tullio Serafin sostenne che solo Rosa Ponselle, Titta Ruffo e Caruso sarebbero stati considerati, un giorno, i veri fenomeni vocali del Novecento [78]. L’esclusione della Callas era sorprendente, ma spiegabile.
Probabilmente, Serafin, da cultore del belcanto, aveva basato il giudizio esclusivamente sulla bellezza della voce oppure la definizione di «fenomeno vocale» gli era sembrata riduttiva per Maria Callas oppure ancora si era trattato di entrambe le cose. Nel 1958, poco dopo lo scandalo che la cantante aveva causato, a Roma, eclissandosi nel mezzo d’una rappresentazione ufficiale di Norma alla presenza del Presidente della Repubblica, Serafin si era già pronunciato, parlando con Giuseppe Pugliese, circa la posizione della Callas nel contesto dei cantanti lirici:
Senta – mi disse Serafin con quel sorriso improntato ad una ironia tutta veneta, cioè bonaria – senta, io non posso certo avere del tenero per la Callas, con la riconoscenza ch’ella ha dimostrato per me, ed è il suo comportamento ... nei miei riguardi. Ma quando fanno dei confronti e parlano di sostituzioni, davvero non capisco. Meglio non capiscono che la Callas è un’attrice, mentre le altre sono, anche se bravissime, solo delle cantanti [79].
Non era un modo di dire. Leggendo l’autobiografia di Serafin, ci si accorge infatti che il maestro ricorda soprattutto le voci dei suoi cantanti e che le loro – rare – identificazioni con il personaggio non vengono fatte dipendere da autonome capacità attorali ma dal lavoro sulla parte condotto sotto la guida dello stesso Serafin oppure da imponderabili rapporti elettivi, per cui, ad esempio, Giuseppe Borgatti viene considerato «il più grande Sigfrido di tutti i tempi» [80]. Spicca per l’assoluto controllo della dizione – modalità condivisa con gli attori di prosa – il celebre Tamagno, che, accusato di analfabetismo da Verdi e da Giulio Ricordi [81], era maestro nel far chiaramente intendere quelle stesse parole che faticava a leggere. Scrive Serafin:
Contrariamente a ciò che si crede, la […] personalità vocale [di Tamagno] non consisteva tanto nella forza e nella robustezza, quanto in due caratteristiche di grado supremo: lo squillo e l’incisività della dizione; il che faceva dire a Giulio Ricordi: «Quando canta Tamagno, i libretti d’opera sono inutili». […] Da lui ho imparato tutta l’importanza del rapporto parola-suono nel canto operistico [82].
Anche nel suo caso, però, Serafin non riscontra una identità di attore. Per lui, i requisiti attoriali non figuravano quasi, nell’ambito dell’opera lirica, dove la presenza del personaggio veniva indicata e allusa, ancor più che scenicamente incarnata, dalla confluenza fra partitura e qualità vocali.
Diversamente, tutte le forme del teatro recitato, tragiche, comiche, patetiche o di puro intrattenimento, riversavano nella memoria del maestro un’ampia galleria di tipi scenici e tipologie rappresentative:
Torno agli attori che ho conosciuto. Quanti: tutti saliti ormai nell’Olimpo, accanto a Melpomene e Talìa! Ad uno ad uno mi ritornano incontro dall’archivio della mia memoria. Ecco Tommaso Salvini, del quale ho ancora nell’orecchio il grido di terrore, di straziante sublimità, ch’egli lanciava nel Saul dell’Alfieri, quando il fulmine punitore toglie la corona dal capo del sacrilego re; ecco Ermete Novelli, del quale era difficile dire se fosse più grande nel comico, nel tragico o nel patetico. […] Ed ecco Zacconi, che diceva:
«Se l’istinto non è accompagnato dalla cultura non solo non basta ma può essere pericoloso»; ecco i giovani di allora che mi divennero particolarmente amici: Amerigo Guasti, elegante, divertentissimo (fra l’altro suonava discretamente il violino); e Armando Falconi, meraviglioso conversatore, artista dalla versatilità prodigiosa, unica. E Dina Galli, con la quale, come ho detto, recitai; la cara Dina, che avevo conosciuto quando andavo a suonare il violino alle recite della compagnia di Edoardo Ferravilla, e lei sosteneva allora le sue prime parti, così piccina com’era: faceva appunto la piscinina [83].
I rapporti privilegiati di Serafin non riguardavano artisti intellettuali, ma celebrati protagonisti della scena comica (Amerigo Guasti e Dina Galli), un geniale «parodista» del teatro d’opera (Edoardo Ferravilla) e un attore ‘brillante’ che sviluppò capacità direttive nel campo dell’allestimento (Armando Falconi). Questo non significa che il Serafin direttore d’orchestra e il Serafin amico e collaboratore degli attori si inquadrassero in dimensioni distanti. Il teatro comico di consumo, attento al pubblico, al successo e al guadagno, era infatti, per più versi, affine agli interessi e alle dinamiche spettacolari d’un teatro operistico ancora vitalmente iscritto nei costumi della società italiana. Indicativo il caso di Dina Galli, che, pur proclamandosi attrice non-intellettuale e orgogliosamente nata nel mondo dei ‘guitti’, fu confidente di Giordano durante la composizione dell’ Andrea Chénier, ebbe come direttore di scena e autore di riferimento Gioacchino Forzano (storico responsabile degli allestimenti scaligeri sotto la direzione di Toscanini), realizzò assieme al librettista e critico musicale Giuseppe Adami un’originale autobiografia dialogata (Dina Galli racconta... ), ispirò alla versione operistica di Madame Sans-Gêne – sempre di Giordano – la ripresa del testo di Sardou e Moreau e, infine, celebrò, nella commedia Felicita Colombo di Adami, a lei dedicata, il ruolo catartico e rituale del Teatro alla Scala. La protagonista (proprietaria d’una nota salumeria al centro di Milano) affitta infatti un palco per sancire agli occhi della città la conciliazione fra i membri della sua cerchia familiare:
Felicita: Domani sera c’è la prima del Nabucco alla Scala.
Jean: Che c’entra il «Nabucco»?
Felicita: Mi lasci dire... che l’abbia pazienza. Siccome su questo screzio in famiglia si son fatte tante chiacchiere che la metà di meno bastava, voglio chiudere la bocca a tutti, voglio darci la smusata a Milano e far vedere che ci siamo riconciliati.
Valeblano: Giusto.
Jean: E come si fa?
