Mahmoud Darwish: poeta dei vinti

Angela Peduto
28 giugno 2025
Tammam Azzam, Syrian Museum*, 2012

ههنا، بين شظايا الشيء

واللاشيء، نحيا

في ضواحي الأبديةْ

نلعب الشطرنج أحياناً، ولا

نأبهُ بالأقدارِ خلف الباب

ما زلنا هنا

نبني من الأنقاض

أبراج حمام قمرية.

Qui, tra schegge di cose
e di nulla, viviamo
ai margini dell’eternità.

Giochiamo a scacchi, a volte,
incuranti dei destini dietro la porta.
Siamo ancora qua
a costruire da macerie
colombaie lunari.

“Ho scelto di essere un poeta troiano. Sono risolutamente dalla parte dei vinti.

Ho scelto di essere il poeta di Troia perché Troia non ha raccontato la sua storia. E noi, fino ad oggi, non abbiamo raccontato la nostra.

Dimentichiamo che il carceriere è, in un certo senso, prigioniero lui stesso: è un prigioniero senza orizzonte, non ha una missione, non cerca di realizzare la sua libertà ma di impedire all’altro di essere libero, è vittima di sé stesso. Il carceriere non può cantare perché ignora tutta della malinconia, non ha rimpianto del cielo né nostalgia del mare. Il prigioniero, invece, canta perché è il solo modo per sentire e provare la propria esistenza. E, nel fondo di sé, si sente più libero del suo carceriere, che non ha coscienza della propria libertà e della propria solitudine. La poesia consiste nel farci dono di questa forza, per quanto fittizia essa sia.

(Mahmoud Darwish)

Poeta e scrittore arabo palestinese (Al-Birweh 1941 - Houston 2008), Mahmoud Darwish è uno tra i più importanti poeti di lingua araba del Novecento. La sua vita è erranza ed esilio.  È la lingua, la parola poetica, a farsi asilo e offrirgli una patria. Una poesia che occorre leggere e rileggere oggi, mentre assistiamo sconvolti e impotenti al debordare della violenza, all’oltraggio quotidiano dei principi umanitari fondamentali, alla caduta, uno dopo l’altro, dei principi del diritto e della giustizia. La guerra stessa in Medio Oriente deborda i confini del presente, così come i confini geografici: erede di tutto ciò che il passato non ha saputo o voluto affrontare e risolvere, essa delinea anche i contorni di un possibile mondo futuro che può soltanto atterrirci. Nel frastuono e nel caos in cui siamo immersi abbiamo bisogno di una parola piena, libera, nobile, capace di restituirci a quel senso di umanità e a quella dignità del vivere insieme che sentiamo smarrirsi nel fracasso dell’odio e delle bombe. 

Darwish scrisse, in un libro di scambi e interviste, che la Palestina è metafora: “metafora dell’esilio, della condizione umana, del dolore generato dallo sradicamento e dalla spoliazione”. Metafora, occorre aggiungere oggi, - in questo tragico presente i cui giorni si contano dal 7 ottobre e si perdono in un futuro nebuloso -, del disgregarsi delle forze di vita, di solidarietà tra gli esseri umani, di pietas, tanto da farci temere di essere sprofondati in quei cupi abissi di cui l’umano è capace. Quale ritorno sarà possibile?

Esponente dell’OLP e considerato poeta nazionale della Palestina, Darwish ha sempre rivendicato la grande complessità di rapporti con la politica. “Nelle nostre vite la politica non è un affare di partiti, ma uno dei nomi che prende il destino”.

Del resto la politica irrompe presto e brutalmente nella sua vita. A sette anni, svegliato in piena notte dalla madre, si ritrova in fuga sotto i proiettili: è il 1948, anno della nascita dello Stato d’Israele e dell’esodo forzato di più di 750.000 palestinesi: la Nakba, la catastrofe. Approda in Libano, dove conosce per la prima volta lo stato di profugo.

“Aspettavamo che la guerra finisse per poter tornare nei nostri villaggi. Mio nonno e mio padre sapevano che non sarebbe successo. Siamo tornati di nascosto con una guida palestinese che conosceva i sentieri segreti a nord della Galilea. Siamo stati a casa di un amico finché non abbiamo scoperto che il nostro villaggio, Al-Birweh, non esisteva più”: il villaggio era stato distrutto: al suo posto sorgeva un kibbutz.