Felicita: Si prende un bel palco di prima fila bene in vista – pago io – e ci si va insieme, in bella mostra, l’intera famiglia. (Felicita Colombo, Atto III) [84]
Era naturale che un direttore di scena – Forzano – si dividesse fra Dina Galli, Toscanini e gli stabilimenti della Tirrenia Film, che gli attori celebrassero l’opera e citassero versi dei libretti famosi, che l’opera inseguisse i successi del teatro di prosa (da Madame Sans-Gêne alla Cena delle beffe) e che, in un tutte le pratiche teatrali, si riscontrassero tanto stentate routine che vocazioni rigorose: i teatri fra Otto e Novecento esistevano sulla base di uno stesso patto sociale, che li faceva oscillare fra la dimensione del puro consumo spettacolare e la scelta di criteri di qualità ispirati a valori d’arte genericamente condivisi: la fedeltà al testo e all’autore, il decoro delle scene, la verosimiglianza dell’allestimento, la memorizzazione delle parti, la coerenza dei personaggi e delle situazioni rispetto alla trama generale. Tullio Serafin recitò una volta con Dina Galli, che lo dissuase dal ripetere l’esperienza.
Eppure – prosegue il direttore d’orchestra, ormai anziano –, posso dire che dalla consuetudine con i grandi attori con i grandi attori di prosa, e dall’ammirazione per loro, trassi elementi di giudizio che poi mi furono utilissimi nel teatro musicale. Imparai a tenere nel debito conto le necessità dello spettacolo, per quel che riguarda l’allestimento scenico, ai fini della verisimiglianza di ciò che si svolge alla ribalta; e divenni esperto in quel genere di attività che si suol chiamare regìa, e che oggi è affidata a quegli speciali personaggi che sono appunto i registi [85].
Nell’immediato retroterra dell’ascesa italiana di Maria Callas figura, dunque, l’empirica pratica registica che Serafin aveva ricavato, non tanto dalle esperienze dei teatri d’arte e dei modelli europei, ma dalla conoscenza diretta degli attori e, in particolar modo, degli attori comici. Sia i teatri recitati che l’opera presentavano, all’epoca, pratiche interpretative basate sulla cultura dei ruoli (attoriali nel primo caso, vocali nel secondo); questa, da un alto, comportava una certa frammentazione delle competenze, che, dall’altro, veniva però compensata, nel caso della prosa, dall’azione connettiva del Direttore, di solito lo stesso capocomico, che «dalla pratica fatta in tanti anni di teatro aveva [...] appreso la conoscenza del materiale attore e imparato a capire d’ognuno le possibilità e le risorse e i limiti, sì da sfruttarne al massimo i valori, piccoli o grandi che fossero» [86]. Serafin riformulò questa prassi, realizzando spettacoli internamente animati da zone di organicità performativa corrispondenti alle parti direttamente preparate sotto la sua guida, come, ad esempio, quella di Norma per Rosa Ponselle, quella di Folco (in Isabeau di Mascagni) per Bernardo De Muro o quella di Federico Lowe (in Germania di Franchetti) per il tenore Manzini.
Mirella Schino ha osservato, a proposito alle grandi emergenze teatrali europee, che «nei primi trent’anni del Novecento, nel periodo della nascita della regìa, fare spettacolo significò […] guardare alla scena come a un corpo vivente, in movimento» [87]. La personale pratica scenica acquisita da Serafin corrispondeva troppo strettamente alla cultura dei ruoli per potersi rapportare allo spettacolo come a qualcosa di radicalmente diverso da una sommatoria di parti e funzioni sceniche. Eppure, l’esorbitante estensione temporale dell’impegno dedicato all’insegnamento di singole parti (un anno mezzo per Norma, tutta un’estate per Folco, tre mesi per Federico Lowe) introduceva, fra le giurisdizioni estetiche implicate dal sistema dei ruoli, una dismisura che consegnava il centro performativo dell’opera agli interpreti così formati. Ragione per cui Norma, cantata da Ponselle venne percepita come un capolavoro del teatro romantico, e la voce di De Mauro fece di Isabeau un successo ovunque rappresentato. Pur non percependo il corpo vivente dello spettacolo, Serafin disseminò all’interno dell’allestimento scenico corpi sonori viventi, che ne mutavano percezioni e dinamiche. Maria Callas, sola attrice dell’opera lirica e musicista di straordinaria sensibilità e temperamento, gli consentì di riprendere questa sua particolare linea registica portandola a compiersi dell’invenzione – fra attualità del passato e riforma del canto – della ‘grande attrice musicale’.
Intervenendo nel processo formativo di Maria Callas, Serafin non pensò certo di tradurre musicalmente l’arte del ‘grande attore’ ottocentesco. È tuttavia significativo che, cercando di individuare un equivalente del fenomeno Callas nel campo del teatro di prosa, abbia indicato proprio Salvini, il ‘grande attore’ che aveva visto in gioventù. L’accostamento gli venne suggerito dal ricordo d’una lontana conversazione con Hans Richter:
Mi ricordo che una volta, a Torino, il grande direttore tedesco Hans Richter (che diresse le prime esecuzioni wagneriane a Londra, e fu per molti anni a Bayreuth con Wagner) mi disse, parlando di Ernesto Rossi e Tommaso Salvini, che avevano recitato in quei giorni: «Ernesto Rossi è un grande artista, ma è sempre Ernesto Rossi. Tommaso Salvini, invece, fa l’Otello ed è Otello, fa Amleto ed è Amleto, fa Saul ed è Saul...». Così è la Callas [88].
L’improvvisazione: una drammaturgia perenne
Maria Callas tradusse gli insegnamenti musicali, drammatici e scenici di Serafin in una pratica compositiva, che condizionava dall’interno lo svolgimento del processo teatrale, assumendone le soluzioni, ridefinendone i segni e mostrando la capacità di rapportarsi a tutto campo con la cultura della regìa contemporanea. Per comodità d’esposizione, la si è definita partitura regista della parte. Questa partitura, come s’è detto, memorizzava l’intero spartito e gli spazi della rappresentazione, tuttavia, nonostante contenesse gli elementi formali dell’opera, non s’irrigidiva in azioni codificate né prevedeva la ripetizione sistemica della parte di replica in replica, di allestimento in allestimento. A renderla più simile a un organismo relazionale vivo che non a una forma estetica, contribuiva l’improvvisazione dei gesti, delle espressioni facciali e dei movimenti.
Improvvisazione che manteneva l’attore in stato di interazione con quello che avveniva al suo esterno e al suo interno. Maria Callas distingueva, all’interno del lavoro sulla parte, una fase necessariamente costrittiva e una fase in cui coltivare la libertà dell’interprete. La prima corrispondeva all’apprendimento dello spartito. Scrive la cantante rivolgendosi a un ideale discepolo:
prendi la musica e imparala come se fossi un bimbo al conservatorio – in altre parole, esattamente come è scritta, né più né meno, e a questo punto, e fino a questo punto non lasciarti trascinare nel bellissimo mondo della creazione.
È ciò che io chiamo ‘giacchetta stretta’ [89].