Inizia la condizione di clandestino nel proprio paese.

“Non potevamo tornare al nostro villaggio, quindi restammo in un villaggio chiamato Deir al-Asad, nel nord. Eravamo considerati rifugiati e avevamo grandi difficoltà a ottenere la carta di soggiorno, perché eravamo entrati 'illegalmente', ovvero eravamo assenti quando gli israeliani avevano registrato la popolazione palestinese. Il nostro status giuridico secondo la legge israeliana era quello di 'assenti presenti', cioè eravamo fisicamente presenti, ma senza documenti”.

Comincia una vita di esilio. Per dieci anni vive ad Haifa, dove completa gli studi superiori. Sono gli anni della poesia “rivoluzionaria e patriottica”, nella quale denuncia le sofferenze dei palestinesi, le sopraffazioni subite, le distorsioni del pensiero politico e ideologico sionista. Diventa il poeta della causa palestinese. 

Le poesie gli valgono il carcere e una sorveglianza costante. Non gli è permesso lasciare la città e dal 1967 al 1970 non gli è permesso uscire di casa. “La polizia aveva il diritto di venire di notte per assicurarsi che fossi ancora a casa. Ogni anno venivo arrestato e rilasciato senza processo. Alla fine ho dovuto andarmene".

Nel 1971 raggiunge Il Cairo.

“Al Cairo ero sicuro della mia decisione di lasciare la Palestina e di non tornare. Non era stata una decisione facile. Mi svegliavo senza sapere dove mi trovassi. Aprivo la finestra e quando vedevo il Nilo capivo di essere al Cairo. Avevo frequenti incubi, ma ero affascinato dall'essere in una città araba, con nomi di strade arabi, dove la gente parlava arabo. Inoltre, mi ritrovavo a vivere tra i testi letterari che leggevo e che mi affascinavano. Dopotutto, sono praticamente un figlio della cultura e della letteratura egiziana. Ho incontrato gli scrittori che leggevo e che consideravo i miei padri spirituali. Ho incontrato Mohamed Abdel Wahab, Abdel Halim Hafez e altri. Ho incontrato scrittori affermati come Naguib Mahfouz, Yusuf Idris e Tawfiq al-Hakim. […] Ho stretto amicizia con i poeti che amavo: Salah Abdel-Sabour, Ahmed Hijazi e Amal Denkul. Erano tra i miei amici più cari, insieme ad Al-Abnoudi”.

La parola poetica diventa la sola via per scongiurare la perdita, l'assenza e la cancellazione di un mondo. “Poeta troiano”, “perché Troia non ha raccontato la sua storia”, egli sta dalla parte dei perdenti: “Il linguaggio della disperazione è poeticamente più forte di quello della speranza. Perché nella disperazione c'è abbastanza spazio per contemplare il destino dell'uomo, per affacciarsi come una finestra sulla riva umana, mentre il vincitore ne è privato. (...) La forza della disperazione sta nel fatto che dona il senso della propria capacità di comporre una nuova presenza umana. La disperazione può dare un nuovo inizio alla Creazione. Amo la poesia perché ci fa dono di una forza, anche se fittizia”. Altrove dice: “Io difendo la forza della debolezza contro la forza della forza”. Dopo la Guerra dei Sei Giorni, nel giugno 1967, il disastro degli eserciti arabi, l'espansione dell'occupazione israeliana e una nuova ondata di profughi palestinesi, l'opera del “poeta di Troia” assume una risonanza enorme, da un capo all'altro del mondo arabo. Migliaia di persone accorrono per ascoltare le sue letture poetiche. 

Tanto il “feroce amore” dei suoi quanto l’odio della parte avversa rinchiudono la sua poesia in una identità che egli sente troppo stretta, troppo riduttiva. 