Dopo vengono le sedute di studio con un pianista, le prove al piano e le prove con l’orchestra, alle quali il cantante deve arrivare già preparato. E cioè pronto a iniziare la creazione del ruolo, che procede per tentativi e piccole scoperte che accrescono la familiarità con l’interprete:
Oggi una frase non ti viene come vuoi, ma domani, con tua somma gioia, ti verrà fuori. Poi gradualmente, la familiarità con la musica e con il personaggio ti renderanno capace di sviluppare tutte le sottili sfumature che puoi solamente in modo lontano comprendere agli inizi [90].
La partitura registica della parte, da un lato, penetra poeticamente i significanti sonori, dall’altra, introduce elementi di carattere fisico:
Plasma il personaggio: gli occhi, i muscoli, l’aspetto fisico in tutta la sua interezza.
Diventa un momento d’identificazione a volte così totale che io sento di essere quel personaggio [91].
A questo punto tanto gli elementi intrinseci alla parte che quelli connessi al contesto teatrale si combinano nel lavoro teatrale dell’attore-cantante:
Finalmente metti insieme tutte le cose – il palcoscenico, i colleghi, l’orchestra – e quindi arrivi al punto di eseguire l’opera dall’inizio alla fine, che dovrai ripetere tre o quattro volte al fine di misurare la tua resistenza ed imparare dove puoi riposarti [92].
Nel caso di Maria Callas, il lavoro sulla parte non codifica l’interpretazione scenica, ma poneva le premesse d’una drammaturgia continuamente rimessa in discussione dalla libertà concessa ai movimenti e alla mimica, vale a dire, al corpo, internamente impegnato dalle complesse tecniche del processo fonatorio, ma, per tutto il resto, libero nella misura in cui lo è ogni creatura vivente:
Le mie movenze non sono mai premeditate. Sono unite a quelle dei colleghi, alla musica, al modo in cui ti sei mossa prima. Un gesto è nato da un altro, come i commenti di una conversazione. Questi devono sempre essere l’ultimo prodotto del momento. Tuttavia, essenziale per quanto logica sia tale tipo di spontaneità, il più importante prerequisito di un attore (i cantanti d’opera sono attori) è di identificarsi con il carattere, così come creato dal compositore e dal librettista, altrimenti la performance rimarrà poco convincente e priva di valore, per quanto superficialmente si possa essere magnifici e d’effetto.
Indubitabilmente devi studiare ogni inflessione vocale, ogni gesto, ogni sguardo – l’istinto è il tuo amico astratto, che ti porterà sulla giusta carreggiata [93].
La connessione fra gli elementi fisici e sonori della performance prosegue nel corso delle repliche con ancora maggiore precisione e ricerca dei dettagli. Infatti,
non c’è nulla di meglio che gli spettacoli sul palco innanzi ad un grande pubblico per riempire i dettagli, le cose intangibili, che sono poi cose così belle [94].
La partitura registica della parte sfocia in un’opera aperta: è un collettore di gesti, di movimenti e di intonazioni da riprendere o sostituire o integrare in occasione delle repliche della stessa opera. Mentre i registi hanno tante partiture sceniche quanti sono gli allestimenti che firmano, le partiture registiche degli attori-cantanti non riguardano una singola rappresentazione, ma continuano ad accompagnare l’interpretazione del personaggio di allestimento in allestimento.
In un’intervista rilasciata a Bernard Gavoty per la televisione francese (1964), Maria Callas reagisce piccata alle domande sull’improvvisazione:
D: Lei dice di avere lavorato molto in scena. Studia scrupolosamente tutto quello che farà in scena?
R: No!
D: Lei improvvisa molto sulla scena?
R: Fortunatamente sì altrimenti mi sarei ammazzata...
D: Non è terribile per il direttore d’orchestra ed i suoi partner?
R: Ah non, perché la base è sempre l’arte... poi se faccio due passi sempre esattamente di dieci centimetri o di quindici questa non è arte [95].
Il tono irritato delle risposte proviene dal fatto che l’intervistatore sembra non comprendere le implicazioni del problema: l’assenza d’improvvisazione incollerebbe infatti all’attore-cantante la «giacchetta stretta» della memorizzazione musicale, interrompendo la dialettica fra il suo esserci e la realizzazione della parte. Inoltre, l’improvvisazione è gioco, rischio, libero flusso di transitorie sintesi sceniche e anche affermazione del potere dell’attore sullo spettacolo. Il finale del debutto dell’Anna Bolena consente di verificare le capacità d’intervento della partitura registica della parte sullo spettacolo complessivo. L’episodio è narrato da Gianandrea Gavazzeni:
Visconti ha detto che la Callas, una volta messo a punto un particolare, lo teneva per acquisito; ma al tempo stesso ha anche parlato del suo istinto.
Vorrei osservare che questo istinto la sapeva anche portare, quando occorresse, all’improvvisazione. Appunto alla prima esecuzione dell’Anna Bolena accadde un incidente che avrebbe potuto essere gravissimo e che solo il suo talento teatrale superò. Terminata l’aria finale, Anna Bolena avrebbe dovuto essere circondata […] da un muto coro di incappucciati che l’avrebbe come ingoiata nel suo cerchio, e condotta al supplizio. […] Invece per una dimenticanza di uno dei sostituti di palcoscenico il coro di comparse non uscì e la Callas si trovò inaspettatamente sola. Ma si salvò lo stesso: improvvisò un disegno di gesticolazioni perfettamente omogeneo al carattere figurativo in cui il suo personaggio s’era espresso fin lì, si volse e scomparve nel fondo scena [96].
In questo caso, la partitura registica della parte salva il finale dell’opera da un incidente «che avrebbe potuto essere gravissimo», ma le stesse possibilità d’intervento erano comunque nelle disponibilità di Maria Callas, che, tessendo a vista estemporanee reti di micro-azioni – come le ‘conversazioni’ di gesti –, calava l’interpretazione musicale in una presenza in vita di carattere extra-quotidiano e coincidente col concreto esserci dell’attore, non tanto in stato di immedesimazione, quanto di simbiotico rapporto con la parte:
Ad ogni modo, non avrai fatto ancora nulla se i tuoi studi, una volta sul palco, non risalteranno attraverso una totale trasfigurazione, un nuovo modo di sentire e percepire, e di vivere. A volte è così difficile che ti sembra quasi di scomparire – come cercando di aprire la cassaforte senza conoscerne la combinazione [97].
Organica compenetrazione fra l’interpretazione della parte e l’esserci ‘trasfigurato’ (ma sempre sul punto di scomparire) dell’attore-cantante, la persona scenica attrae l’attenzione dello spettatore, mentre fa scattare – come un abile scassinatore – i meccanismi scenici. La sua presenza – alterata e straniata, registica e illusoria – determina il passaggio dello spettacolo operistico dalla categoria della rappresentazione – formalizzata, prevedibile, con scarsi margini di modificabilità – a quella dell’evento – aperta, irripetibile, suscettibile di vertiginose ascensioni e atroci fallimenti.
Nell’Ottocento, simile a Maria Callas, fu un’altra Maria: la Malibran.
L’interpretazione come biografia
Maria Malibran morì il 23 settembre 1836 a seguito di una caduta da cavallo avvenuta intorno all’8 luglio. L’animale destinato alla cantante era un purosangue nero dal carattere bizzarro e ombroso. Si chiamava Comet. Governato dal padrone, Lord Lennox, non si era mostrato fino allora particolarmente rischioso, ma, quella volta, forse sentendo una presa più leggera, s’imbizzarrì sbalzando di groppa l’esile corpo della Malibran. L’emozione per l’improvvisa scomparsa dell’artista fu vivissima. In una commossa poesia a lei dedicata, De Musset intreccia i topos funerari cari alla sensibilità romantica: la caducità dei successi e della stessa fama; la dispersione cui è soggetta l’arte scenica; il contrasto fra l’indifferente proseguire della vita collettiva e la morte dei grandi uomini; l’azione assassina della «Musa implacabile» che porta alla tomba gli artisti stringendoli «nelle sue braccia infiammate». Quest’ultimo tema, al quale sono dedicate le ultime Stanze della composizione (XIX-XXVII), culmina in una notazione tecnica sull’interpretazione di Desdemona e in un confronto fra Maria Malibran e Giuditta Pasta, che avrebbero potuto benissimo figurare, debitamente svolti e motivati, in una recensione o in un trattato di recitazione:
Quando cantavi il Salce, invece di questo delirio,
perché non ti preoccupavi di reggere bene la tua lira?
La Pasta fa così, perché non l’hai imitata? [98]
De Musset si riferisce all’ultimo atto dell’Otello che Rossini compose nel 1817 avendo in mente, per la parte di Desdemona, Isabella Colbran.
Nell’ultimo atto di quest’opera, all’epoca, fortemente criticata perché troppo fedele alla conturbante tragicità dell’originale shakespeariano, Desdemona intona una canzone accompagnandosi con l’arpa. Il recitativo che precede il brano enfatizza la presenza dello strumento musicale e il suo utilizzo da parte della cantante. Dice Desdemona:
O tu del mio dolor dolce instrumento!
Caro pegno d’amor, che sol m’avanzi,
io te riprendo ancora:
e unisco al mesto canto
i sospiri d’Isaura, ed il mio pianto [99].
Lo sviluppo musicale si mantiene fedele alla situazione scenica: il canto di Desdemona viene infatti accompagnato dal suono di un’arpa situata nella compagine orchestrale. Per convenzione, il pubblico dell’opera lirica accettava – allora come oggi – di abbinare alla visione di strumenti muti e suonati per finta – arpe, liuti, chitarre o ghironde – la musica di corrispondenti strumenti suonati per davvero da musicisti nascosti o scarsamente visibili. Maria Malibran mandò in frantumi questa consolidata tradizione, lasciando che, nell’ Otello rossiniano, l’arpa scenica scivolasse al suolo, mentre quella orchestrale continuava ad accompagnare il canto. Si veniva così a stabilire una sorta di ossimoro percettivo, per cui, attraverso un effetto di carattere straniante, che esplicitava il carattere fittizio dell’arpa presente in scena, il pubblico veniva portato a vedere nella cantante, non tanto un’interprete drammatica, quanto un’artista incurante delle simulazioni teatrali e realmente pervasa dal sentimento della situazione.
Prosegue De Musset:
Dunque non sapevi, commediante imprudente,
che questi gridi insensati che ti uscivano dal cuore
della tua guancia smagrita aumentavano il pallore? [100]
Mentre Giuditta Pasta codificava nel dettaglio la «creazione» della parte, Maria Malibran improvvisava intonazioni, gesti e «gridi insensati», facendo della performance drammatica un evento mutevole e avente per oggetto il suo stesso vivere in stato di rappresentazione [101]. Aldilà della comune tendenza a fare emergere il senso drammatico del canto fiorito, la Callas e Maria Malibran si assomigliavano in questo: entrambe plasmavano l’io non-io scaturito dal rapporto con la parte fino a ricavare un’esistenza scenica, il cui mandato non era ripetersi, ma evolversi al modo degli esseri viventi, manifestando l’incontentabile identità dell’artista che l’animava tanto all’interno del processo teatrale, che nel proprio privato dove la memorizzazione delle prove veniva vagliata in solitudine, discriminando momenti efficaci e inerti, intuizioni rivelatrici e transitorie, segni intenzionali e sintomi del profondo. Maria Callas descrive questa fase nascosta del lavoro teatrale, riscontrando, sulla base del vissuto e senza pretese teoriche, l’umile compenetrarsi di esistenza privata e creazione artistica:
il nostro lavoro è senza orario. Dopo le prove, tornata a casa, di notte, da sola, mi concentravo e iniziavo la vera creazione, rivedendo quello che avevo provato e ripensando al lavoro del giorno dopo, cosa mi aspettavo, come dovevo costruire il personaggio, come dovevo cantare... Appunto, la creazione. Questo si faceva con il maestro, questo si faceva con i colleghi, in una gara di superamento continuo. Noi non possiamo avere sindacati, il nostro destino è di lavorare sempre. L’arte è così grande che più conosci più scopri di non conoscere [102].
Maria Callas, a differenza della Malibran, gestiva con oculatezza le improvvisazioni e le interferenze fra canto e parlato, selezionando e memorizzando le soluzioni particolarmente riuscite, ed evitando di sorprendere lo spettatore con l’inatteso, al quale, sostituiva piuttosto l’estemporaneo montaggio del già sperimentato e noto. Sicché, la performance attoriale, nel suo caso, attivava per micro-cambiamenti una presenza-guida, che governava l’attenzione del pubblico dall’interno dello spettacolo.
Vi è però un episodio che mostra come anche la Callas potesse spingere all’estremo il registro gestuale, accumulando un repertorio di movenze da trascegliere e riformulare in accordo col mutamento dell’interpretazione, che si trasformava a vista dei pubblici delle successive repliche. La scena, per lei, era un laboratorio in cui tentare l’avvicinamento alla perfezione, con logica consapevole dei salti del processo teatrale. Il lavoro intorno a Medea rende particolarmente evidente, grazie alle sue svolte e ai commenti suscitati, questa dimensione sperimentale, che definisce la partitura regista della parte, stratificando successioni di scritture performative ognuna delle quali alimenta o restringe i materiali delle altre senza che si venga perciò a costituire, fra loro, una gerarchia estetica rigida e definitiva.
L’interpretazione di Maria Callas divenne oggetto di discussione fra intellettuali di diversa formazione a seguito dell’allestimento romano di Medea (gennaio 1955). L’opera andò in scena con la direzione di Gabriele Santini e la regìa di Margherita Wallmann, che riprese i bozzetti e le scene di Salvatore Fiume, già utilizzate per la Medea andata in scena alla Scala (dicembre 1953) con la direzione di Leonard Bernstein e la regìa della stessa Wallmann.