Dopo il Cairo, si trasferisce a Beirut, dove si fermerà per alcuni anni: un laboratorio di idee politiche, intellettuali e letterarie che sarà distrutto dalla guerra civile. Alla fine della guerra nulla lo prepara all’invasione israeliana. “Una mattina, mentre vivevo ad Al-Hamra, uscii per comprare il pane e vidi un enorme carro armato israeliano. Israele era entrato prima di annunciare il suo ingresso. Mi ritrovai solo a vagare per le strade e non vedevo altro che carri armati, soldati israeliani e uomini mascherati. Furono giorni difficili, non sapevo dove dormire. Dormivo fuori casa, in un ristorante. Chiamavo i vicini per chiedere se gli israeliani mi stessero cercando. Se mi dicevano "Sì, sono venuti", capivo che non sarebbero tornati, quindi tornavo a casa, facevo una doccia, riposavo e poi tornavo al ristorante. Fino al grande disastro, i massacri di Sabra e Shatilla. Allora ho capito che restare in Libano era assurdo e avventato […] Organizzai la mia partenza con l'ambasciatore libico a Beirut dell'epoca. Lui aveva la possibilità di farmi uscire da Al-Ashrafieh, che era controllata dalla milizia, e portarmi in Siria. Ma doveva trovare un modo per portarmi da casa mia all'ingresso di Al-Ashrafieh. Un ufficiale libanese trovò una strada sicura. Una volta arrivati a Tripoli, andammo in un ristorante a mangiare pesce, eravamo stanchi di mangiare cibo in scatola; dopo essere andato in bagno a lavarmi le mani, mi guardai allo specchio e vidi un naso con gli occhiali. Per alcuni secondi non riconobbi il proprietario di quel viso. Era come se stessi guardando il viso di un'altra persona”.

L’ultimo esilio è a Parigi, dove passa dieci anni e dove la sua vocazione poetica matura pienamente. È libero di scrivere e la distanza gli permette di “scavare nel mondo interiore” per trovare la propria voce e la propria singolarità, per cantare la Storia al di là dell’immediato. “Il problema letterario permanente, per noi palestinesi, è che siamo condannati ad essere figli del momento immediato: perché il nostro presente non si decide né a iniziare né a finire. Come se racchiudesse la Storia tutta intera. Il presente è così duro che occulta la sua stessa storicità, il suo passato e il suo avvenire”.

A Parigi scrive il testo della Dichiarazione di Indipendenza palestinese, proclamata il 15 dicembre 1988 da Yasser Arafat. Negli anni trascorsi a Beirut e poi a Tunisi, la sua carriera si intreccia con quella dell'OLP. Considerato il “ministro della cultura” ufficioso dell'organizzazione - era membro del comitato esecutivo - scrive i discorsi di Yasser Arafat. Si dimetterà poco prima della firma degli accordi di Oslo, ponendosi all'opposizione di un “processo di pace” che, a suo giudizio privo di contenuti, avrebbe solo ratificato la ghettizzazione.

Nel 1993, dopo gli accordi di Oslo, rientra finalmente in Medio Oriente e si stabilisce a Ramallah. Sono gli anni della grande produzione “lirico-epica”. In questa lunga fase il poeta dialoga con le esperienze tragiche dell’umanità, alla ricerca di una sintesi tra il dentro e il fuori, di un equilibrio che gli permetta di scrivere nella sua epoca ma non per la sua epoca. “Non credo che la Palestina sia il solo alibi poetico. Ogni soggetto è un alibi. Dove vive la poesia? Nel soggetto che affronta o nella sua indipendenza estetica dal soggetto?” 

Sempre più sembra farsi strada la necessità di “passare dall'oggetto, la Palestina, al soggetto, il palestinese”, liberarsi, a tutti i costi, dalle pressioni politiche esterne, per trovare un modo di “contemplare l'umano in noi stessi”. “Il poeta palestinese deve reintegrare il suo io, e allora la tragedia palestinese troverà la sua espressione più raffinata”.