Dei commenti critici, riferirò in particolare le annotazioni che riguardano la performance callassiana. Il poeta e critico musicale Giorgio Vigolo inquadra Medea fra le parti di maghe e maliarde rivestite dalla Callas:
Maria Callas […] del personaggio di Medea ha fatto una sua creazione infuocata, ululante demoniaca, ormai giustamente celebre e veramente stupenda. […] In Maria Callas, tutto è arte, studio, forza di indomabile volontà. Non per nulla ella è sempre così riuscita nelle parti di maga, Kundry, Armida, Medea. Qualcosa di stranamente magico è anche nella sua voce, una specie di alchimia dei registri. […] Nel personaggio di Medea, anche i suoi difetti diventano delle qualità, anche certe asprezze conferiscono al guizzo belluino dell’Erinni [103].
Posizione ben diversa viene assunta dal compositore e critico musicale Guido Pannain, che non riconosce nella Medea della Callas la tragica protagonista delle drammaturgie di Euripide, Seneca, Corneille e Cherubini:
Maria Meneghini Callas s’agita troppo. Questa non è Medea, la Medea classica la quale è un’altra. Tutta chiusa nel suo dolore, inesorabile come il suo destino che trascende nel mito. […] Sulla scena ella dovrebbe rimanere impietrita e scandire con disperazione senza gesto le sillabe della sua tragedia impastata di lacrime [104].
L’anglista Mario Praz risponde a Pannain con un vero e proprio saggio, che riconosce, nella classica compostezza che la tradizione attribuiva al personaggio di Medea, l’effetto d’una sedimentazione secolare e, nell’interpretazione «selvaggia e sconvolta» di Maria Callas, la riscoperta della «latente forza» dell’opera. La sua narrazione amplifica i gesti e gli elementi figurativi dell’interpretazione, accostandoli a immagini (le «donne di Creta che brandivano serpi») e traendone metafore (la poesia del terribile si getta «nell’onda violenta [del] mantello»). Il procedimento, non solo fissa lo spettacolo nella memoria del lettore, ma fonde descrizione degli atti scenici e senso del discorso, performance e commento:
Subito che [Maria Callas] appare sulla scena, consunta dalla passione, in quel vestito nero listato di bianco, con quella criniera fulva... ma è un’upupa, uno di quei lugubri uccelli vestiti a lutto e come macchiati di sangue, che udii chiurlare di antichi e mostruosi delitti fra le rovine di Micene. D’un balzo quell’esile e imperiosa figura che appare in fondo alla scena mi riporta nella Grecia selvaggia e sconvolta, arata da miti feroci per piantarvi i fiori di un’arte estatica. Maria Callas leva le braccia, si snoda: ora non è più l’upupa simbolica […], ma è una di quelle donne di Creta che brandivano le serpi, livide esse stesse come serpi micidiali […]. Quel rosso mantello che Maria Callas trae dietro di sé nel terz’atto... c’è più dello spirito della poesia del terribile mito greco nell’onda violenta di quel mantello che negli attori piantati su due piedi, immobili come statue, intenti a cavare fuori sapienti e ortodossi volumi di voce, come insegnava la tradizione settecentesca! [105]
Pannain resta dell’avviso che questa Medea non corrisponda allo statuto del personaggio classico, e, spinto dall’analisi di Praz, descrive a sua volta le azioni di Maria Callas, che, però, non confronta all’immaginario tragico, ma enuclea e nomina, con effetto di comico straniamento, in quanto gesti concreti (salti, tremori di gambe, dimenamenti di braccia eccetera):
Una Medea, esacerbata dal tradimento e dall’oltraggio, che, dal momento in cui il male le appare irreparabile, non fa che smantare correndo su e giù per la scena e nell’acme della tragedia, non sa far di meglio che stramazzare, e in ogni modo agitarsi, e perdere il controllo del gesto e dimena le braccia e si batte le mani sul ventre, e trema sulle gambe, come in preda al ballo di S. Vito, sì da far perdere il senso della musica, dalla quale il suo gesto dovrebbe irradiarsi, non può essere, no, la classica Medea del mito espressa dalla musica di Cherubini. E quando, infine, ella appare al sommo di un’interminabile scala, avvolta in uno smisurato mantello rosso, da corrida più che da tragedia greca, e resta ferma in quella postura, quasi che da essa penda l’applauso e poi, dopo altro dimenarsi e andare e venire, piomba di nuovo a terra e vi giace come sepolta sotto il suo scarlatto sudario, ancora una volta ella non è un personaggio di tragedia, ma di vistosa coreografia [106].
Al dibattito si aggiungono quindi il latinista Ettore Paratore e il francesista Pietro Paolo Trompeo i cui posizionamenti fra l’una e l’altra valutazione critica non aggiungono ulteriori elementi sull’interpretazione del tragico personaggio.
E Maria Callas?
La cantante non prese la parola, ma, fra il riconoscimento d’aver fatto nuovamente germogliare i semi dormienti del linguaggio tragico e l’accademico richiamo all’ordine di Pannain, si mostrò soprattutto sensibile a quest’ultimo.
A convincerla delle ragioni del suo astioso detrattore, penso sia stata l’accusa di avere risolto un personaggio tragico in «vistosa coreografia».
Non è detto che Pannain, naturalmente lontano dai valori e dalla cultura del teatro, sapesse che Margherita Wallmann si era formata come coreografa e, in questa veste, aveva cominciato a lavorare alla Scala. Tutto questo, però, era ben presente a Maria Callas, che, in virtù di quel riferimento, si sentì probabilmente espropriata del lavoro sulla parte, attribuito, anche se in modo forse inconsapevole, alla coreografa Wallmann.
Nell’agosto del 1961, Maria Callas rappresentò a Epidauro la Medea con la regìa di Alexis Minotís. Il noto regista, convertito all’opera lirica dalla cantante, fu ben lieto di trasferire nel più splendido luogo della tragedia greca la sua precedente regìa della stessa opera (Dallas 1958, sempre con la Callas). In questa seconda occasione, coronato da un clamoroso successo, Minotís perfezionò «gli atteggiamenti, le pose, i gesti delle mani accusatrici, il concitato incedere attraverso gli ambulacri del palazzo, le concitate carezze ai due figli» [107]. Forse anche a causa di questa nuova mediazione e dell’allontanamento dalle dinamiche cinetiche di Margherita Wallmann, l’adattamento dell’allestimento di Epidauro alle ridotte dimensioni del teatro alla Scala (dicembre 1961) apparve singolarmente misurato, tutt’altro che «selvaggi[o] e sconvolt[o]», quasi spento. Tornato a vedere l’opera, Guido Pannain s’intestò il merito del riassorbimento dei gesti e delle più mansueta espressività della cantante:
Ma una sorpresa graditissima mi attendeva con la interpretazione di Maria Callas, che ha fatto sue, assimilate e applicate con profondi intendimenti, le osservazioni che io le mossi, anni fa […]. Con rara intelligenza di stile nel tragico personaggio facendone una creatura d’intimo e concentrato dolore tanto più intenso e sofferto quanto più dominato da manipolazioni esteriori [108].
L’articolo di Pannain s’intitola Rinnovato trionfo di Maria Callas nella tragica ‘Medea’ di Cherubini. In realtà, non vi fu nessun trionfo, ma molta delusione, anche fra gli antichi sostenitori della cantante, che scongiurò il rischio d’un vero e proprio fiasco con un’invenzione teatrale, che un’analisi musicologica considererebbe forse aneddotica ed extra-artistica, mentre, da un punto di vista teatrologico, tocca i centri nevralgici dell’estetica del performativo. Riporto, al proposito, la testimonianza dal direttore d’orchestra Thomas Schippers:
Dalla seconda galleria [dopo l’aria ‘Dei tuoi figli la madre’] scese una spaventosa bordata di fischi […]. Maria continuò imperterrita, finché giunse alla parola «Crudel!», con la quale Medea apostrofa Giasone. Seguono due accordi brevi e sonori, dopo di che l’orchestra tace un istante, in attesa che Medea pronunci il secondo «Crudel!». Ma dopo il primo, Maria smise letteralmente di cantare. Io l’ho fissata sbalordito, incredulo, mentre lei puntava il suo sguardo sulla platea con l’aria di dire: «Sentite, questo è stato il mio palcoscenico e lo sarà finché vorrò. Se ora voi mi odiate, io vi odio altrettanto». Io l’ho visto, l’ho avvertito personalmente. Poi Maria ha cantato il secondo «Crudel!» rivolgendosi esplicitamente al pubblico, riducendolo suo malgrado al silenzio. In vita mia non ho mai visto nessuno che osasse una cosa simile in teatro. Mai. Non c’è stato il minimo mormorio di protesta. Ero paralizzato... Non ero in grado di stabilire se volesse continuare o no. Era lei ad avere in pugno la situazione [109].
La partitura registica della parte include, fra le sue risorse estreme, la fuoriuscita dalla parte e la sostituzione della situazione drammatica con un rapporto diretto e verticale fra performer e pubblico. In questi frangenti, la scrittura attoriale non modella il vivere dell’artista in stato di rappresentazione, ma il suo esistere in stato di realtà. Slittamento che muta in corso d’opera il patto percettivo gli spettatori, trasformando la loro delusione per non essere stati trasportati nel mondo diegetico della maga – l’antica Grecia «arata da miti feroci» – in annichilito stupore di fronte all’apparire del volto nudo di Medea, quasi che da questo, avrebbe osservato un disgustato Pannain, potesse ancora pendere l’applauso.
Ringraziamo l'Autore per la cortese concessione alla pubblicazione del testo.
Gerardo Guccini insegna, come Professore Ordinario, Drammaturgia e Teorie e Tecniche della composizione drammatica all'Università di Bologna. I suoi studi riguardano il teatro del Settecento, gli aspetti spettacolari dell'opera lirica e la drammaturgia contemporanea, con particolare riferimento al teatro di narrazione. Fra i numerosi progetti ideati e condotti nell’ambito delle iniziative pubbliche del Dipartimento delle Arti ricordiamo i convegni sul postdrammatico, sulla nuova performance epica e sulla performance operistica.
1 Cfr. R. Benedict Gagelmann et al., Maria Callas Bibliography. January 2000, Nijmegen, The Maria Callas International Club, 1999, è la più completa bibliografia in rete al link http://www.callas-club.de
2 Fondamentale il recente Mille e una Callas. Voci e studi, a cura di L. Aversano e J. Pellegrini, Macerata, Quodlibet, 2016.
3 F. d’Amico in Processo alla Callas, tavola rotonda con Rodolfo Celletti, Fedele D’Amico, Eugenio Gara, Giorgio Gualerzi, Luchino Visconti, in «Nuova Rivista Musicale Italiana», A. XII (1978), fasc.1-4, p. 9. Il testo del dibattito su Maria Callas organizzato nel 1969 a Roma dal «Radiocorriere TV» è stato pubblicato una prima volta ivi nel n. 48 di novembre-dicembre dell’anno stesso.
4 J. Lacouture, Maria Callas, ses récitals 1954-1969, in «L’Avant-Scène Opéra», octobre 1982, n. 44.
5 Sulla nozione «regia di sistema» che indica un’azione di coordinamento e conduzione rivolta, non già all’allestimento d’un singolo spettacolo, ma al sistema della produzione spettacolare cfr. R. Quaglia, Bravi, ma basta! Su certe premesse, promesse e catastrofi culturali, Napoli, Editoriale Scientifica, 2018.
6 G. Lauri-Volpi, A viso aperto, Parte Seconda, Bologna, Bongiovanni, 1983, pp. 66-67.
7 Ivi, p. 180.
8 G. B. Meneghini, Maria Callas mia moglie, Milano, Rusconi, 1981, p. 176.
9 Ivi, p. 177.
10 F. d’Amico, in Processo alla Callas, cit., p. 28.
11 N. Petsalis-Diomidis, La Callas inconnue, Paris, Plon, 2002.
12 Cfr. A. Stassinopoulos, Maria Callas al di là della leggenda, traduzione di R. Mainardi, Milano, Mondadori, 1985, p. 142.
13 Così Paolo Poli racconta l’interpretazione della Medea al Maggio Musicale Fiorentino, (P. Poli, Un’artista misteriosa e sconvolta, in Mille e una Callas, cit., p. 367).
14 F. Zeffirelli in M. G. Minetti, Callas odiata poi amata, in «La Stampa», 5 settembre 2007, p. 39.
15 G. B. Meneghini, Maria Callas mia moglie, cit., p. 272.
16 Maria Callas: sono per una Medea non aggressiva, conversazione con G. Gambetti, in Medea: un film di Pier Paolo Pasolini, Milano, Garzanti, 1970, pp. 23-24.
17 Il Trovatore per Parigi 1958; «Vieni, t’affretta» dal Macbeth e «Tu che le vanità» dal Don Carlo per Hamburg 1959; nuovamente «Tu che le vanità» per Hamburg 1962 e «O don fatale, o don crudele» dal Don Carlo per Londra 1962.
18 Cfr. F. Ruffini, Medea, da Cherubini a Pasolini, in Mille e una Callas, cit., pp. 269-279.
19 P. P. Pasolini, La presenza, in Id., Transumanar e organizzar, Milano, Garzanti, 1971, poi in Id., Tutte le poesie, 2 voll., a cura e con uno scritto di W. Siti, vol. II, Milano, Mondadori, 2003, p. 220.