“Malgrado le divergenze, ciò che sta alla base dell'identità araba è la lingua: la mia identità è legata innanzitutto alla lingua araba. E intrattengo con essa una vera relazione d'amore. Non passa giorno senza che senta fino a qual punto non la padroneggio. La lingua araba è estremamente sensoriale, eccezionalmente ricca; il suo genio risiede nel lessico. C'è una parola per “cavallo bianco” e un'altra per “cavallo baio”, lo stesso vale per le età dell'uomo. L'arabo è di una precisione inaudita. Forse perché il deserto è per sua essenza luogo di meditazione e gli Arabi delle origini avevano molto tempo per meditare sulle sfumature del mondo. Se la lingua è apparsa più povera quando si trattava di formulare concetti, ha saputo attingere ad altre lingue, come il greco. Gli scrittori e i filosofi del Medioevo seppero arricchire questa lingua altamente sensibile con un vocabolario astratto. Averroè, nel XII secolo, fu, non dimentichiamolo, il grande commentatore di Aristotele”.

Mahmoud Darwish muore nel 2008, a 67 anni, dopo aver subito un delicato intervento chirurgico al cuore; aveva chiesto di non essere rianimato se l’operazione fosse fallita.

علَى هَذِهِ الأَرْض

تَرَدُّدُ إبريلَ,

رَائِحَةُ الخُبْزِ فِي الفجْرِ،

آراءُ امْرأَةٍ فِي الرِّجالِ،

كِتَابَاتُ أَسْخِيْلِيوس،

أوَّلُ الحُبِّ،

عشبٌ عَلَى حجرٍ،

أُمَّهاتٌ تَقِفْنَ عَلَى خَيْطِ نايٍ,

وخوفُ الغُزَاةِ مِنَ الذِّكْرياتْ.


عَلَى هَذِهِ الأرْض ما يَسْتَحِقُّ الحَيَاةْ:

نِهَايَةُ أَيلُولَ،

سَيِّدَةٌ تترُكُ الأَرْبَعِينَ

بِكَامِلِ مشْمِشِهَا,

ساعَةُ الشَّمْسِ فِي السَّجْنِ،

غَيْمٌ يُقَلِّدُ سِرْباً مِنَ الكَائِنَاتِ،

هُتَافَاتُ شَعْبٍ لِمَنْ يَصْعَدُونَ إلى حَتْفِهِمْ بَاسِمينَ,

وَخَوْفُ الطُّغَاةِ مِنَ الأُغْنِيَاتْ.


عَلَى هَذِهِ الأرْضِ مَا يَسْتَحِقُّ الحَيَاةْ:

عَلَى هَذِهِ الأرضِ سَيَّدَةُ الأُرْضِ،

أُمُّ البِدَايَاتِ أُمَّ النِّهَايَاتِ.

كَانَتْ تُسَمَّى فِلِسْطِين.

صَارَتْ تُسَمَّى فلسْطِين.

سَيِّدَتي: أَستحِقُّ، لأنَّكِ سيِّدَتِي،

أَسْتَحِقُّ الحَيَاةْ.

 

Su questa terra

Su questa terra hanno diritto alla vita:
il ritorno di aprile,
l’odore del pane all’alba,
le opinioni di una donna sugli uomini,
gli scritti di Eschilo,
l’inizio di un amore,
l’erba nata sopra una pietra,
le madri in piedi sul filo del flauto
la paura dei ricordi che invade gli invasori.

Su questa terra hanno diritto alla vita:
la fine di settembre,
una donna che saluta i quarant’anni
in tutto il suo splendore,
l’ora d’aria in una prigione,
le nuvole che imitano uno stormo di creature,
le grida di un popolo a coloro che sorridono alla morte,
la paura dei canti che assale i tiranni.

Su questa terra hanno diritto alla vita
la signora della terra,
la madre degli inizi e la madre di tutti i finali:
si chiamava Palestina, si chiama ancora Palestina.
Signora: io merito – perché sei la mia signora –
io merito la vita.

*******


Gioioso per qualcosa di invisibile,
cammino sognando una poesia blu
di due versi soltanto,
due versi di una gioia leggera,
visibile e invisibile insieme.
Chi non ama adesso, questa mattina,
non amerà.

(Da La saggezza del condannato a morte e altre poesie (emuse 2022), cura di Tareq Aljabr. Traduzioni di Tareq Aljabr e Sana Darghmouni).

Fonte

* La serie del Museo Siriano creata dall’artista siriano Tammam Azzam incorpora capolavori dell’arte europea, espressione altissima della capacità umana di creare, a immagini della distruzione che l’umanità è in grado di infliggere. Qui La danza di Matisse.

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