20 F. Ruffini, Medea, da Cherubini a Pasolini, in Mille e una Callas, cit., p. 277.
21 Partecipando a un’intervista fatta a Pasolini da Oscar Jahn Mountauban, Maria Callas afferma di avere chiesto una Medea meno sanguinaria, più umana, che fosse soprattutto una donna sofferente che il pubblico potesse comprendere. L’intervista è stata pubblicata in «El Nacional», 29 marzo 1970, e nuovamente edita in R. Chiesi (a cura di), Pasolini, Callas e «Medea», FMR-ART’È, Villanova di Castenaso (Bologna) 2007, catalogo pubblicato in occasione della mostra della cineteca di Bologna, 18 ottobre - 8 dicembre 2007, Ta Matete (spazio espositivo di Art’è), Bologna.
22 Pasolini vedeva nella Callas «una barbarie che è sprofondata dentro di lei, che vien fuori nei suoi occhi, nei suoi lineamenti, ma non si manifesta direttamente, anzi, la superficie è quasi levigata». (N. Naldini, Pasolini, una vita, Torino, Einaudi, 1989, p 338).
23 P. Puppa, Una voce di carta, in Mille e una Callas, cit., p. 425.
24 N. Petsalis-Diomidis, La Callas inconnue, cit., p. 91.
25 Cfr. ivi, p. 144.
26 N. Petsalis-Diomidis, La Callas inconnue, cit., pp.144-145.
27 Ivi, p. 132.
28 Dice Maria Callas della sua voce: «Il mio timbro era scuro, nerastro (a pensarlo mi viene in mente un olio grasso), e complicato dai limiti nel registro superiore». (E. Gara, Maria Callas, Milano, Ricordi, 1957, p. 12).
29 Cfr. E. Rakowska in http://www.isoldes-liebestod.net/Isolden_ohne_Liebestod/Rakowska_Elena.htm (ultima consultazione 28-8-2019).
30 «[Norma e Traviata] sono proprio due momenti che sovrastano la mia carriera». (M. Callas, Seducenti voci. Conversazioni con Lord Harewood 1968, a cura di C. Faverzani, Prefazione di R. Kabaivanska, Roma, Bulzoni, 2006, p. 88).
31 S. Galatopoulos, Maria Callas Sacred Monster, New York, Simon & Schuster, 1988, pp. 427-428. Le dichiarazioni di Maria Callas sono tratte da un’intervista fatta da Galatopoulos nel 1974 al fine di approfondire e integrare altri precedenti interventi dell’artista: «Altough Callas seldom spoke about her art and career, her description of her ambition and approach was articulate and fascinatingly enlightening as, for example, in her interwiew with Derek Prouse (Sunday Times, 1961) and in her television conversations with Lord Harewood (BBC TV, 1968). Later, after her concert tour of 1974 – the last time she sang in public – I was able to add several important points an elaborate on a few when I discussed with her in greater detail various aspects of her art». (p. 426).
32 M. Bellinetti, Serafin e l’Arena, in T. Celli, G. Pugliese, Tullio Serafin. Il patriarca del melodramma, Prefazione di G. Gavazzeni, Venezia, Corbo e Fiore Editori, 1985, pp. 203-212: 205.
33 T. Serafin, Il direttore d’orchestra. Ai giovani che intendono dedicarsi all’arte direttoriale, in Cesar A. Dillon et alii, Tullio Serafin. Con due compact disc, Milano, Edizioni MC, 1998, pp. 45-47: 46.
34 Ivi.
35 Ivi.
36 Maria Callas si definisce in questo modo in diverse conversazioni, v. S. Galatopoulos, Maria Callas Sacred Monster, cit.; M. Callas, Seducenti voci, cit., p. 43.
37 Ivi, p. 68.
38 Intervista con M. Rodrini per Radio Philadelphia, Milano, settembre 1957. Cit. in N. Petsalis-Diomidis, La Callas inconnue, cit., p. 148.
39 G. Guanti, Romanticimo e musica. L’estetica musicale da Kant e Nietzsche, Torino, EDT, 1981, pp. 200-201.
40 F. d’Amico, Una lezione sull’opera italiana (1957), in Id., I casi della musica, Milano, Il saggiatore, 1962, pp. 165-166.
41 F. d’Amico, Amina al proscenio (1955), in ivi, p. 84.
42 «Ho due livelli mentali: il primo è la mente che crea e deve fare quel che ci si aspetta dal personaggio o dalla situazione; poi mi sforzo di distaccarmi per immedesimarmi col pubblico o con qualcuno che guardi quell’altra persona che sta creando». (M. Callas, Seducenti voci, cit., p. 68).
43 Ivi., pp. 57-58.
44 C. Meldolesi, Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate del teatro italiano, Roma, Bulzoni, 1987, p. 53.
45 N. Petsalis-Diomidis, La Callas inconnue, cit., p. 148.
46 Ivi, p. 316.
47 Ivi, p. 242.
48 Dalla conversazione del 1968 con Lord Harewood, cit. in N. Petsalis-Diomidis, La Callas inconnue, cit., p. 240. Nella traduzione italiana del colloquio il brano è pubblicato fra omissis: «[...] … se c’è una cosa da fare, che bisogna proprio fare fin dalle primissime prove, dalle prove d’orchestra, è proprio cantare a piena voce, per il tuo bene ma anche per il bene dei colleghi… [...]». (M. Callas, Seducenti voci, cit., p. 58).
49 N. Rescigno, Prefazione, in J. Ardoin, Maria Callas. Lezioni di canto alla Juilliard School of Music, Traduzione di L. Spagnol, Milano, Longanesi, 1988, p. 9.
50 A. Stassinopoulos, Maria Callas al di là della leggenda, cit., p. 182.
51 F. Rosti (a cura di), Musica maestri! Il direttore d’orchestra tra mito e mestiere, Milano, Feltrinelli, 1985, pp. 121-122.
52 M. Bellinetti, Serafin e l’Arena, in T. Celli, G. Pugliese, Tullio Serafin. Il patriarca del melodramma, cit., p. 205.
53 S. Galatopoulos, Maria Callas Sacred Monster, cit., p. 429.
54 V. Nemirovich-Dancenko, La nascita di un nuovo teatro, traduzione italiana di F. Malcovati, in «Prove di Drammaturgia», n. 2/2007, p. 8.
55 F. d’Amico, Trionfale rientro di Maria Callas alla Scala (1960), in Scritti teatrali 1932-1989, Milano, Rizzoli, 1992, p. 111.
56 Lugné-Poe, Avec Eleonora Duse, nella miscellanea Oeuvres Libres (Paris, Fayard) del novembre 1932, pp. 20-21, cit. in M. Schino, Il teatro di Eleonora Duse, Bologna, il Mulino, 1992, pp. 85-86.
57 M. Schino, Il teatro di Eleonora Duse, cit., p. 86.
58 A. Votto, cit. in A. Stassinopoulos, Maria Callas al di là della leggenda, cit., p. 130.
59 Cfr. R. Wagner, Del dirigere (titolo originale: Über das dirigieren), a cura di F. Gallia, Pordenone, Edizione Studio Tesi, 1989.
60 F. Weingartner, Della direzione d’orchestra (1895), Prima traduzione italiana di N. N., al link https://www.rodoni.ch/malipiero/adrianolualdi/artedidirigere/weingartnerlualdi.html.
61 C. Wagner, La mia vita a Bayreuth. Lettere e appunti 1883-1930, a cura di D. Mack, trad. it. di U. Gandini, Milano, Rusconi, 1982, p. 425.
62 Maria Callas – Interview with Pierre Desgraupes and Luchino Visconti (1969), VocidellaLirica. Pubblicato il 26 ottobre 2012, in https://www.youtube.com/watch?v=NSGJVkonOks.
63 M. Callas, Prologo, in J. Ardoin, Maria Callas. Lezioni di canto alla Juilliard School of Musica, cit., p. 21.
64 "La Scala e i suoi protagonisti", di Dora Ossenska, consulenza Gianpiero Tintori, fotografia Nando Forni, montaggio Roberto Borghi, regia Dora Ossenska, "Maria Callas, i giovani cantanti e i loro problemi", pubblicato il 16 settembre 2011, al link https://www.youtube.com/watch?v=RtUi-dm518U.
65 M. Wallmann, Balconate del cielo, Milano, Garzanti, 1976, p. 128.
66 Ivi.
67 R. Muti, in Maria Callas, Lettere. Scritti Interviste Pensieri, Roma, Pantheon, 2008, p. 60.
68 Musica Maestri!, cit., p. 119.
69 G. Gavazzeni, Prefazione, in T. Celli, G. Pugliese, Tullio Serafin. Il patriarca del melodramma, cit., pp. 9-12:11.
70 "Mi piace far sapere ciò che penso" (Conversazione con Bernard Gavoty, Parigi, Maggio 1965), in M. Callas, Lettere. Scritti Interviste Pensieri, Roma, Pantheon, 2008, p. 131.
71 M. Callas, Prologo, in J. Ardoin, Maria Callas. Lezioni di canto alla Juilliard School of Musica, cit., p. 21.
72 A Pierre Desgraupes che l’elogia per la dedizione con cui serve la musica, Maria Calla risponde precisando che lei serve «l’intangibile», Maria Callas – Interview with Pierre Desgraupes and Luchino Visconti (1969), cit.
73 J. Ardoin, Maria Callas. Lezioni di canto alla Juilliard School of Musica, cit., p. 112.
74 M. Callas, Seducenti voci, cit., p. 66.
75 Cit. in P.A. Castanet, N. Cisternino (a cura di), Giacinto Scelsi. Viaggio al centro del suono, La Spezia, Luna editore, 1993, p. 19.
76 Cfr. N. Sani, Cercando... Scelsi, in «i suoni le onde... Riviste della fondazione Giacinto Scelsi», ottobre 2005-febbraio 2006, p. 8.
77 M. Callas, Seducenti voci, cit., p. 87.
78 Cfr. G. Guandalini, Callas l’ultima diva, Torino, EDA, 1987, p. 16. V. anche T. Serafin, A triptych of singers, in «Opera Annual», 1962, n. 8.
79 T. Serafin, Addio alla Callas (4, maggio, 1958), in T. Celli, G. Pugliese, Tullio Serafin. Il patriarca del melodramma, cit., p. 231.
80 T. Serafin, Tullio Serafin racconta (febbraio 1960), in ivi, p. 67
81 A. Pompilio e M. Ricordi (a cura di), Carteggio Verdi-Ricordi 1886-1888, Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, 2010.
82 T. Serafin, Tullio Serafin racconta, cit., p. 74.
83 Ivi, p. 37.
84 L. Adami, F. Colombo, commedia in tre atti, al link http://copioni.corrierespettacolo.it.
85 Ivi, p. 35.
86 S. Tofano, Il teatro all’antica italiana, Milano, Rizzoli, 1965, p. 25.
87 M. Schino, La nascita della regìa teatrale, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 135.
88 T. Serafin, Tre cantanti, in «Discoteca. Rivista mensile di dischi e musica», 15 luglio 1961, pp. 32-35: 35. La parte relativa a Maria Callas è nuovamente edita in Mille e una Callas, cit., pp. 371-373: 372-373.
89 Maria Callas in S. Galatopoulos, Maria Callas Sacred Monster, cit., p. 429.
90 Ivi, p. 430.
91 Ivi.
92 Ivi.
93 Ivi, p. 431.
94 Ivi, p.430.
95 M. Callas, Lettere, cit., p. 122.
96 G. Gavazzeni in Processo alla Callas, cit., p. 21.
97 M. Callas, Prologo, cit., p. 431.
98 A. de Musset, Stances pour la mort de M. Malibran, in R. Giazotto, Maria Malibran, Torino, ERI Edizioni, 1986, pp. 493-495:495. La traduzione è mia.
99 F. Berio Di Salsa, Otello (prima esecuzione: 4 dicembre 1826, Napoli), in www.librettidopera.it.
100 A. de Musset, Stances pour la mort de M. Malibran, cit., p. 495.
101 Sulla triplice modalità di conduzione scenica delle cantanti del primo ottocento – codificata, improvvisata, in parte codificata e in parte improvvisata – cfr. G. Guccini, Note sulla cultura del corpo nei cantanti lirici, in C. Falletti (a cura di), Il corpo scenico, Roma, Editoria & Spettacolo, 2008.
102 B. Tosi, Casta diva. L’incomparabile Callas, Roma, Associazione Culturale ‘Maria Callas’, 1993, p. 177.
103 G. Vigolo, Astronomia popolare, in «Il Mondo», 1° febbraio 1955.
104 G. Pannain, La tragedia dell’umano dolore nella ‘Medea’ di Cherubini, in «Il Tempo», 23 gennaio 1955.
105 M. Praz, Sulla libertà d’improvvisazione, in «Il Tempo», 3 febbraio 1955.
106 G. Pannain, Libertà ma non arbitrio d’interpretazione. Gli aurei precetti di Amleto per la ‘Medea’ di Cherubini, in «Il Tempo», 4 febbraio 1955.
107 A. Stassinopoulos, Maria Callas al di là della leggenda, cit., p. 271.
108 G. Pannain, Rinnovato trionfo di Maria Callas nella tragica ‘Medea’ di Cherubini, in «Il Tempo», 12 dicembre 1961.
109 A. Stassinopoulos, Maria Callas al di là della leggenda, cit., pp. 275-276.